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Basilio Pergi
 

 

 

BASILIO PERGI: PROFILO DI UN UOMO

E DEI SUOI INTERESSI CULTURALI
 

Anche se spesso non lo danno a vedere, gli archeologi sono di solito estremamente sensibili al genere di interlocutori, più o meno occasionali, che incontrano nel corso delle loro ricerche sul terreno. A parte quanti ne sono direttamente coinvolti, proprietari e conduttori del fondo, operai, ecc., essi entrano prima o poi in contatto con persone interessate, che desiderano « saperne qualcosa di più ». Fino a qualche anno fa, prima che l'interesse per l'archeologia diventasse un fenomeno di massa, tra questi non numerosi interlocutori ricorrevano per lo più figure ben precise: il notabile cultore di studi umanistici, con interessi piuttosto astratti, desideroso di lunghe discussioni, ma che di fronte alla tangibile, e di solito modesta realtà dello scavo restava regolarmente deluso; l'appassionato dall'approccio viceversa fin troppo concreto, da collezionista, buon conoscitore di luoghi e reperti, ma che spesso travalicava nello scavatore di frodo; il dilettante con presunzioni scientifiche, magari spicciativamente avallate nelle sedi competenti, animato da tensioni competitive; il contadino, osservatore attento e preciso, il cui interessamento era invece vivo, autentico, ma inevitabilmente episodico.

Basilio Pergi, conosciuto nel lontano 1960, in visita sullo scavo della necropoli « protovillanoviana » di Poggio La Pozza presso Allumiere, in cui chi scrive era impegnato assieme alla moglie, non corrispondeva a nessuno di questi tipi umani. Cordialissimo, e al tempo stesso schivo, riservato, la sua partecipazione per le nostre ricerche era viva, autentica, ma anche costante; piena di concretezza, di esperienza, di capacità di osservazione, di acume, eppure disinteressata; le sue cognizioni, manifestate con modestia e semplicità, si rivelavano preziose; i suoi interessi non erano eruditi né da collezionista, ma schiettamente culturali. Tra il maturo perito agrario e i giovani archeologi si formò una corrente di simpatia, che col passare del tempo si trasformò in amicizia, sobria, piena di ritegni e perciò scevra da slanci di confidenza, ma sincera e solida.

Attraverso gli anni, a poco a poco, imparammo a conoscere meglio la personalità umana ed intellettuale di Basilio Pergi. Ci accorgemmo che gli interessi archeologici non erano che una piccola parte della gamma delle sue curiosità intellettuali, che, rivolte alle scienze umane e naturali nel loro insieme, formavano, soprattutto intorno a tutto ciò che riguardava la sua terra, un fitto e robusto intreccio. Al tempo stesso, la natura del nostro rapporto andò mutando. Sempre più spesso non era più Basilio Pergi a chiedere, e noi a rispondere, ma il contrario. Grazie a ciò che egli ci andava illustrando, il nostro interesse professionale, settoriale per l'archeologia dei Monti della Tolfa si arricchiva di spunti diversi, si inseriva in un quadro più ampio, metteva radici, si faceva, a sua volta, autenticamente culturale. Da ultimo egli ci andava narrando quelle stesse cose che raccoglieva e annotava, e che ora sono esposte in questo libro: e da quei racconti di storia e di vita noi restammo affascinati. Il saperli trascritti e destinati alla pubblicazione ha un po' attenuato il dolore per la sua morte improvvisa.

Basilio Pergi era nato a Tolfa nel 1911, da una famiglia dedita da parecchie generazioni alle professioni, e specialmente all'agrimensura. Famiglia di vivaci e svariati e antichi interessi culturali, come testimoniano i libri della biblioteca, le preziose carte dell'archivio domestico, la collezione di reperti archeologici provenienti da scavi regolari, effettuati negli anni '60 del secolo scorso con l'autorizzazione del governo pontificio.

Trasferitosi da bambino con i suoi a Civitavecchia, vi fece i suoi studi e vi prese il diploma di perito agronomo; ma subito dopo, agli inizi degli anni '30, tornò di nuovo a Tolfa per esercitarvi la sua professione. E' a quegli anni che risale la completa conoscenza dei suoi monti, percorsi palmo a palmo a piedi o a cavallo, passando la notte nelle capanne dei campagnoli e condividendone la durissima esistenza; è a quegli anni che si riferiscono le osservazioni, le impressioni, le testimonianze sulla vita dei campi raccolte in questo volume.Torna su

Verso il '36 emigrò in Albania, geometra alle dipendenze dell'impresa di Vaselli; là fu sorpreso dalla guerra e militarizzato. In seguito allo sbandamento delle forze italiane tornò a casa clandestinamente, assieme a pochi compagni, con una lunga e avventurosissima fuga in Jugoslavia, Austria, Italia settentrionale e infine attraverso le linee del fronte.

Messa su famiglia, si stabilì a Civitavecchia, e attorno al '50 divenne funzionario dell'Ente Maremma, con il compito di dirigere i lavori di trasformazione conseguenti alla riforma agraria e di indirizzare e consigliare gli assegnatari dei poderi. Riprese così a battere incessantemente le campagne dell'Alto Lazio, di cui conosceva ogni angolo. Quando si facevano delle escursioni assieme a lui, era fonte di sempre rinnovata, divertita sorpresa accorgersi come i contadini, dovunque arrivasse,. avessero, non si sa come, individuato in anticipo la sua ben conosciuta presenza. Da per tutto era circondato di cordialità e simpatia. Il carattere riservato non gli impedì di svolgere una vita associativa piuttosto intensa. All'Azione Cattolica era iscritto fin da ragazzo. Mi sconcertò scoprirlo un giorno socio del Rotary, dati i suoi scarsi interessi mondani. Solo recentemente ho appreso dalle figlie che vi aveva aderito in un momento in cui il club di Civitavecchia era soprattutto una occasione di incontri alla buona tra un gruppo di amici, che ne perseguivano con serietà ed impegno pragmatico le finalità sociali di analisi e contributo alla soluzione dei problemi della collettività.

Dell'antica e benemerita associazione archeologica locale, la «Centumcellae», è stato vicepresidente dal 1959 alla morte (1980). Con il presidente Pirani e il segretario-tesoriere Ferrari formavano un terzetto inseparabile, che ha retto con equilibrio e buon senso le sorti dell'Associazione in circostanze non sempre facili. Per gli archeologi italiani e stranieri attivi nell'Alto Lazio la « Centumcellae » ha sempre rappresentato un confortevole punto di riferimento, un luogo d'incontro con interlocutori preziosi e cordiali. Principio informatore della linea di condotta sulla quale Basilio Pergi intendeva — e molte volte riuscì ad ottenere — si indirizzasse l'Associazione era quello di non cercare di sostituirsi agli archeologi professionali, di rispettare l'autorità degli organi preposti alla tutela, ma di svolgere nello stesso tempo un'azione costante di segnalazione e di sollecitazione non solo nei confronti di questi, ma anche degli specialisti interessati, cercando di individuarne le specifiche competenze, e di convogliarle, mediante opportuni contatti, verso i diversi oggetti e problemi che via via si presentavano. Concetti che potrebbero apparire ovvi, se non fosse così rara la loro applicazione da parte delle associazioni archeologiche locali del nostro Paese.

In campo specificamente archeologico, Basilio Pergi era interessato più al contesto territoriale che alle singole emergenze, più agli aspetti topografici che ai reperti mobili anche vistosi, come si può rilevare dai suoi lavori a stampa più significativi, quello sugli stanziamenti etruschi della valle del Mignone e quello sul centro etrusco di Luni, quest'ultimo scritto in collaborazione con altri amici. Molto gli giovarono in questi e altri lavori le sue capacità professionali, che gli consentivano di accompagnare il testo con rilievi topografici nitidi e precisi quanto le riproduzioni grafiche di elementi architettonici e strutturali.

Le stesse tendenze si rilevano nelle numerose segnalazioni alla Soprintendenza e relazioni manoscritte su escursioni o interventi sul terreno. Accanto a questa attività più specifica, tecnica, Basilio Pergi ne svolgeva una più ampia, di divulgazione culturale, sia nell'ambito della vita della « Centumcellae » (conferenze, numerose visite guidate), sia attraverso la pubblicistica, vuoi con articoli di giornale firmati e non firmati, vuoi fornendo spunti e informazioni ai giornalisti. E' qui che emerge l'ampiezza e varietà dei suoi interessi culturali, senza soluzione di continuità tra l'archeologia e le altre discipline storiche; e più questi interessi si legano alle sue concrete esperienze di vita, più si fanno vivide ed autentiche.

Lo si vede bene negli scritti raccolti in questo libro. La riflessione sui temi storici vi si fa tanto più penetrante, quanto più quei temi, sebbene lontani nel tempo, si legano ad osservazioni dirette e a ricordi, come pure alla sua professionalità; e al tempo stesso l'attenzione a fatti concreti, le riminiscenze, l'esperienza del mestiere si traducono in una scrittura tanto più valida e vivida, quanto più filtrata attraverso la meditazione di problemi che le trascendono. Di qui il concatenarsi di questi scritti in filoni, anzi, in ultima analisi, in un unico filone. Così, Il mestiere di campagnolo è sostanzialmente una diretta testimonianza di vita vissuta, quella dei primi anni giovanili passati da agrimensore sui Monti della Tolfa; ma Un mestiere scomparso: il mercante di campagna, che al precedente si lega in modo diretto, è già per la maggior parte una ricostruzione, basata su narrazioni e reminiscenze altrui; e L'Università Agraria è anch'essa, in modo del tutto analogo, una ricostruzione, in cui però ai racconti orali vengono a sostituirsi le vecchie carte e i documenti dell'archivio di famiglia. Allo stesso modo, Il « festino », con il suo cogliere prima del loro estinguersi antiche forme di vita associativa popolare, si riannoda al mondo, descritto in L'Ospedale di S. Giovanni, delle confraternite dei secoli passati, in cui quelle forme trovavano ancora una loro collocazione istituzionale, grazie alla quale esplicavano tutta la loro vitalità e capacità di grandi realizzazioni.Torna su

Questa unità quasi organica tra vissuto ed interessi culturali, sia pure, beninteso, all'interno di una sfera delimitata dalle circostanze, costituisce dunque il tratto più caratteristico della personalità di Basilio Pergi, tanto più invidiabile in un tempo in cui, un po' in tutti noi, la dissociazione tra vita e cultura, e dei diversi aspetti e momenti della cultura tra loro, non potrebbe essere più completa. Personalità dominata da una serietà costante e profonda, scevra da intellettualismi, sviluppatasi così grazie ad un mestiere sostanziato di concretezza; ma anche specchio dí una umanità vitale ed armoniosa, che a chi lo conobbe ispirava tanta simpatia, la stessa calda simpatia che si prova leggendo le sue pagine.

RENATO PERONI

INTERESSE DOCUMENTARIO DEGLI APPUNTI DI

BASILIO PERGI IN RELAZIONE ALLA STORIA

ECONOMICA E SOCIALE DELLA TOLFA
 

Nel panorama non vasto di studi di storia tolfetana, l'opera del Pergi contribuisce a colmare una lacuna, grazie ai particolari interessi coltivati dall'autore, che affronta argomenti abbastanza recenti ma ormai del tutto dimenticati. Egli si pone in una prospettiva non storico-politica e neppure specificatamente sociologica degli avvenimenti, ma tende a ricostruire ed evidenziare l'aspetto umano, sotteso alla trama dei rapporti degli abitanti fra di loro e del paese nel suo insieme nei confronti delle città vicine.

Basandosi su esperienze dirette e su una personale, profonda conoscenza del territorio, frutto degli interessi di tutta una vita, egli indaga le radici storiche di vari istituti tipici di questo paese con uno spirito che parte dal vissuto quotidiano e non da speculazioni libresche. Forse per la prima volta, riguardo a Tolfa, non si fa la storia di avvenimenti eccezionali o di grandi personaggi, ma della vita quotidiana come era alla fine dell'Ottocento e dei rapporti di lavoro come si strutturavano e ancora in gran parte si strutturano. Essi sono originali, perché Tolfa è un paese agricolo ma non ha mai conosciuto né il latifondismo preponderante né l'eccessivo spezzettamento del terreno; e ciò in quanto è in vigore per lo meno da tre secoli, e forse anche da cinque, l'istituto dell'Università Agraria, cioè la proprietà collettiva della grandissima maggioranza del terreno che viene annualmente distribuito in uso ai cittadini, che ne fanno richiesta, secondo la loro necessità.

Questa prospettiva particolare non è affatto presa in considerazione dal piccolo gruppo di appassionati tolfetani che, negli ultimi tre secoli, si sono prodigati per sottrarre all'oblio le memorie del loro paese. Fra i più importanti bisogna ricordare Domenico Buttaoni (1678-1752), che ha lasciato numerosi appunti manoscritti sulla storia locale; Filippo Maria Mignanti (morto nel 1867), autore di vari studi che riguardano le chiese costruite o restaurate nel XVI e XVII secolo e le vicende relative al ritrovamento e allo sfruttamento dei vari minerali; Alessandro Bartoli (1824-1905) che ha lasciato una vasta serie di appunti relativi agli ultimi due secoli.

Ma l'opera più compiuta in materia è senz'altro « Tolfa » di Ottorino Morra (1906-1977), che presenta un ampio profilo storico accompagnato da una guida illustrativa del paese (Civitavecchia 1978, a cura della locale Cassa di Risparmio). In essa lo studioso presenta una puntuale analisi dei vari periodi storici, documentandola ampiamente e facendo così il punto di tutte le ricerche compiute pre¬cedentemente in una vasta sintesi originale. Egli passa in rassegna tutti gli studi esistenti, compresi quelli manoscritti e non pubblicati, vagliandone con severità la veridicità storica, di cui dà sempre accurata testimonianza. L'opera è vasta ed esauriente dal punto di vista della storia diciamo così ufficiale, cioè della vita pubblica, ed è perciò particolarmente attenta agli avvenimenti concernenti la scoperta dell'allume e le vicende ad essa connesse. Questi, per l'interesse che ebbero a livello statale, dell'allora Stato Pontificio, e per l'incremento che diedero alla vita del paese, sono molto documentati, anzi si può senz'altro dire che di tutti gli scritti e gli atti pubblici che riguardano Tolfa la grande maggioranza è legata alle miniere e alla loro attività.

Rimangono invece in ombra gli argomenti riguardanti la vita agricola del paese, sia nei suoi aspetti quotidiani e folkloristici, sia nei rapporti economici che li motivano. Questa visione degli studi storici è stata finora completamente trascurata, e perciò un'opera che si proponga di esaminare i documenti scritti esistenti raccolti nel corso dei secoli, come quella del Morra, non ne presenta quasi traccia.

Proprio in questo si individua l'originalità del presente libro che non si propone di colmare questa o quella lacuna, ma apre, cosa del tutto nuova per quanto riguarda Tolfa, una diversa angolazione della prospettiva storica. Questo perché lo scritto nasce dal contatto quotidiano dell'autore con la vita della campagna e dei campagnoli tolfetani, in una pluridecennale ricognizione del territorio, spesso a piedi o a cavallo, che lo aveva reso espertissimo conoscitore della zona, per quanto vasta essa sia, e dei suoi problemi. Egli era perito agrario e più volte in numerose relazioni aveva messo in evidenza i pericoli derivati dall'incontrollato disboscamento e l'impossibilità di una sistemazione agricola del suolo che fosse economicamente redditizia. Aveva chiaramente individuato e più volte detto e scritto che tutta la zona è a vocazione boschiva o, nella migliore delle ipotesi, pastorale. Tale essa è stata infatti fino ad un secolo fa, perché solo questa utilizzazione si addice all'asperità dei rilievi e salvaguarda il patrimonio idrico, ma anche quello faunistico affatto peculiare. Già venti anni fa, in scritti cioè che risalgono agli anni Sessanta, si trova espresso e documentato questo suo pensiero, insieme con quello conseguente che nel mondo di oggi sta diventando prioritario il problema della conservazione della natura, per la sopravvivenza stessa della specie umana. Certo oggi queste idee sono molto comuni, ma non lo erano altrettanto allora e mi pare qui doveroso ricordare la intuizione anticipatrice dello studioso. Egli aveva dunque capito l'urgente necessità di una qualche forma di protezione del territorio che salvaguardasse l'incontaminata bellezza naturale e che si affiancasse, senza distruggerla, all'economia pastorale e alla piccola coltivazione, in genere orti e vigne, praticate dai paesani. Pur senza mai scendere in particolari circa l'amministrazione e la concreta attuazione di questo progetto, egli vedeva l'indubbio vantaggio che sarebbe venuto al paese da una più diffusa attività turistica, e certo lo pensava nei termini di quella collaborazione e spirito comunitario che rappresentavano per lui la genuina tradizione della vita tolfetana.Torna su

E' proprio quella tradizione che egli ricostruisce in questa sede, riportando esperienze e rapporti di lavoro di contadini e allevatori che costituiscono la popolazione del paese. Non a caso egli era, infatti, conosciuto ed apprezzato da lungo tempo da tutti i tolfetani occupati in campagna.

Su questa trama di interessi, ma anche di rapporti umani, è costituito questo libro che si rifà ad esperienze personali approfondite da una sagace analisi storica della società contadina. Attraverso la disamina spesso volutamente cronachistica di piccoli episodi di vita comune, l'autore coglie due punti salienti nella struttura di tale società. Il primo punto è la peculiarità dei rapporti di lavoro che si creano in base alla anomala distribuzione della proprietà sui Monti della Tolfa per la presenza della già citata Università Agraria; il secondo è il modo di affrontare la vita dei paesani che mettono in comune esigenze e problemi superandoli attraverso strutture di utilità pubblica.

Per quanto riguarda il primo punto, data la forte pendenza dei numerosi rilievi dei Monti della Tolfa, tutto il territorio ha sempre avuto chiara vocazione pastorale, come già accennato, e non si è creata la frantumazione della proprietà tipica delle colture intensive più redditizie; ma non si è creata neppure un'economia esclusivamente latifondista, perché la grande proprietà feudale divenne ben presto pontificia, per trasformarsi poi, forse molto rapidamente, in enfiteusi, quindi in enfiteusi perpetua e infine in piena proprietà non di una famiglia o gruppo di famiglie, ma dell'intera comunità dei paesani.

Questa forma associativa è definita Università Agraria ed è tuttora esistente in varie regioni d'Italia, dove rappresenta ormai rare vestigia di un'epoca passata in cui ebbe una funzione ben più importante. Le varie Università Agrarie, che si denominavano in modi diversi, si fanno infatti risalire alle forme antiche di proprietà collettiva, di cui costituiscono il residuo storico. Si sono sviluppate anche in altri paesi (es. Allmenden in Svizzera e mir russo). Questo godimento di terre aperto a tutti gli abitanti esisteva già nel periodo romano, si sviluppò ancor più all'epoca delle dominazioni barbariche e fu più o meno ridimensionato sotto l'azione dissolvente del feudalesimo. Il sorgere dei comuni influì profondamente su queste forme di proprietà e di gestione, alcune delle quali si confusero nel nuovo ente pubblico, perdendo ogni autonomia, mentre altre si conservarono più o meno indipendenti, coi loro scopi economico-agrari, accanto al comune. Con la diffusione dei principi del liberalismo economico si vide nel principio collettivistico che ispirava tali istituti un impedimento alla libertà delle terre e così si cercò di eliminarli, assorbendoli nei comuni.

Le Università Agrarie oggi sono rimaste in pochissimi luoghi, e in particolare quelle delle provincie pontificie vennero trasformate dallo Stato italiano in enti morali con un'apposita legge (3 agosto 1894).

Questo istituto ha dato adito a forme di lavoro originali, per cui ad esempio ogni anno i proprietari di bestiame e i contadini fanno domanda all'Università per chiedere l'appezzamento di terreno loro necessario che viene concesso ad un fitto nominale; quindi ogni anno si procede ad una nuova suddivisione dei pascoli con relative misurazioni e confini. L'origine e la formazione di tale istituto a Tolfa costituiscono l'argomento di una delle appendici del presente volume, a cui rimandiamo, anche se i documenti sulla materia sono poveri e scarni, e l'Autore non ha potuto completare il lavoro come pensava, a causa della morte quasi improvvisa. Ma ci è sembrato necessario includerla nel volume, perché essa costituisce lo sfondo delle trattazioni precedenti, dove è ben messo in evidenza come tutti i costumi e le abitudini degli agricoltori e dei pastori risentano dell'influenza ed in un certo senso dell'onnipresenza dell'Università.

L'altro punto saliente, che ci sembra opportuno evidenziare nella lettura del libro, è la dimensione comunitaria della vita del paese. Questa risalta sia dagli infiniti particolari, presenti nei racconti, di solidarietà e aiuti reciproci, sia soprattutto dalla caratteristica istituzione di opere di interesse pubblico, come la creazione dell'Ospedale e la costruzione delle chiese. Esse non nascono mai per impulso di un privato ma sono sempre il prodotto di una volontà comune. Da qui il proliferare di confraternite e associazioni con scopi sociali, come per esempio l'arciconfraternita del Gonfalone, che aveva il compito di ricercare e seppellire coloro che erano morti in campagna lontani dal paese e che si reggeva su un generoso volontariato. Ancora più importante era la confraternita del SS. Nome di Dio nata per assistere i malati, soprattutto gli operai delle miniere, che si trasformò in un vero e proprio Ospedale, l'amministrazione e attività del quale però erano in mano alla comunità dei soci, che senza aiuti esterni si basavano solo su offerte spontanee di lavoro o di denaro. L'oscuro e umile lavoro di questi uomini, che senza fini di lucro occupavano parte del loro tempo libero per aiutare i loro concittadini nei momenti di bisogno, è scarsamente reperibile in documenti ufficiali o atti pubblici, ma l'Autore, tolfetano anche lui e saldamente inserito nel tessuto urbano, era in possesso per tradizione famigliare di alcuni verbali delle varie sedute della confraternita che egli decifrò appassionatamente, traendone alcune notizie qui riportate nell'appendice che parla dell'Ospedale di S. Giovanni, ma soprattutto la consapevolezza di questo spirito comunitario che permeava la vita del paese.Torna su

E' indicativo di tale modo di vivere il fatto che la costruzione dei pochi importanti monumenti non è opera del mecenatismo di singoli, ma di impegni del comune e di sottoscrizioni popolari. Quando infatti il paese conobbe l'insperata prosperità derivatale dalla scoperta delle miniere di allume, non utilizzò la maggiore ricchezza a vantaggio esclusivo dei singoli, ma si preoccupò di impiegare parte del denaro in strutture pubbliche, come ad esempio l'ampliamento della chiesa parrocchiale e la costruzione della chiesa di Cibona con annesso convento. Il comune impiego delle risorse infatti nasceva da una comune pietà popolare derivante da un naturale senso religioso, che li portava a creare strutture che fossero nello stesso tempo testimonianza del loro affetto sincero verso gli uomini e verso Dio.

Questa dimensione comunitaria è stata vissuta dagli abitanti sia nei periodi, rari, di ricchezza, sia in quelli più numerosi e protrattisi nel tempo di economia povera.

Ricchezza e miseria, floridità e decadenza si alternano in maniera continua nella vita di Tolfa fino ad incarnarsi nella fisionomia stessa del paese. Infatti la caratteristica della sua storia è il susseguirsi di periodi in cui si è svolta anche attività mineraria e a volte industriale a periodi in cui ha predominato più decisamente l'attività agro-pastorale. Tutto questo rende molto difficile una indagine storica sul paese e sul suo territorio, perché a momenti ricchi di fonti scritte e di realizzazioni monumentali e architettoniche si alternano epoche che sembrano del tutto prive di avvenimenti. Forse proprio per questo abbondano solo notizie su situazioni limitate nel tempo e particolari.

Questo alternarsi di situazioni economiche appare evidente a chi si inoltra per le strade del paese e osserva la sorprendente diversità delle varie testimonianze urbanistico-architettoniche. Infatti, intorno ad una possente rocca medioevale si estende una distesa di modeste costruzioni, servita da un intricato dedalo di viuzze in cui spiccano pochi palazzi, in genere a destinazione pubblica. D'altra parte al centro di questo dedalo si può vedere una parrocchia così imponente da sembrare una cattedrale e, superata un'armonica piazzetta a conchiglia, una lunga via contornata da palazzi signorili ampi e maestosi ormai del tutto degradati, ma esempio di una passata floridezza, che non è fuori luogo qui ricordare, rievocando, sia pur sommariamente, le vicende storiche della Tolfa a maggior comprensione degli appunti lasciati da Basilio Pergi.

Tolfa è ora un piccolo paese di circa cinquemila abitanti, situato proprio al centro di un atollo vulcanico detto appunto Monti della Tolfa. Geologicamente tale massiccio risale all'era terziaria, ed è quindi più antico dei vicini monti Cimini e Sabatini, anch'essi vulcanici ma del Quaternario. Esso è in disfacimento, e difficilmente si potrebbero trovare tracce riconoscibili degli antichi vulcani nelle modeste ma aspre colline della zona, ma ancora oggi una località è definita « le spiagge » perché sembra delimitasse un antico lago craterico completamente svuotato da una falla apertasi sul suo lato nord-occidentale. Il territorio è composto in gran parte di trachiti e lipariti che, analizzate al potassio 40, sono state datate a più di 2.400.000 anni. Esso è ricco di acque termali calde e fredde, nonché di minerali svariati, oggi non abbondanti, fattore primo per il quale la zona è stata fin dalle più remote età intensamente abitata. Anticamente la regione era del tutto coperta di boschi molto ricchi di selvaggina come cervi, cinghiali, caprioli, e attraversata da numerosi anche se modesti corsi d'acqua, di cui il principale è il Mignone. Ma lo sfruttamento intensivo e il disboscamento hanno trasformato questo stato di cose, ed i fiumi, un tempo di corso regolare e spesso navigabili, sono diventati torrentizi, compreso il Mignone, la cui portata d'acqua oggi passa da volumi minimi a piene improvvise e violentissime.

Il paese attuale di Tolfa si sviluppò intorno al IX-X secolo, dunque subito dopo l'epoca delle invasioni longobarde, tanto che si pensa che il nome, di cui non si può dare etimologia certa, sia mutuato da quella lingua.

Nella zona però sono state rinvenute tracce di stanziamenti dall'epoca preistorica al periodo romano. Particolarmente ricche appaiono le testimonianze dell'età del bronzo e del periodo etrusco. Ritrovamenti di tombe ad incinerazione dell'età del bronzo finale si sono avuti a Poggio alla Pozza, a Coste del Marano, a Poggio Ombricolo, per citare solo i siti più importanti e meglio scavati, e dappertutto si sono rinvenuti ricchi corredi bronzei, specie quelli del ripostiglio delle Coste del Marano, e abbondanti corredi tombali. Nel successivo periodo etrusco nell'economia predomina l'industria estrattiva, soprattutto del ferro, e forse una prima lavorazione negli stessi luoghi, come dimostra il ritrovamento di un forno fusorio a Pian de Santi. Gli Etruschi incrementarono l'economia della zona e lasciarono testimonianze di un periodo di benessere diffuso. Fra le necropoli più importanti di quest'epoca, che va dal VII al III secolo a.C., sono state scavate quelle delle Pantanelle, Ferrone, Capannone, Pian de Santi, Pian Conserva, Colle di Mezzo, nelle quali sono stati trovati ricchi corredi formati da vasi greci di importazione e vasi di imitazione greca ma di raffinata fattura locale. Quasi tutte le tombe sono state reinterrate per mancanza di manutenzione e unicamente esperti conoscitori del territorio o archeologi possono riconoscerle fra la folta vegetazione che le ha ricoperte.

Solo una piccola parte dei materiali rinvenuti costituisce il locale museo di Tolfa, fra l'altro di recente formazione. Ovviamente le necropoli presuppongono altrettanti stanziamenti di cui però si sa poco. Dei luoghi religiosi esiste una testimonianza molto significativa: il tempio periptero a tre celle di Grasceta dei Cavallari che si fa risalire al VI secolo a.C.

Numerose vie solcavano la zona, ma la più importante era quella che dal porto di Pyrgi, vicino all'attuale S. Severa, attraverso la Tolfaccia, giungeva a Tolfa e proseguiva poi, scavalcando il Mignone al guado del passo di Viterbo, verso S. Giovenale e oltre. Scorie di minerale sono state trovate a Pyrgi nell'area del tempio della dea Ilizia distrutto da Dionigi di Siracusa nel 384 a.C.

L'affermarsi della potenza romana cambiò completamente la fisionomia della zona, perché Roma, in possesso di ben altre risorse, incrementò soprattutto l'agricoltura o meglio l'attività agro-pastorale. Troviamo così le grandi ville rustiche in località Pian de' Santi, Torcimina, Tolfaccia, nelle quali sono stati rinvenuti mosaici policromi, grandi horrea, impianti idrici e numerose suppellettili fit¬tili. Quando Virgilio nell'Eneide (X, 182-184) parla delle forze raccolte da Enea contro Turno, la zona lungo il Mignone figura come disseminata di villaggi in grado di man-dare un numeroso contingente. Tutto il territorio gravitava comunque sulla via Aurelia e sui commerci marittimi, prima per lo smaltimento dei prodotti minerari e poi per la vendita degli alberi richiesti per le costruzioni delle navi e dei prodotti dell'allevamento zootecnico e dell'agricoltura. Già quando Livio enumera i vari apporti delle città a Roma nel momento della massima pressione della seconda guerra punica, da questa zona giungono solo forti quantitativi di legname e di cereali.Torna su

Come per la maggior parte dell'Italia, anche per questa zona un fitto velo avvolge la storia dei secoli successivi di cui restano ben poche tracce. Il primo coagularsi di insediamenti altomedioevali nel territorio montano fu forse in parte la conseguenza delle disastrose invasioni dei pirati saraceni del IX e X secolo, che dopo aver devastato e pressoché spopolato le coste si spingevano con audaci puntate nell'interno. In tutto il territorio sono ancora visibili imponenti ruderi di castelli fra i quali formano quadrilatero i quattro castelli di Tolfa, Rota, S. Angelo e Monte Monasterio, le cui storie si intrecciano spesso. Complementari con questo sistema di difesa furono le torri di avvistamento, costruite in luoghi elevati, che disponevano del massimo raggio visivo proprio per poter dare tempestivamente l'allarme e permettere agli abitanti di ritirarsi nei castelli.

All'XI secolo risalgono le prime fonti scritte che nominano il paese di Tolfa: gli Annali di Corneto riportano che i Tolfetani erano alleati dei Viterbesi e dei Cornetani contro i prefetti Di Vico, e poco più oltre la notizia che il conte Ugolino di casa Nicolodi aveva occupato la Tolfa vecchia, togliendola ai figli del conte Guido di Santa Fiora che l'aveva ricevuta in feudo dalla città di Corneto. Il comune di Corneto, oggi Tarquinia, in quell'epoca esercitava la signoria sul territorio dei Monti della Tolfa; infatti, sempre negli « Annali di Corneto », troviamo varie notizie relative anche ai secoli XIII e XIV, che parlano di atti di vassallaggio fatti dai signori di Tolfa Vecchia nei confronti di Corneto, tanto che questa città nel 1299 interviene direttamente quale giudice nella contesa fra i vari discendenti del conte Ugolino, che si disputavano i castelli di Tolfa Vecchia, Monte Monasterio, S. Arcangelo, Civitella, Rota. E' logico pensare che in prossimità di ognuno di tali castelli ci fosse un piccolo abitato, ma ormai ne resta unico esempio il castello di Rota che si erge ancora quasi intatto in posizione elevata circondato da poche case di contadini. Invece un più consistente nucleo abitativo circondava il castello di Tolfa Vecchia, i cui abitanti fornivano armati nelle varie contese locali.

Poche notizie si hanno di quei secoli oscuri e ancora più scarsi sono i resti monumentali; ma tutto parla di continue lotte intestine, in cui la proprietà dei castelli passò spesso di mano. L'impresa più documentata, forse perché più importante, è la completa distruzione del paese di Tolfa Nuova, sito a pochi chilometri dal castello di Tolfa in una località detta ancora oggi Tolfaccia. Nulla sappiamo sull'origine di questo paese e neppure sulla sua consistenza, se non quello che si può presumere dal suo stesso nome, e cioè che sia sorto per impulso degli stessi abitanti di Tolfa, cacciati o fuggiti dal loro paese. Nel 1435 era signore di Tolfa Nuova, fra le altre città, il prefetto Di Vico e contro di lui mossero il Patriarca Vitelleschi alleato con l'Orsini e il conte Dolce di Anguillara, le armate dei quali distrussero completamente il paese che, non si sa perché, non fu più ricostruito.

Il paese di Tolfa Vecchia, che, ripeto, era l'abitato più consistente e meglio difeso, perché stretto intorno ad una rocca in pratica imprendibile per l'altezza e l'asperità della collina su cui sorgeva, sarebbe divenuto, col passare dei secoli, l'unico nucleo urbano della zona, perché, con l'affermarsi sempre più deciso del potere centralizzatore dei papi, finirono o quasi le varie lotte fra castellani, ed anche ovviamente la funzione dei castelli, che da allora cominciarono a rovinare, mentre i pochi contadini che li circondavano preferirono andare a vivere a Tolfa.

Sul finire del 1400 gli unici signori della zona, i castellani appunto, erano i fratelli Pietro e Ludovico Frangipane, i quali non vivevano neppure sempre nel castello ormai in gran parte in rovina, ma si limitavano alla riscossione dei vari tributi. Di questo periodo non abbiamo però quasi nessun documento, e probabilmente non sapremmo neppure che il nome dei castellani di allora era Frangipane, se non fosse accaduto un fatto che cambiò ancora una volta il volto della zona. Questo fatto fu la scoperta del minerale di allume in grande quantità compiuta da Giovanni di Castro, che nel 1463 ottenne da papa Pio II la concessione venticinquennale per lo sfruttamento delle miniere con la facoltà di fabbricare l'edificio dell'allume.

Numerose sono le fonti di questo avvenimento e dei successivi, perché l'Europa dipendeva interamente dal mondo musulmano per l'approvvigionamento di tale minerale, indispensabile per la tintura delle stoffe e la concia delle pelli, attività in rapida espansione nell'Italia rinascimentale. L'interesse per questa zona divenne perciò dominante per la politica pontificia e già nel 1466 si era arrivati ad una rottura fra il papa Paolo II e i castellani Frangipane per il possesso del territorio tolfetano. Il papa spedì un esercito con artiglieria per assediare il paese che fu preso e incendiato, ma gli assalitori non riuscirono ad impadronirsi della Rocca, dove si erano asserragliati i Frangipane che chiamarono in aiuto Orso Orsini che era loro parente. Alla notizia del sopraggiungere dell'Orsini gli assalitori fuggirono e per intercessione di Napoleonio Orsini, capitano generale del papa, si giunse ad un compromesso, in base al quale Paolo II comprò il territorio tolfetano per la somma di 17.300 ducati da camera. Con tale somma i Frangipane acquistarono un contado nel Regno di Napoli e il territorio di Tolfa fu amministrato da allora dalla Reverenda Camera Apostolica. Finiti i venticinque anni di concessione di Giovanni di Castro, le miniere furono affittate da Agostino Chigi, nobile senese, che ottenne anche la concessione della Rocca di Tolfa, cioè lo sfruttamento agro-pastorale della zona, con la facoltà di tenervi un proprio castellano. Nel 1502 tale castellano fu Nicola Segardi senese, il quale trasportò diversi pezzi di artiglieria del castello con le armi del Signore della Rocca della Tolfa nelle fortezze di Portercole e Talamone facenti parte allora del dominio senese.

Le cave di allume con l'amministrazione Chigi si svilupparono al di là di ogni rosea speranza, e il papa stabilì che il ricavato servisse a finanziare la guerra contro i Turchi, come risulta, tra l'altro, da un atto notarile nell'Archivio Vaticano, datato 1513, inerente al rinnovo dell'appalto Chigi da parte di Leone X, che porta come titolo « Appaltum Allumierum Sanctae Crociatae ». Subito intorno ai luoghi di scavo, in località La Bianca, nacque un villaggio che raccoglieva le case per gli operai, le stalle per i numerosi animali da lavoro, i magazzini per gli attrezzi, i forni per la cottura del minerale e le altre attrezzature richieste dalla lavorazione dell'allume. In un secondo tempo, le miniere furono ingrandite a seguito di nuovi ritrovamenti, ed il centro di lavorazione, nonché le abitazioni, furono un po' spostate e formarono il nucleo dell'attuale paese di Allumiere. Nelle prime concessioni di affitto delle miniere sembra non fossero compresi i latifondi, ma successivamente la Reverenda Camera Apostolica acquistò e unì all'affitto le vaste tenute adiacenti, e così l'appaltatore delle miniere esercitava anche un'estesa attività agro-pastorale. Infatti, il rapporto fra il datore di lavoro e gli operai delle miniere si svolgeva in modo per noi insolito: l'appaltatore per contratto era tenuto a corrispondere ai suoi dipendenti, oltre al pagamento in denaro, una certa quantità di derrate alimentari, che ovviamente traeva dalla attività agricola, e a tale scopo erano destinati i prodotti raccolti e conservati in un apposito magazzino.

Tutti questi cambiamenti influenzarono profondamente il paese di Tolfa, in quanto lo sfruttamento delle miniere provocò una forte immigrazione di tecnici e funzionari che si stabilirono con le loro famiglie nel nucleo urbano, contribuendo al nascere della attuale via Annibal Caro, detta anche via delle Botteghe, dove furono costruiti alcuni palazzotti di architettura abbastanza accurata, che sono tuttora visibili seppure degradati. L'arrivo in Tolfa di ricchi appaltatori accompagnati da numeroso seguito, sconvolse la tranquilla vita contadina, e tutte le strade parvero animarsi di feste, balli, gare di poeti a braccio. Tutto questo ci è testimoniato dai sonetti di A. Caro, segretario al seguito del cardinale Farnese che a lungo soggiornò nel paese.

L'improvviso aumento della popolazione e la sua maggiore ricchezza sono testimoniati dalla contemporanea costruzione di nuove chiese. La prima fu una cappella ottagonale costruita a spese dello stesso Chigi un po' fuori del paese di Tolfa, nel luogo dove si diceva fosse apparsa una immagine miracolosa della Madonna su un albero di sughero, e che perciò è detta « Madonna della Sughera ». Per lunghi secoli i tolfetani considerarono miracolosa questa immagine, come si deduce dalle numerose suppliche inviatele in occasione di vari lutti, per esempio le disastrose pestilenze del 1527 e del 1580. Ma la chiesa aveva anche un'altra funzione: i padri agostiniani che vi officiavano, e per i quali fu costruito l'annesso convento, avevano la cura degli operai che abitavano intorno alle cave di allume; infatti una cappella di questa chiesa, quella di S. Antonio, fu parrocchia di Allumiere fino al 1752.

Ma neppure il sito del paese di Allumiere restò un gruppo di povere case: già sul finire del Cinquecento papa Gregorio XIII vi aveva fatto costruire l'imponente Palazzo Camerale, e a pochi passi gli appaltatori fecero edificare una chiesa e un ospedale per gli operai. A quell'epoca il paese prese il nome di Allumiere e abbandonò quello vecchio di Monte Roncone, ma restò parte del territorio di Tolfa.

Le nuove ricchezze affluite al paese permisero l'ampliamento della chiesa parrocchiale di S. Egidio abate. La primitiva costruzione fra il 1550 e il 1585 fu totalmente rimaneggiata, tanto che non si può dare la sua pianta precisa. Il nuovo edificio fu costruito ad una sola navata con una cappella per lato, ma dopo poco tempo alla cappella di destra fu addossata un'altra cappella dedicata al SS. Salvatore, della quale furono patroni gli agricoltori e da dove, per una scala interna, si scendeva nell'oratorio del SS. Crocefisso, officiato dalla compagnia della Misericordia e umiltà (detta anche confraternita del Crocefisso o del Gonfalone), che aveva come scopo il recupero e la sepoltura dei paesani che morivano nelle campagne lontano dal paese. In quei medesimi anni venne costruito il bel campanile ancora in piedi, sormontato da una slanciata cuspide oggi crollata, forse opera di mastro Bartolomeo da Viterbo. La chiesa fu poi ulteriormente ingrandita e poté essere consacrata solo all'inizio del XVIII secolo. 

La terza e più importante costruzione religiosa di quest'epoca è la chiesa di Cibona, situata fuori del paese, lungo una delle strade delle miniere, e purtroppo oggi molto degradata. Essa è composta di una sola navata di ordine corinzio con tre cappelle per lato, opera dell'architetto Domenico Castelli. La facciata fu fatta con opera a cortina e pilastri di travertino da fra' Sigismondo da Fiesole. Annesso alla chiesa fu costruito il convento che ospitava i padri eremiti del Senario che dovevano occuparsi di essa. Il Mignanti, che riferisce su questa chiesa con ricchezza di particolari in un opuscolo pubblicato a Roma nel 1861, presenta un piccolo quadro d'epoca col riferire tutte le cause, le controversie, le emozioni che accompagnarono tale costruzione e che occuparono non poco la piccola comunità. Egli dice, fra l'altro, che l'impulso alla costruzione venne dalla fama dell'affresco raffigurante una Madonna, di una piccola cappella lì vicino, che si diceva avesse sanguinato per una sassata lanciatagli contro. La chiesa si poté inaugurare solo nel 1648 con la traslazione dell'affresco miracoloso ed una fastosa cerimonia a cui parteciparono tutto il popolo e le autorità. Per inciso, si può ricordare che agli eremiti del Senario si deve attribuire anche la primitiva utilizzazione del Monte delle Grazie, dove si ritiravano per stare in completo isolamento e dove sorse poi la chiesetta, oggi molto nota. Nei secoli seguenti le miniere di allume continuarono a prosperare e a dare la loro impronta alla zona, passando nelle mani di diversi appaltatori. Intorno al 1650 un certo Boschi trovò presenza di minerale ferroso nelle colline calcaree a sud-ovest delle miniere di allume, e una società ottenne molti anni dopo il permesso di scavare qualsiasi minerale escluso l'allume. Questa società cominciò con l'estrarre il ferro alle falde della collina detta “La Roccaccia” e in altra cava detta `Le Ferriere', in prossimità della quale fu costruito l'edificio di lavorazione del minerale. Ma la fusione del ferro non dette i risultati sperati e perciò, abbandonata la cava, i soci stabilirono la lavorazione del minerale di piombo nel frattempo scoperto. In queste miniere il minerale più abbondante era costituito da galena o solfuro di piombo, da solfuro di zinco, da solfuro di antimonio cristallizzato e da abbondante pirite di rame. Per la fusione del piombo fu costruito un edificio detto ancora oggi `edificio del piombo. Ma le impurità dei minerali, unitamente ai metodi di lavorazione di quel tempo, non permisero mai di ricavare un utile che compensasse le spese e così dopo vari tentativi le miniere furono chiuse.Torna su

Per tre secoli a partire dalla scoperta dell'allume la vita si svolse in modo prospero e tranquillo e il paese assunse un carattere quasi cittadino, dotato di tutti i servizi compreso un ospedale, e con una certa stratificazione sociale, che opponeva i contadini e gli allevatori a tecnici e ingegneri delle miniere, impiegati del Comune, amministratori civili e religiosi.

Ma in seguito alla rivoluzione francese e alle campagne napoleoniche in Italia anche lo Stato Pontificio fu scosso, e venne proclamata la Repubblica Romana. Questi avvenimenti ebbero tragiche ripercussioni sulla vita del paese di Tolfa che ne fu completamente sconvolta, e di essi restano numerose testimonianze raccolte da Ottorino Morra, che si servì anche degli ampi appunti lasciati dal Bartoli. Nella frettolosa riorganizzazione di tutto il territorio pontificio, fatta dai nuovi amministratori e dagli alleati francesi, fu attuata una nuova divisione in cantoni senza tener conto dei legami tradizionali fra le varie città. Tolfa e la sua frazione di Allumiere furono poste nel sesto cantone insieme a Corneto e Montalto. Nei primi tempi non ci fu alcun cambiamento evidente nello stato delle cose, se non l'arrivo e la sistemazione nei vari conventi dei religiosi espulsi perché si erano rifiutati di giurare fedeltà alla repubblica. Ma ben presto i francesi giunsero nel paese e insediarono nuovi amministratori comunali.

Non sappiamo come í paesani accolsero le novità, ma certo non furono contenti delle nuove tasse stabilite in grave misura dai francesi che avevano bisogno di fondi per le guerre che stavano combattendo. Ben presto il Comune non riuscì a far fronte ai nuovi oneri e dovette rivolgersi alle varie organizzazioni locali fra cui il Capitolo della Collegiata e l'Università di Mosceria, cioè l'associazione di allevatori che controllava il territorio da pascolo. Anche l'appaltatore delle miniere di allume, che in quel periodo era Carlo Giorgi, dovette consegnare tutto l'allume giacente nei magazzini, e poco dopo, il 14 giugno 1798, le miniere stesse vennero vendute ad una compagnia di soci romani e genovesi per la somma di 600.000 scudi romani; i nuovi proprietari si impossessarono anche del con-vento di Cibona e dei boschi di Sbroccati e Cerreto Grande nonostante il Comune dimostrasse che tali zone non appartenevano alla miniere. A seguito di tale stato di cose l'economia e la situazione sociale del paese vennero gravemente turbate: ne è prova la soppressione del convento di Cibona e la sospensione delle riunioni del Capitolo della Collegiata di S. Egidio e delle altre confraternite che operavano nel paese. Così, non appena le truppe napoletane invasero l'ex-Stato Pontificio, e le truppe francesi, che avevano un forte concentramento a Civitavecchia, si trovarono in pericolo, l'insurrezione popolare esplose. Presto i napoletani furono battuti, ma ormai Civitavecchia e Tolfa erano in rivolta, non con gruppi isolati ma con la partecipazione di tutta la municipalità.

Alla fine del gennaio 1799 il governo centrale di Roma decise di domare con le armi i rivoltosi, ed inviò a Cívitavecchia alcune truppe al comando del generale Merlin. La città fu assediata ed i tolfetani cercarono di aiutarla riuscendo ad introdurre vettovaglie e compiendo azioni di disturbo per impedire che giungessero rifornimenti agli assedianti. Dopo più di due mesi di duro assedio, il 6 marzo 1799 Civitavecchia capitolò, ma i francesi non vollero che Tolfa fosse compresa nella capitolazione. Il paese si preparò quindi ad una nuova lotta, e sulla gradinata della Chiesa di S. Giovanni, oggi distrutta, il popolo adunato in assemblea decise per la resistenza ad oltranza.

Seguirono giorni confusi di cui si hanno testimonianze ovviamente discordanti: da parte francese nella relazione del generale Merlin è detto che gli insorti si comportarono come briganti rubando le vettovaglie delle miniere e pretendendo bestiame dai proprietari. Inoltre egli accusa gli insorti di aver fucilato un suo « ambasciatore ». Ma testimonianze tolfetane, riportate dal Bartoli, dicono che il fucilato era una spia e non un « ambasciatore ». Comunque il generale doveva ad ogni costo domare il focolaio della rivolta, e così il 14 marzo 1799 inviò 1500 uomini divisi in tre colonne che assalirono il paese da tre strade: una colonna seguiva la via Civitavecchia-Tolfa; una seconda la S. Severa-Tolfa e la terza la strada Farnesiana-Allumiere-Tolfa. Prima di sera due colonne si riunirono ad Allumiere che fu completamente devastata, dopo una prima resistenza sulla strada della Farnesiana in località « Trincee »; poi le due colonne si acquartierarono presso la Sughera e precisamente nel convento della stessa chiesa, forse per attendere la colonna proveniente da S. Severa, che però non giunse anche per le difficoltà incontrate nell'attraversare i folti boschi allora esistenti in quella zona. Durante la notte i tolfetani fecero fuggire nelle campagne i vecchi, le donne e i bambini, mentre i combattenti più decisi si rifugiarono entro le vecchie mura del castello Frangipane, che aveva l'ingresso della prima cinta muraria presso l'attuale Chiesa del Crocefisso. Il giorno dopo le truppe iniziarono l'occupazione e la distruzione sistematica del paese, contrastati passo per passo e casa per casa dai tolfetani. Questi però dovettero cedere al numero e alle migliori armi degli attaccanti che riuscirono a debellarli solo incendiando ogni abitazione, come precisa la relazione dello stesso generale Merlin ai suoi superiori, una parte della quale è oggi incisa in una lapide murata nell'alto della Rocca. Gli ultimi irriducibili, asserragliati entro le mura del castello, si arresero dopo il proclama del generale Merlin che prometteva salva la vita a chi avesse consegnato le armi, ma furono rinchiusi nella chiesa della Sughera, e immediatamente dopo ne furono fucilati 144. Dopo ciò le truppe francesi si allontanarono con alcuni prigionieri che furono rinchiusi a Castel S. Angelo in Roma. Dopo pochi mesi, alla fine di settembre, la Repubblica Romana cadde per l'attacco congiunto delle truppe napoletane e inglesi.Torna su

Le distruzioni subite dal paese in tali circostanze furono tali che esso non se ne risollevò mai del tutto. Il saccheggio e la spoliazione furono sistematici, anche perché è da supporre che durante la furiosa battaglia del 14 il paese fosse evacuato in tutta fretta, quindi senza la possibilità per nessuno di salvare qualcosa di più dello stretto necessario. In quell'occasione furono spogliate anche le chiese dei loro arredi, vasi sacri, candelabri, statue come quella di S. Egidio in argento dorato, quadri come quello della Madonna della Sughera ecc., nonché furono depredate tutte le case in cui il fuoco aveva risparmiato qualcosa, e non furono solo rubati armi e generi alimentari, ma anche indumenti personali e tutto l'asportabile.

La rappresaglia francese .per la strenua resistenza tolfetana giunse a provocare la distruzione anche dei mulini, ubicati lungo i fiumi in quanto azionati da forza idrica.

Così furono distrutti i mulini di Rota sul Mignone, delle Molette sui Due Fossi, e della Farnesiana sul Molledra, tanto che i tolfetani, non appena rientrati e posti nella necessità di molire il grano, erano costretti a recarsi nel lontano mulino di Monterano ubicato sul Mignone all'altezza dell'attuale castello diruto di Monterano Vecchio. Ebbene, il complesso edilizio di Monterano, castello del feudo Altieri, fu distrutto nel 1802 perché alcuni tolfetani furono obbligati dai francesi a molire del grano occorrente alle truppe francesi per la loro panificazione. I Monteranesi, saputo questo, si rifiutarono di molire il grano che fece ritorno a Tolfa non macinato. Allora per ritorsione i francesi, con buon nerbo di soldati, si recarono a Monterano e lo incendiarono distruggendo il mulino, il castello, la chiesa e quanto altro formava l'abitato di Monterano, del quale si possono ancor oggi vedere le rovine.

Con la caduta della Repubblica Romana del '99 Tolfa riprese a vivere, seppure in mezzo alle distruzioni. La vita andava riprendendo molto lentamente, anche perché le miniere erano pressocché smantellate a seguito della vendita di esse alla società romano-genovese poi revocata, e Tolfa, che aveva vissuto un salto di qualità da un'economia prettamente agricola ad un'economia agricolo-industriale proprio per la presenza delle miniere di allume, dovette subire un ristagno che si aggravò con il passare degli anni, perché al minore introito delle miniere si aggiunse la necessità di riformare il patrimonio zootecnico falcidiato dagli avvenimenti narrati.

Pochi anni dopo, inoltre, lo Stato Romano fu forzatamente aggregato all'Impero napoleonico. Furono cinque anni, dal 1809 al 1814, di grandi difficoltà per il paese sottoposto a pesanti tasse e dichiaratamente ostile al nuovo regime, tanto che non solo gli ecclesiastici ma anche i dirigenti civili rifiutarono il giuramento di fedeltà.

Caduta la prima Repubblica Romana e ripristinato il Governo Pontificio, per risolvere i rapporti estremamente complicati venutisi a creare con la Società che aveva acquistato le miniere durante la rivoluzione, si giunse ad una soluzione di compromesso, con la quale la stessa Società ottenne dalla Reverenda Camera Apostolica l'affitto delle miniere per un periodo di trentasei anni e per un canone annuo di trentaseimila scudi e di quattrocento rubbie di grano. Peraltro, questo accordo fu rescisso nel 1824 e le miniere con gli annessi latifondi furono gestiti in proprio dalla Reverenda Camera Apostolica che ne affidò l'amministrazione al Marchese Calabrini.

In questo periodo si ricostruirono gli edifici industriali, si costruirono case per i lavoratori, si cercò insomma di riattivare tanto le cave di allume di rocca, che durante i torbidi si erano pressoché riempite di macerie, quanto di ripristinare la fabbricazione e il commercio dell'allume.

Tutti gli sforzi fatti furono però vanificati dalla scoperta dell'allume artificiale che privò di ogni valore commerciale il puro minerale di rocca non più competitivo sui mercati mondiali.

I Pontefici che si susseguirono fino al 1870 tentarono in vari modi di mantenere l'attività industriale delle miniere senza però riuscire a frenarne la decadenza tanto che l'ultimo direttore, il barone Klitshe de la Grange, basava la sua attività più sullo sfruttamento dei latifondi che su quello delle miniere. Con l'avvento dell'unità d'Italia, quest'ultimo direttore ricevette come liquidazione una superficie di cento ettari di territorio limitrofo alla Chiesa di Cibona e parte dell'omonimo convento.

Nel corso dell'Ottocento si tentò pure di riaprire le miniere di ferro e di piombo. Per la lavorazione di tali minerali si costruì anche una fornace presso il fosso S. Lucia sotto Cibona, ancor oggi nota come « Delfizio ».  

Questa attività, abbastanza proficua, finì bruscamente nel 1876. Proseguì invece, seppure con alterne vicende, l'estrazione dell'argilla plastica, del caolino e della marna iniziata nel 1856. Si tentò in quel periodo anche la lavorazione del carbon fossile e dei solfuri di rame, zinco, antimonio e mercurio, ma la scarsa quantità dei minerali non permise nessun avvio industriale. Durante tutto il secolo i cittadini di Tolfa parteciparono molto poco alle vicende della vita nazionale ed al travagliato periodo risorgimentale come risulta dai documenti dell'Archivio Comunale; tuttavia nel 1870, nel plebiscito per l'adesione al Regno d'Italia, votarono compatti per il sì.

Intanto, intorno al 1850, la parrocchia di Tolfa era passata alla diocesi di Civitavecchia, dopo essere stata per quasi quattro secoli, e precisamente a partire dal 1469, parte della diocesi di Sutri, mentre ancor prima era appartenuta alla diocesi di Corneto. Divenne vescovo allora un giovane prelato di Allumiere, Teodolfo Mertel, primo di una serie di valenti vescovi locali e perciò vicini alle esigenze della popolazione. Fu deciso anche di costruire un seminario in Tolfa, in località « Prato della Misericordia » presso la chiesa omonima, oggi dissacrata, subito fuori dell'abitato.

L'edificio del seminario non servì mai all'uso per cui era stato costruito, ma fu caserma per le truppe francesi che appoggiavano il papa durante gli ultimi anni del governo pontificio, e, dopo il 1870, fu sede del Comune e della scuola pubblica. Oggi, dopo la costruzione di appositi edifici per le scuole elementari e medie, ospita gli uffici comunali ed un piccolo museo. Lo Stato italiano diede in appalto le miniere di allume ad una società francese, e tutto il complesso industriale per la lavorazione del minerale fu trasferito a Civitavecchia. Questo fatto rappresentò, per la zona dei Monti della Tolfa, la chiusura di un'epoca: dal 1463 le vicende della miniera avevano caratterizzato la vita del paese dandogli una fisionomia piccolo-industriale, mentre a partire dal 1870 l'agricoltura e la pastorizia rimasero le uniche risorse.

D'altronde nel corso del secolo tutto il territorio era tornato ad una fisionomia prettamente agro-pastorale; si precisarono in questo periodo alcune forme associative di contadini e di pastori, tanto che nel 1810 venne promulgato il primo regolamento unificatore delle due Università di Agricoltori e di Boattieri di cui Basilio Pergi parla più diffusamente in una delle appendici.Torna su

E' da notare che nel 1826 era stato distaccato dal territorio comunale di Tolfa il comune di Allumiere, che andò sviluppando anch'esso una economia del tutto simile a quella di Tolfa, e cioè una economia contadina senza più tracce dell'antica attività operaia. Ben modeste furono da allora in poi le innovazioni del tessuto urbano: la costruzione di due fontane pubbliche (una opera dell'ing. Klische de la Grange) che resero più agevole alle donne l'approvvigionamento dell'acqua, per il quale fino a quel momento erano dovute andare alle tre fontane di Canale, della Lizzera e della Limojola, abbastanza lontane.

La decadenza dell'economia si rifletté nella fine di vecchie e gloriose istituzioni: la prima a cadere fu quella del convento di Cibona, poi s'impoverì e se ne andò la famiglia agostiniana della Sughera, il cui giardino venne utilizzato per la costruzione dell'attuale cimitero; si è riusciti a salvare la chiesa dall'usura del tempo, ma il monastero è ormai in stato di grave degrado ed ospita una officina meccanica. Si estinse agli inizi del ventesimo secolo la Congregazione del SS. Nome di Dio; i locali dell'Ospedale e della Chiesa di S. Giovanni furono trasformati in appartamenti, e dell'edificio originale resta ormai solo la facciata sulla piazza vecchia. Anche la comunità dei Cappuccini ha lasciato il paese ma la chiesa è ancora in funzione, mentre il monastero serve ad ospitare il gruppo archeologico G.A.R.

L'economia e la cultura contadina sono perdurate in Tolfa fino alla seconda guerra mondiale. Dopo di ciò vi è stato il progressivo abbandono delle campagne, e gli abitanti di Tolfa, richiamati dal più vantaggioso guadagno, sono diventati lavoratori pendolari con le vicine città di Civitavecchia e Roma, pur mantenendo una ridotta attività agricola limitata alle sole giornate festive. Oggi Tolfa non può più dirsi una comunità agricola perché vive di introiti derivanti, per la maggior parte, da attività svolte al di fuori del paese, e solo in minima parte da introiti della pastorizia, più che della vera e propria agricoltura, e di un po' di turismo estivo che potrebbe essere ancora molto più sviluppato.

In questo ultimo periodo la massiccia influenza dei mezzi di comunicazione di massa e l'abbreviarsi delle distanze grazie alla abbondanza dei mezzi di trasporto hanno infranto l'unità socio-culturale di quel mondo contadino che ormai si può ricostruire solo in base ai ricordi. Per il naturale incremento demografico degli ultimi decenni il paese si è notevolmente sviluppato allargandosi dalle pendici del monte della Rocca per tutta la via della Lizzera e poi della Sughera, attuali Via Roma e Viale Ita¬lia, mentre sono sorte zone residenziali di ville in località la Pacifica e Cibona. Ciò ha cambiato notevolmente la fisionomia del paese ma non ha ancora deturpato il suo nucleo storico.

 

GIOVANNA PERGI

 

GIORNO PER GIORNO

FRA OTTOCENTO E NOVECENTO
 

Negli anni a cavallo dei sec. XIX e XX Tolfa viveva esclusivamente di agricoltura e pastorizia e pressochè tutta la popolazione dipendeva da queste attività che trovavano il loro naturale sbocco nel mercato di Civitavecchia per i prodotti agricoli e nella famosa fiera di Viterbo per quelli zootecnici.

Si deve pure tenere presente che nel periodo in esame Tolfa non era fornita di elettricità e quindi la vita era regolata dal sorgere del sole e dal suo calare, nonché dai lavori agricoli richiesti in ogni stagione o particolare periodo.

Con tali premesse ambientali è ovvio come la vita quotidiana fosse imperniata e dipendente dall'andamento stagionale, dall'abbondanza o meno dei raccolti ed infine dall'avvedutezza delle brave madri di famiglia che lasciavano, pur aiutandoli nei periodi di punta (semina, mietitura, vendemmia ecc.) tutta la direzione della piccola azienda famigliare agli uomini, tenendo per loro l'andamento economico della famiglia. In altre parole il marito badava a produrre i beni vendibili, la moglie badava a spendere il meno possibile di quanto introitato dal marito, intervenendo però nelle vendite, nella scelta dell'acquirente e soprattutto cercando di spuntare il prezzo più alto possibile dal prodotto ottenuto con tanta fatica di tutti i componenti la famiglia, nessuno escluso, e quindi era la donna dopo lungo conciliabolo con gli altri membri a decidere se comperare o meno un paio di scarpe o un vestito; se allevare uno o due magroni in quanto le scorte di semola erano più o meno abbondanti ecc. Ed era ancora la moglie a decidere quanto e quale prodotto lasciare per il fabbisogno famigliare e quale e quanto prodotto destinare alla vendita. Se vi era una figlia da marito necessitava preparare in tempo il corredo e la moglie provvedeva alla bisogna con piccoli risparmi che le permettevano nel giro di quindici o venti anni di accumulare un anno, alcuni lenzuoli e l'altro alcuni asciugamani e via dicendo, mentre per la spesa e soprattutto per il pranzo nuziale il padre allevava appositamente un vitello che veniva sacrificato in quella occasione.

Per meglio chiarire quanto su detto, è bene ricordare che pressoché tutti i tolfetani erano proprietari in assoluto o in forma associativa di alcune vaccine da corpo che producevano carne da macello e ottimi buoi da lavoro, di alcuni cavalli da sella ricercatissimi alla già ricordata fiera di Viterbo che si svolgeva due volte l'anno, in primavera e in autunno.

Essi possedevano inoltre una vigna che produceva l'ottimo e decantato vino della Tolfa, e ortaggi di vario tipo oltre a legumi e conserve che venivano conservati per il lungo inverno o, a tempo debito e stagione permettendo, venduti per comprare quanto non era possibile produrre in proprio.

Il prodotto maggiore erano i cereali ed il vero introito che decideva se l'inverno sarebbe stato più o meno duro era dato dal grano, che veniva venduto tramite intermediari locali, ai grandi molini dopo avere lasciato la scorta necessaria alla semina della nuova stagione ed al fabbisogno famigliare. In sintesi, l'economia tolfetana era basata come sempre in passato, sul consumo di prodotti propri e sull'introito dei prodotti venduti nei vicini mercati. Con una economia siffatta tutta la famiglia era chiamata a concorrere all'ottenimento del maggior profitto possibile con la minore spesa e perciò la vita paesana doveva cominciare ben prima del levar del sole e terminare ben dopo il tramonto.

Il massimo avvenimento della zona era la fiera di Viterbo, ove i tolfetani si recavano due volte l'anno per vendere il loro bestiame e per approvvigionarsi di lane, panni e quanto necessario per il vestiario e per il corredo matrimoniale. Infatti Viterbo, a quei tempi, era ritenuta molto più economica e vantaggiosa della vicina Civitavecchia, raggiungibile tuttavia più facilmente o con la diligenza o con i famosi carretti, che tre volte la settimana, trainati da tre muli, partivano da Tolfa con i prodotti del suolo, in particolare con ortaggi e frutta, accompagnati dalle « bagherine ».Torna su

In genere le bagherine erano le mogli degli ortolani di Tolfa che portavano i loro prodotti sistemati in « ciste » al mercato di Civitavecchia, per essere sicure di spuntare un buon prezzo ma soprattutto per vendere la deperibile merce rappresentata da ortaggi e frutta. Questo traffico veniva attuato in maniera immutata da secoli: il produttore di ortaggi e frutta, nei giorni stabiliti preparava le some, cioè due grosse e profonde ceste fatte con fruste di castagno, riempendole con insalata, sedani, pomodori, fagiolini, ciliege, fichi, pesche ecc. a seconda della stagione e le portava ai carrettieri trasportandole a dorso di asino dal suo orto, di solito non troppo vicino al paese e raggiungibile da strade atte solo ai muli e agli asini. Ricordiamo che le strade sterrate allora esistenti, ma solo quelle principali e in parte, furono selciate con grossi ciotoli e sovrastante manto di pietrisco, una specie di basolato mal fatto, solo durante la guerra 1915-18, da prigionieri che alloggiavano nel convento della Sughera e che venivano utilizzati o dai privati, dietro compenso, nei lavori dei campi o per opere pubbliche come il miglioramento delle strade di campagna.

Comunque le some raggiungevano il paese ed al loro arrivo erano caricate direttamente sul carro del carrettiere prescelto. Circa alla mezzanotte era fissata la partenza ed il carro, tra i richiami dei ritardatari, lo scalpiccio dei muli e lo schioccare delle fruste, partiva alla volta di Civitavecchia ove giungeva dopo circa quattro ore, e quindi alle primissime luci dell'alba, al mercato. Qui le bagherine vendevano il loro prodotto e quelli affidati loro e quindi si recavano in giro per la città ad eseguire tutte le piccole commissioni delle quali erano state incaricate,

e questo perché le bagherine non solo erano le venditrici dei prodotti propri e di quelli affidati loro, ma erano anche coloro che tenevano i contatti tra i paesani, sempre troppo occupati nei lavori dei campi, e gli uffici statali; inoltre esse provvedevano a sbrigare tutte le pratiche con gli uffici non presenti in Tolfa ed infine curavano l'acquisto di quanto richiesto loro: in altre parole, la bagherina era il tramite fra il paese e la più fornita città.

Sul mezzogiorno, una per carro, le preziose bagherine ripartivano da Civitavecchia per giungere dopo quattro o cinque ore a Tolfa, ove il carrettiere provvedeva a curare le sue bestie ed il carro fino a notte mentre le bagherine davano conto delle ordinazioni ricevute e del loro esito.

La vita tolfetana non era sempre così dura e faticosa, ogni tanto vi erano giornate di festa come quella del patrono S. Egidio Abate festeggiato il primo settembre, o di S. Antonio Abate, festeggiato il 17 gennaio, o di S. Michele Arcangelo festeggiato il 29 settembre. Poi vi erano le cresime, che venivano impartite con grande pompa dal Vescovo nella Collegiata di S. Egidio ove convenivano tutti i cresimandi accompagnati dai rispettivi padrini e madrine, con grande sfoggio di vestiti nuovi e pranzi pantagruelici, o i matrimoni, festa per eccellenza che merita una parola a parte.

I due giovani, dopo un più o meno lungo periodo di fidanzamento, iniziatosi con le famose serenate sotto il balcone dell'amata e seguito da incontri in casa sotto il vigile sguardo materno, iniziavano i preparativi matrimoniali con il giorno dello « stacco ». In tale giorno i fidanzati, accompagnati dalle rispettive madri, si recavano a Civitavecchia o a Viterbo, tramite la diligenza giornaliera per Civitavecchia e bisettimanale per Manziana dove passa la ferrovia Roma-Viterbo e qui provvedevano all'acquisto del vestito per gli sposi, agli ultimi capi di corredo, perché al grosso del corredo stesso le madri prudenti avevano già provveduto fin dai primi anni di vita della figlia, ed agli ori che per lo più si riducevano alla sola fede della sposa ed a qualche ninnolo come orecchini, anellini, collanine ecc., ma solo per le persone più abbienti.

A tali spese si suppliva, oltre che con le economie accumulate dalla accortissima madre, con la vendita di una o più vaccine del branco paterno, perché, ripetiamo, una delle più cospicue ricchezze del paese era data proprio dalla consistenza della mandria di bestiame, allevata in forma associativa sui terreni dell'Università Agraria di Tolfa.

Dunque in Tolfa si provvedeva alle spese extra con la vendita di qualche capo di bestiame del branco paterno che poi alla morte del proprietario avrebbe formato, equamente diviso, il gruppo base, che si diceva la « razzetta » cioè la piccola razza o qualità del branco di ciascuno dei figli maschi. Infatti alla figlia andava la dote e ai maschi il capitale terriero, urbano o mobile come il bestiame.

Finalmente si giungeva al giorno del fatidico sì.

In questo giorno lo sposo, con il vestito nuovo e accompagnato dai genitori e dagli amici invitati, si recava a prendere la sposa, cioè andava sotto la casa della sposa ed aspettava finché questa con l'immancabile vestito bianco e il lungo velo scendeva insieme con i genitori e il folto gruppo dei suoi invitati: qui si formava il corteo nuziale.

Apriva il corteo la sposa a braccetto del padre, poi venivano lo sposo a braccetto della propria madre, poi, sempre a coppie, tutti i parenti badando bene che ogni famigliare dello sposo fosse accoppiato con un famigliare della sposa e ciò quasi a sottolineare il vincolo che si veniva a creare fra le due famiglie con il matrimonio dei due giovani. Seguivano poi, sempre in coppie di un maschio e di una femmina, tutti gli invitati non famigliari fra i quali le amiche della sposa che non mancavano di lanciare sguardi assassini ed infuocati al probabile spasimante che, guarda caso, la madre aveva provveduto a far loro capitare come occasionale accompagnatore.

Il corteo si snodava sotto gli sguardi e i commenti di tutto il paese, che così partecipava alla gioia degli sposi magari con qualche commento maligno o con qualche punta di invidia da parte di chi avrebbe voluto essere al posto dei felici protagonisti.

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