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Archeologia

Walter Bianchi

Walter Bianchi "Velsina"
 

LA «GENS LILIA»

Seconda edizione riveduta ed ampliata del saggio pubblicato nel 1981

Copyright 1985. Valter Bianchi, Roma.

Proprietà letteraria riservata.

Pubblicato da Valter Bianchi, nazionalità italiana ‑Roma 1985.

Stampato da EURSTAMPA, V.le Beethoven, 30, Roma.

P r e m e s s a.

Le pagine che seguono lo scrivente espone la propria versione d'un'iscrizione in lingua latina risalente, con ogni probabilità, al secolo XVI ‑scolpita sopra una lapide marmorea conservata nel Museo Civico di Tolfa (Roma). A tale versione fanno seguito alcuni brevi cenni in ordine al contenuto dell'Iscrizione. La presente, seconda, edizione contiene radicali modifiche alla precedente interpretazione dell'epigrafe nonché una breve trattazione circa le presunte origini della famiglia ivi celebrata.

Parte I - l'interpretazione del distico di Tolfa.

Nel Museo Civico di Tolfa (Roma) è conservata una lapide marmorea già murata sull'unica porta, da molto tempo demolita di tale cittadina recante inciso, in caratteri ritenuti tipici del secolo sedicesimo (1), il seguente distico:

CUI DEDIT OPPIDULO NOMEN CUI FELSINA MUROS

LILIA RESTITUIT GENS ORIUNDA DOMUM

Le peculiari caratteristiche formali dei due versi e sono da ritenersi sintomatiche ai fini dell'identificazione del poeta, nonché, per i motivi appresso esposti, ai fini della versione e dell'interpretazione dell'epigrafe. Al riguardo va preliminarmente osservato quanto segue:

1) L'esametro del distico ha in comune con l'esametro n. 200 del libro X dell'Eneide le tre parole chiave DEDIT, NOMEN e MUROS nonché le locuzioni dedit nomen e (dedit) muros: esametro del distico: Cui dedit oppidulo nomen cui Fèlsina muros; esametro n. 200 ?del libro X dell'Eneide: Qui MUROS matrisque DEDIT tibi Mantua NOMEN. Nel secolo sedicesimo, al quale la grafia del distico viene fatta risalire, Annibal Caro, traduttore in versi italiani del poema virgiliano, soggiornò come egli stesso afferma in una sua nota lettera, in Tolfa (lettera risalente, per alcuni, al 1532 (cfr. O. Morra, Tolfa profilo storico e guida illustrativa, Cassa di Risparmio di Civitavecchia, pp. 75/76, nota 4) e per altri al 1537 (cfr. Le più belle pagine di A. Caro scelte da Francesco Pastonchi, f.lli Treves, Milano 1923, pagg. 3/6). Poiché l'esametro del distico appare composto sulla falsariga del verso dell'Eneide sopra citato, non può non tenersi presente che l'imitazione di Virgilio è tipica della poesia del Caro. Basti citare, tra i tanti possibili esempi, il passo della sua canzone In lode della Casa di Francia, ove paragona la Francia alla mitica Berecinzia e le parole con le quali il poeta col finto nome di Predella replicando alle critiche del Castelvetro circa tale paragone, fa osservare a questo let­terato (riportando un verso del Berni) che il paragone è levato dall'Eneide di peso (cfr. A. Caro, Apologia degli Accademici di Banchi ecc., in Opere di A. Caro, a cura di Antonio Amico, Le Monnier, Firenze, 1864, Pag. 87).

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(1) A. Stefanini, Recenti scoperte archeologiche nel territorio di Tolfa, Circolo di Cultura di Tolfa, pag. 54.

Il soggiorno del Caro in Tolfa fu motivato, come egli stesso scrisse, dalla trattazione di affari minerari per conto di Mons. Gaddi, Chierico della Rev. Camera Apostolica. Nella lettera del Caro sopra citata - e nel sonetto contenente u­na descrizione di Tolfa a quella annesso - manca qualsiasi accenno all'epigrafe. Se questa fosse stata già murata sulla porta civica è da credere che il poeta, così preciso nel descrivere le peculiarità del luogo, non avrebbe probabilmente omesso di accennarvi. Il silenzio del Caro in ordine alla scritta induce quindi a ritenere che questa, all'epoca del soggiorno del poeta, non fosse stata ancora murata sulla porta di Tolfa. Sulla base di tale argumentum ex silentio la scritta va pertanto fatta risalire ad epoca successiva al soggiorno del Caro nella predetta cittadina. Tale epoca non può, però, essere posteriore al secolo sedicesimo ostando a questa ipotesi sia la grafia cinquecentesca, sia, sopratutto, l'oscurità dalla quale risulta celato il senso dell'epigrafe tra il XVII ed il XVIII secolo allorché, nella prima metà di quest'ultimo, lo studioso Buttaoni cercò di chiarirlo mediante un noto ed infruttuoso - tentativo di versione (cfr. O. Morra, op. cit., pagg. 190/191). Per tali motivi può ragionevolmente presumersi che l'epigrafe ri­salga ad un'epoca compresa tra l'inizio del pontificato di Paolo III Farnese (1534) e gli ultimi decenni del secolo XVI. Tra il 1563 ed il 1566 (anno della sua morte) il Caro, dopo aver trascorso come è noto gran parte della sua vita al servizio dei Farnese, tradusse in versi italiani l'Eneide (F. Pastonchi op. cit. p. 308). Il Vignola costruiva in quegli anni, il palazzo Farnese di Caprarola. In tale palazzo, come rilevò il Morra nell'ipotizzare, l'identificazione della gens lilia del distico con i Farnese recanti il giglio nell'arme, figura, tra altri nomi ed emblemi di luoghi farnesiani, anche Il nome di Tolfa, circostanza, questa, nella quale il predetto Autore ravvisò, giustamente, un filoconduttore onde pervenire alla conoscenza del rapporto che indubbiamente doveva intercorrere tra quella cittadina e l'illustre famiglia (O. Morra, op. cit. pag. 193). Nello stesso palazzo di Caprarola può ammirarsi, tra i tanti, un affresco, eseguito da uno dei fratelli Zuccari (marchigiani come il Caro ed autori, probabilmente, degli affreschi che figurano nel castello della frazione Rota di Tolfa: cfr. O. Morra, op. cit. pag. 262), nel quale, sullo sfondo di mura urbane, si vede un cavaliere che insegue dei nemici alla testa dei suoi. In tale affresco è rappresentato, come si apprende da una scritta che figura nel dipinto, PETRUS NICOLAUS FARNESIUS, il quale, SEDIS ROMANAE POTENTISSIMIS HOSTIBUS MEMORABILI PROELIO SUPERATIS IMMINENTI OBSIDIONIS PERICULO BONONIAM LIBERAT ANNO CID CCC LXI . (2). Come è noto, il 30 luglio del 1361 il condottiero Pier Nicola Farnese, governatore di Bologna per conto del Papa, liberò la città dall'assedio dell'esercito milanese di Bernabò Visconti (cfr. E. Leo, Storia degli Stati Italiani trad. dal ted, di A. Loewe ed E. Alberi, Soc. Ed. Fiorentina, Firenze. 1842, vol. I, pag. 511). Fu, quella del 1361, una memorabile vittoria guelfa sul ghibellino signore di Milano. L'emblema del partito guelfo (in tale circostanza vincitore) che era, come è noto, il leone (simbolo del­la tribù di Giuda, cui appartenevano David e Gesù, menzionato nell'epigrafe della base dell'obelisco di piazza S. Pietro in Roma), figura sul rovescio delle monete, recanti nel dritto la scritta Bononia docet, che vennero rinvenute all'atto della demolizione dell'antica porta di Tolfa (cfr. A. Bartoli in O. Morra, op. cit., pag.192). Se, come fa presumere l'usanza, allora e tuttora seguita, di murare oggetti simbolici in occasione di posa di lapidi o di prime pietre, tali monete bolognesi vennero inserite all'atto della collocazione del marmo recante incisa l'epigrafe e se, come è anche da presumersi, con l'inserimento delle monete s'intese rievocare la nota beffa, in uso nel medioevo, consistente nel batterela moneta d'una città vinta (o difesa da altrui pretese, come nel caso di Bologna), beffa posta in essere dallo stesso Pier Nicola Farnese nel 1363, dopo altra vittoria, sotto le porte della ghibel­lina Pisa (cfr. Enrico Leo, op. cit. vol. I pag. 712), appare difficile non ravvisare una relazione tra l'inserimento delle monete predette nella porta di Tolfa e la battaglia di Bologna del 1361, ai fini dell'interpretazione dell'accenno a Fèlsina contenuto nel distico. L'assenza, nel secoli, di qualsiasi rapporto politico tra Bologna e Tolfa e per converso l'esistenza di relazioni tra la famiglia cui apparteneva il vincitore del 1361 e la cittadina sulla cui porta venne murata l'epigrafe non possono, infatti, non indurre a ritenere che a Fèlsina si accenni nel distico sopratutto per alludere alla famiglia Farnese ed alle vicende a questa pertinenti. L'esistenza di stretti rapporti tra Tolfa ed i Farnese è attestata oltre che - come si è già accennato dalla presenza del nome di Tolfa tra i nomi di luoghi farnesiani figuranti nel palazzo di Caprarola, anche da altre testimonianze.

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2) Cfr. Zuccari Taddeo, Zuccari Federico, Zuccari Ottaviano, Illustri fatti farnesiani coloriti nel real palazzo di Caprarola dai f.lli Zuccari ed altri ... incisi da Giorgio Gasparo de Prenner, Roma 1748, Tavola X (non indic. edit.: visibile presso la Biblioteca Naz. di Roma); cfr. Giovanni Drei I Farnese, grandezza e decadenza d'una dinastia italiana, a. c. di Giuseppina Allegri Tassoni, la Libreria dello Stato, pag. 9. Torna su

Tra queste la più rilevante è costituita dal palazzo con annesso complesso denominato La Farnesiana e situato in una zona che fino alla metà (circa) del secolo XIX faceva parte del territorio di Tolfa (ora fa parte del Comune di Allumiere (Roma). Altra testimonianza in ordine ai rapporti predetti è fornita dal nome Rainuccio di cui nella forma Ranuccio è nota la frequenza nella Casa Farnese (F. Gregorovius, Lucrezia Borgia a c. di A. M. Arpino, Avanzini Torraca, pag. 60) il quale, oltre a comparire (con l'altro nome farnesiano, Pierluigi) nella storia di Tolfa Nuova (cfr. O. Morra, op. cit. p. 193), risulta essere stato portato da uno dei figli di quel conte Ugolino che, con atto del 1201, cedette a Tarquinia il dominio su Tolfa Vecchia (O. Morra. op. cit. pag. 40). Il nome di questo antico signore fornisce spunto per un più ampio discorso. L'origine dei Farnese è oscura affermava il Gregorovius supponendoli di origine longobarda (o Franca) per la palese deriva­zione del citato nome Ranuccio dal tedesco Rainer (P. Gregorovius, op. cit., pag. 60) e rilevando che alcuni di loro, dall'undicesimo secolo in poi, andarono Consoli e Podestà in Orvieto (op. cit., p. 60). Ma, già alla fine del quattrocento oscure ai Farnese stessi dove­vano essere le loro origini se, nel 1491, Annio da Viterbo, in una sua genealogia poté farli risalire addirittura ad Osiride ed a Tirreno dovendo però, repentinamente discendere, con un salto di millenni, ad un certo Ugolinus Tuscus Pharnesius il quale, secondo lui, enituit paucis seculis ante e sarebbe stato anche nominato comandante octingentorum equitum a Potentatu Veneto (cfr. Annio da Viterbo, Viterbia Historia, I VI, stralcio trascritto nel sec. XVII nelle Historie di Viterbo di Domenico Bianchi e pubbl. in Annio da Viterbo Viterbia Historia documenti e ricerche, ediz. critica di Giovanni Baffioni, Consiglio Naz. Ricerche, pag. 28 29, nota 17). Ad Ugolino Tuscus Farnese successe (sempre secondo il citato stralcio della Viterbia historia di G. Nanni) Tirrenus Bertholdus Pharnesius quem sacrosancta Sedes aplica (= apostolica) ducem suae militiae designavit.. cui seguì Hetruscus Pharnesius Petrus qui ... cum imperator exercitus a Florentinis dictus esset, ingenti gloria triumphavit de Pisanis Lucensibusque... e dopo la morte di questo Dominus Cola civis tuscus Pharnesius cujus principatum, suscepit ejus proles illustris Viterbii civis Raynuntius priscus Pharnesius.... Secondo questa genealogia (per la quale il card. Alessandro Farnese, faturo Paolo III si congratulò vivamente con l'autore: cfr. Annio da Viterbo documenti e ricerche cit., parte II redatta da Paola Mattiangeli, p. 267) per Annio esistettero, quindi, un Pietro (capitano dei Fiorentini) ed un Cola Farnese mentre nel citato affresco di Caprarola i due personaggi risulterebbero unificati (come si è visto) in Petrus Nicholaus Farnesius vincitore a Bologna nel 1361. Nel titolo del VI libro della Viterbia Historia è detto che il libro riguarda gli uomini ed i fatti illustri di Viterbo fino al Dominum Rainutium, Pharnesii, Hischiae majorisque partis agri Tarquiniensis transmartis fluvium dominum (op.cit., pag. 28, nota. 17). In questa peculiare precisazione di confini, ove il trans di transmartis va ovviamente riferito a Tarquinia sita in riva sinistra del Marta, potrebbe ravvisarsi - documentazione storica consentendolo la controprova postuma di precedenti cessioni, da parte dei Farnese alla libera città, di territori siti al di qua (rispetto alla città stessa) del predetto fiume. In tal caso, nella sequenza storica delle cessioni a Tarquinia di territori situati a sud ?est del Marta potrebbe ipotizzarsi compresa la cessione del territorio di Tolfa effettuata, come si è già detto, nel 1201, da tal conte Ugolino non meglio identificato, col quale potrebbe eventualmente identificarsi il citato Ugolinus Tuscus Pharnesius da Annio considerato, come si è visto (prescindendo da Osiride e da Tirreno), il più antico antenato storico conosciuto del suo contemporaneo Ranuccio a cui egli dedicò la Viterbia Historia". E da presumersi che chi cedette Tolfa a Tarquinia nel 1201 sottoscrivendo un atto di tale rilevanza col solo prenome Ugolino, potesse coerentemente farlo solo perché non aveva altra denominazione aggiuntiva che fosse giuridicamente valida a distinguerlo da altri Ugolini". Torna suQualora potessero ritenersi certa l'ipotizzata identificazione e l'origine longobarda dei Farnese, si potrebbe supporre che nel distico di Tolfa si alluda, tra l'altro, ad un'attribuzione di nomen diretta a sostituire come dovette avvenire ai fini i­dentificativi di discendenti da stirpi barbare, prive di cognome (v. Odoacre, Alboino ecc.) la funzione identificativa già svolta (inadeguatamente) dall'arme la cui figura (i gigli) rievocava, probabilmente, un antico nomen. All'attendibilitá di tale ipotesi sembra però ostare la collocazione della scritta sopra l'arco esteriore (cfr. O. Morra, op. cit. p. 190) dell'unica porta civica. L'indubbia solennità ravvisabile in tale punto di collocazione non può, infatti, non indurre a ritenere che nel distico sia celebrato un evento di carattere straordinario, riguardante non già o non soltanto una singola famiglia, sia pure oltremodo illustre, bensì l'intera collettività locale. Tra gli eventi di questo genere verificatisi localmente nei decenni immediatamente precedenti l'epoca cui, per i motivi sopra esposti, può farsi risalire l'epigrafe, i più rilevanti furono la scoperta dei giacimenti d'allume e la distruzione del castello di Tolfa Nuova (antica città i cui ruderi sono visibili in località Tolfaccia) fatta eseguire, nel 1471, dal pontefice Sisto IV previa consegna di suppelIettili e munizioni al castellano di Tolfa Vecchia (attuale Tolfa) (cfr. O. Morra, op. cit., p. 54). A questa distruzione seguirono il graduale spopolamento e la fine di Tolfa Nuova (O. Morra., op. cit., p.54) la cui popolazione, dovette emigrare a Tolfa Vecchia. Secondo Annio da Viterbo, col nome di Tolfa  Nuova era stata chiamata, dagli abitanti di Tolfa che la ricostruirono, l'antica città di Forum Claudii distrutta dai Saraceni (presumibil­mente) nel IX secolo (Annio da Viterbo, ?Antiquitatum variarum volumina XV Commentari su due frammenti dell'itinerario di Antonino Pio, in O. Morra, op. cit., p. 30). Considerato che le locuzioni Cui dedit oppidulo nomen e gens oriunda non possono non richiamare alla mente la citata attribuzione di nome ad opera di gente oriunda di Tolfa e che lilia può presumersi usato poeticamente a significare fortificazioni (in genere) dato che il vocabolo significa come è noto oltre che gigli, anche fortificazioni a forma di giglio (cfr. Giul Cesare, De bello g. e Vocab. Lat Ital. ad usum R. Taurinensis Academiae, Pezzana, Venetiis, 1781, voce Lilium), appare impossibile non ravvisare nella fine di Tolfa Nuova, seguita alla distruzione del castello operata nel 1471, l'evento celebrato nell'epigrafe che venne murata sulla porta di Tolfa Vecchia. E' tuttavia evidente che l'uso di lilia nel senso di fortificazioni appare oltremodo sospetto dato che il vocabolo significa anche e sopratutto, gigli, fiori, questi,che figurano come è noto, nell'arme farnesiana. Per tale motivo, tenuto presente che i gigli possono, verosimilmente, presumersi raffigurati in tale arme a ricordo d'un antico cognome e che nomi farnesiani (Ranuccio, Pierluigi compaiono ripetutamente nella storia di Tolfa Nuova (O. Morra, op. cit. p.193), l'attribuzione di nomen cui si allude nell'esametro può supporsi riferita, ad un tempo, metaforicamente, sia alla predetta diruta cittadina di Tolfa Nuova sia alla casa Farnese. A riscontro di questo secondo riferimento va rilevato che nel 1537, ossia nell'anno in cui secondo una delle due versioni sopra riferite, Annibal Caro soggiornò in Tolfa (Vecchia), Pierluigi Farnese, figlio di Paolo III asceso al Papato nel 1534, acquistò dalla Rev.da Camera Apostolica quella che era ormai denominata Tenuta di Tolfa Nuova (cfr., per questa importante notizia, Giuseppe Cola, I monti della Tolfa nella storia la Tolfaccia e Forum Clodii, Pro loco, Tolfa, sett. 1984, pag. 41 e fonti ivi citate in nota n. 135: E. Martinori, Lazio turrito, Roma, 1933 34 G. Silvestrelli, Città e castelli della regione romana, Roma 1940. (*) Va tuttavia rilevato che, in assenza d'un elemento che logicamente li collegasse, il poeta non avrebbe potuto correttamente rievocare, facendo uso delle stesse parole, i due predetti eventi. La palese allusione al trasferimento delle attrezzature difensive mobili da Tolfa Nuova a Tolfa Vecchia espressa con le parole lilia (=munimenta) restituit gens oriunda domum; l'altrettanto chiara rievocazione della vittoriosa difesa di Bologna del 1361 che le  monete bolognesi cui si è sopra accennato impongono di ravvisare nelle parole cui Fèlsína (dedit) muros; l'uso di termini militari, quali oppidulo, muros e lilia (=munimenta), rendono indubbio che è l'arte della fortificazione a costituire l'argomento comune alle due rievocazioni contenute nel distico ed a fornire, inoltre indizio dell'autenticità della versione esposta. Che gli eventi rievocati siano due non può essere posto in dubbio. La metafora insita in lilia non è l'unica ravvisabile nel distico. Torna su

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(*) L'alienazione, da parte di Pierluigi, del relativo censo (G. Cola, op. cit., p. 41) contribuì forse, in una col successivo declino dei Farnese e delle famiglie ad essi legate, a rendere oscuro ai posteri il senso, di per se complesso, dell'epigrafe.

Va infatti considerato che oppidulum significa sia cittadina che cittadella (nel senso di fortezza o castelletto); che il vocabolo domus significa sia casa (o patria) che casata; che gens, oltre che popolazione, significa anche schiatta; che muros, oltre che muri , significa anche difese (come lilia); che, per quest'ultimo motivo, nonché per i due significati diede od assegnò (o affidò = diede in mano) in astratto attribuibili a dedit, l'espressione (dedit) muros può essere tradotta sia con eresse (come il Caro tradusse, in sede di versione delI'Eneide il dedit muros dell'esametro n.200 del libro X di cui quello del distico è quasi una riproduzione) sia con affidò le difese; che restituit  può essere riferito sia a lilia che a domum e che, infine, a quest'ultimo vocabolo oppure ad oppidulo può esse riferito ciascuno dei due cui. In quanto risulta composto di parole e di locuzioni utilizzabili per esprimere più d'un concetto il distico deve avere un doppio contenuto. Tenute presenti le considerazioni in precedenza esposte, i due contenuti dell'epigrafe non possono che riguardare, rispettivamente, la fine di Tolfa Nuova ed un evento concernente la famiglia Farnese. Se, per ciò che concerne quest'ultimo evento, a Fèlsina deve darsi (in relazione alle monete) il senso di Bologna (con riferimento alla vittoria farnesiana del 1361 cui si è accennato), può sembrare, a prima vista, impossibile attribuire al vocabolo lo stesso significato, in relazione all'altro evento, dato che Tolfa non ebbe mai relazioni, memorabili, con la città emiliana. Solo l'argomento fortificazione può, al riguardo, soccorrere. Per necessaria esclusione d'ogni altra ipotesi deve pertanto ritenersi che, nel rievocare la fine di Tolfa Nuova, il poeta abbia, usato l'espressione cui Fèlsina (dedit) muros metaforicamente onde porre, in risalto che l'oppidulum, dopo la distruzione da parte dei Saraceni (v. sopra) era stato ricostruito dagli abitanti di Tolfa vecchia (v. sopra), ma in modo piuttosto sommario e cioè, anziché con pietre, con mattoni (forati?) bolognini, a quanto pare, perché di tale materiale venne fatto grandissimo uso sopratutto a Bologna il  cui centro storico ha come è noto, per questo motivo, il caratteristico colore rosso cupo (*) l'insicurezza della sommaria costruzione appare chiaramente rievocata a motivazione della demolizione del castelletto. Ai fini della soluzione dell'enigma quale è indubbiamente l'epigrafe - le due allusioni a Bologna, chiaramente inserite in funzione farnesiana, si rivelano essenziali.Bononia docet quindi, come sembrano avvertire le monete, recanti il noto motto felsineo, che vennero rinvenute come si è già detto, all'atto della demolizione della porta di Tolfa. A fugare gli eventuali dubbi circa la natura enigmatica (v. O. Morra op. cit. pag. 191 del distico nonché circa l'identificazione del suo autore col Caro (la cui opera poetica è irta di mètafore) appare utile la lettura della lunghissima lezione che il poeta impartì al modenese Ludovico Castelvetro (detrattore della sua canzone In lode della Casa di Francia: v. sopra) in merito all'uso in poesia di metafore, enigmi ed allegorie (cfr. Apologia degli Academici di Banchi sopra cit. pagg. 108 130). Dovereste pur aver letto, faceva rilevare il Caro al Castelvetro, che questa è una delle cagioni che fanno le metafore tanto dilettevoli; perché in uno istante vi mostrano due cose in una e vi fa passare con l'intelletto dall'una nell'altra; il qual passaggio si presuppone che si debba fare da chi legge siccome lo fa chi scrive; trasportando le qualità e gli effet­ti da parola a parola (Apol. cit, pag.120). Sulla base delle considerazioni che precedono, le parole scolpite sulla lapide che venne murata sulla porta di Tolfa: Torna su
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(*) Questa interpretazione della locuzione cui Fèlsina muros (valida per la I versione) venne già ipotizzata (verbalmente) in passato (e va ricordato pur non soccorrendo la memoria circa l'identità della fonte) ma venne ritenuta inattendibile in quanto riferita a Tolfa Vecchia il cui castello è edificato con pietra.

CUI DEDIT OPPIDULO NOMEN CUI FELSINA MUROS

LILIA RESTITUIT GENS ORIUNDA DOMUM

in quanto in uno istante mostrano due cose in una, leggendole ?costruite- prima a partire dall'esametro e subito dopo a partire dal pentametro, tenendo conto dello “stile lapidario”, ovviamente scevro da inutili riferimenti, possono essere tradotte come segue:

costruzione (iniziando la lettura dall'esametro):

(Ab) oppidulo cui dedit nomen, cui Fèlsina (dedit) muros (= quod ex felsineis lateribus exstructum, est), gens oriunda (ex liliis = munimentis: v. infra) (Tulphae Veteris) restituit lilia ( = munimenta lilii instar: v. ap. C.J.Caes., hic = munim. sic et simpliciter) domum.

costruzione (iniziando la lettura dal pentametro):

(Sed), lilia (= sicut munimenta), gens (= stirps) (*) (ex eis, sive ex avis quibus, Lilia erat nomen) oriunda, restituit Domum (familiam gentis) cui (eadem gens) dedit nomen oppidulo (* *), cui Fèlsina (dedit) muros.

versione letterale complessiva: Torna su

Dal castelletto cui diede il nome ed a cui Bologna forni i muri (= e che fu eretto con mattoni detti bolognini) la popolazione, di luoghi (ben) muniti oriunda (***) l'ha rimesso (o ha ristabilito ) i gigli (= le fortificazioni: v.costr.) nella madrepatria.

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(*) Gens dovrebbe intendersi, qui, in senso romano, non per ''famiglia (o Casa(ta) ostando a questo significato quello identico da darsi certamente a domum (dato che solo ad una famiglia può essere riferita la frase cui dedit nomen). Ilrisultante pleonasmo vieta quindi di tradurre: la famiglia... vi ha ristabilito la propria Casa (= famiglia) alla quale diede il nome di.... (**) Con oppidulo in dativo: cfr.Tarquinius cui Superbo cognomen facta indiderunt (T. Livio, A.U.C., I, 49). (***)Oriunda. cioè, della (notoriamente) ben munita Tolfa Vecchia; circa l'origine cfr. Annio da Viterbo in O. Morra, op. cit., p. 30).

(Ma) come gigli (ossia, a guisa di fortificazioni), la schiatta che ne discende (= discendente da avi che portavano il cognome Gigli) (vi) ha ristabilito (tra quelle della schiatta stessa) la famiglia alla quale assegnò per cognome (l'esercizio del) la piccola fortificazione ( oppidulo, detto, nel medio evo arnese (****) ed alla quale Bologna (assegnò) (la difesa del) le (proprie) mura.Sulla base di questa versione (indubbiamente migliorabile in sede di specifica analisi estetica) e delle precedenti considerazioni, il distico può essere interpretato, all'incirca, come segue:

I) Commemorazione della fine di Tolfa Nuova:

Dal castelletto cui diede il nome di Tolfa Nuova e che era vulnerabile dalle armi moderne (artiglierie) per essere stato costruito con mattoni (forati?) detti bolognini, la popolazione, originaria della ben munita Tolfa Vecchia (dal castello di pietra), in esecuzione del provvedimento adottato nel 1471 dal papa Sisto IV (v. sopra), ha ristabilito le difese nella madrepatria.

II) Celebrazione dell'insediamento dei Farnese nel sito di T.Nuova:

(MA) la stirpe, discendente da avi che si chiamavano Gigli (cognome sinonimo di fortificazioni) vi ha ristabilito, a mò di gigli (ossia dì fortificazioni) a seguito dell'acquisto del pertinente territorio (1537: v. sopra) da parte di Pierluigi Farnese ed operando una scelta oculata, come il poeta vuole argutamente fare intendere, tra le famiglie della schiatta proprio quella famiglia alla quale la schiatta stessa (evidentemente in considerazione di una specializzazione al riguardo) assegnò per nomignolo ( divenuto cognome) (l'esercizio del) la piccola fortificazione (ossia il fa arnese = professionista in modesta e quindi debole fortificazione) (*) ed alla quale Bologna (costruita anch'essa con mattoni) assegnò (nel 1361, in persona di Pier Nicola Farnese) la difesa delle proprie mura. "Per tale motivo, va forse sottinteso, chi intendesse esercitare attività lavorative nel territorio di Tolfa Nuova potrebbe farlo in tutta sicurezza essendosi stabilito là chi saprebbe difenderlo. Torna su
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(****) Può quindi supporsi che il nuovo cognome (nomignolo in origine), onde derivò Farnese, fosse (il) fa - arnese = (condottiero) specialista nell'uso dì modeste fortificazioni (v. al riguardo pag. seg).  
(*) In fa-arnese (cui certamente corrisponde l' oppidulo nomen) il fa svolgeva la stessa funzione svolta in fa legname, fa cocchio ecc. (cfr. facere medicinam argentariam etc. in Campanini Carboni, vocab. lat / ital., v. facio). In base a tale etimologia dovettero essere i Farnese a dare il nome al paese omonimo (come i Colonna a Colonna) e non viceversa. Intorno al 1553 il Caro (sua è, quasi certamente, l'epigrafe), onde reperire per Farnese una origine più antica ed insigne, ipotizzò per tale vocabolo il significato di giglio in ebraico (smentito in ciò dal Castelvetro.
(**) supponendovi forse relazione col senso cesariano del termine. Le doti di difensori di città, comuni, (in base al distico) ai Farnese ed all'altro ramo della gens (v. appresso), forse ispiratore, quest'ultimo, del contenuto della scritta, consentono però di dare un certo credito all'etimologia di Farnese che è implicita nella locuzione oppidulo nomen. (**) Cfr. Apologia d. Accademici di Banchi in op. cit., p. 260, nota 2.

Parte II - Ipotesi circa le origini dei Lilia ‑Farnese.

Dal distico si apprende - tra l'altro - che i Farnese erano un ramo della gens (da intendersi, nell'epigrafe, in senso romano) dei Lilia originaria di Tolfa Nuova e che gli stessi vennero contraddistinti dal parentado con un soprannome, divenuto poi cognome, significante, all'incirca operatore di fortificazione. (Fa ?arnese) Poiché dell'antico, nomen è conservata palese memoria nei gigli raffigurati, come è noto, nell'arme farnesiana, l' altro ramo dei Lilia potrebbe essere forse ravvisato ma questa ipotesi necessita di conferma storica nella famiglia Celli di Tolfa (il cui cognome non è che la forma arcaica del moderno Gigli) recante anch'essa il giglio nell'arme gentilizia: cfr. Alessandro Bartoli il quale ipotizzò anche l'identificazione con i Celli della famiglia celebrata nel distico in O. Morra, op. cit., pag. 192. La famiglia Celli sembra attestata storicamente, come risulta da un'antica epigrafe trascritta dal Bartoli, all 'anno' 801 (A. Bartoli in O. Morra, op. cit., p. 194). Membri della stessa esercitarono funzioni pubbliche in Tolfa nel quattrocento A. Bartoli in O. Morra op. cit., p. 194) e nel cinquecento (O. Morra, op. cit., p. 295). L'ipotesi relativa all'identificazione con i Celli dell'altro ramo della gens Lilia sembra trovare riscontro proprio nella difesa di centri abitati, costituente, come si apprende dal distico, la specializzazione della gens. Nella difesa si erano infatti illustrati non soltanto i Farnese a Bologna (nel 1361) ed altrove, ma anche i Celli a Tolfa Nuova nel quindicesimo secolo, all'epoca del papa Eugenio IV ed a Tolfa Vecchia, nel corso di un inutile assedio da parte dell'esercito pontificio (cfr. A. Bartoli in O. Morra, op. cit., pag. 192). Nel distico, con l'attribuzione della restitutio ivi rievocata all'intera schiatta già denominata Gigli s'intese, probabilmente, alludere anche alla formale immissione dei Farnese nel possesso di T. Nuova da parte della Autorità Comunale (di Tolfa Vecchia) a capo della quale doveva esserci un Celli (forse identificabile con Francesco Paolo Celli redattore, con altri nel 1530, dello Statuto di Tolfa: cfr. O. Morra op. cit., pag. 295). In merito alle origini dei lilia, allo stato della ricerca, non possono formularsi che ipotesi. L'antichissima attestazione storica dei Celli e l'origine longobarda (dando credito al Gregorovius) dei Farnese rendono, tuttavia meno spericolato il salto che è necessario compiere nei secoli bui qualora si ipotizzi, come sembra possibile, una connes­sione etimologica tra il cognome Celli ed il nome Cillane portato da un capo longobardo (forse della Toscana secondo il Borgnetti (L'età longobarda, Univ. Milano, p. 26 seg.) menzionato dal papa S. Gregorio Magno in una lettera del 603 diretta all'Esarca bizantino di Ravenna Smaragdo (cfr. Bianchi, Vèlsina, Roma 1978, p. 14). In tale lettera S. Gregorio faceva presente a Smaragdo di aver chiesto invano il rispetto d'una tregua in precedenza stipulata al predetto Cillane le cui truppe evidentemente minacciavano d'invadere il Ducato Romano nonché al Pisani i cui dromones scriveva il papa, erano già annunciati parati ad agrediendum (S. Greg. papae I opera omnia studio et lab. Monachorum Ord. S. Benedicti et Congr. S. Mauri iterum exacta a J. Bapt. Gallicciolli Tomus VIII, Typogr. Sansoniana. Venetiis 1771, pag. 397 398) I dromones dei Pisani dovevano essere gli stessi che nel 599 avevano trasportato i Iongobardi in Sardegna per compiervi le devastazioni cui accenna S. Gregorio in una lettera di quell'anno diretta al Vescovo di Cagliari al quale il papa faceva peraltro presente di aver conosciuto gli effetti dell'incursione prima ancora di ricevere da lui la lettera (cui rispondeva) contenente la notizia ufficiale del tragico evento (S. Greg., op. cit.,Tomo VIII, p. 42 43). Probabilmente nel 599, il papa dovette essere informato con tanta celerità da coloro che avevano assistito al ritorno degli incursori alla base di partenza (ossia prima dell'arrivo della nave recante la lettera del vescovo). Se, come è presumibile, le cose andarono in tal modo, tale base di partenza, per evidenti ragioni temporali, doveva essere situata in una zona relativamente prossima a Roma e non già a Pisa. Si doveva trattare, invece, con ogni probabilità, d'un porto, situato nella zona di Centumcellae città, questa, nella quale S. Gregorio spesso soggiornava (cfr. a questo riguardo, C. Calisse, Storia di Civitavecchia, pag. 61, nota 2) potendo quindi, eventualmente, apprendere ''de visu o quasi, le notizie di cui sopra. Si trattava, forse del porto detto di S. Agostino nel 1970 ( allorché vi ormeggiò la flotta italiana: cfr. Lo Zuavo ed il Bersagliere a c. di Nino Sansone, art. di G. Guerzoni pubbl. in Nuova antologia sett. 1971, Giordano Edit., p. 46) e con denominazione palesemente longobarda di Bertaldo nelle epoche anteriori. (*). Che la predetta zona territoriale si chiamasse anticamente Pisana risulta abbastanza evidente oltre che implicitamente dai fatti in narrativa, anche da altri indizi fra questi basti citare, per brevità, solo i seguenti: 1) Il soggiorno di S. Agostino sul Monte Pisano ed in Centumcellae concordemente menzionato da vari antichi autori con citazione congiunta dei due toponimi. e la testimonianza dello agostiniano Pedro del Campo secondo il quale il santo visitò i monaci del Monte Pisano ove era un convento nella cui chiesa si vedeva una lapide che cominciava con le parole ?sive viator : cosi cominciava un'antichissima epigrafe e (ricordante il soggiorno) già esistente nella millenaria chiesa della Trinità (sui Monti d. Tolfa) (O. Morra, op. cit., pag. 25).Torna su

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2) La Via della Pisana, antichissima arteria che, dai quartieri occidentali di Roma va verso Etruria Marittima.
3) l'indicazione, in una gabella del vino del Comune di Roma, d'una taberna sita in Pisana (Sergio Delli, Le strade di Roma, voce Via della Pisana, Newton Comptom edit.; per altre not. circa Pisa cfr. Bianchi, Velsina, Roma, 1978).

Se Cillane come è da presumersi data la nota incompetenza marinara dei longobardi aveva bisogno dei dromones dei Pisani abitanti nella zona di Centumcellae è altresì presumibile che in questa stessa zona fossero accampate le sue truppe di terra. Egli può quindi essere identificato con uno di quei duchi residenti in his partibus che S. Gregorio affermò di temere in modo particolare in un'altra sua lettera diretta ad Agilulfo nel 599 nella quale il papa pregava il re d'imporre ai duchi medesimi il rispetto della tregua in quell'anno stipulata (S. Greg. op. cit. Tomo VIII, p. 78). Nel retroterra del porto di S. Agostino - immediatamente al di là della vicinissima via Aurelia - si estende una vasta plaga ondulata denominata Camporeale (cfr. Guida d'Italia, Lazio (non compr. Roma), Touring Club Ital., MI 1964, carta intercal. a p. 96).

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(*) Cfr. F. M. Mignanti, Santuari della regione di Tolfa,a cura di Ottorino Morra, antica lapide trascritta a pag. 18, nonché O. Morra, op. cit., pag. 25. La denominazione medioevale di Bertaldo del lido di S. Agostino non può non richiamare alla memoria il simile nomen farnesiano Bertholdus menzionato nella citata genealogia anniana (cfr. pag.5).

In tale zona - che costituiva, verosimilmente, l'estremo lembo meridionale marittimo della Tuscia regalis può presumersi, come sembra attestare la significativa denominazione che fossero dislocate le truppe longobarde impegnate, nel 603, contro i Bizantini che difendevano Centumcellae. La predetta zona si estende fino ai margini dei rilievi collinari (propaggini dei Monti della Tolfa) sui quali è ubicato l'antico complesso edilizio denominato La Farnesiana, anticamente appartenuto, come il nome, attesta, alla famiglia Farnese. Qualora quanto sopra ipotizzato trovasse conferma potrebbe localizzarsi in questa zona il campo d'operazioni del capo longobardo Cillane menzionato da S. Gregorio nella citata lettera del 603. Poiché il nome di questo capo è l'evidente latinizzazione d'un vocabolo paleogermanico la cui radice data l'assenza della /8/ (dolce) nella lingua tedesca - va verosimilmente identificata con schill, è da ritenersi estremamente probabile che il capo predetto portasse, in realtà, un nome radicalmente assimilabile al vocabolo tedesco schillern significante, come è noto, iridescente. Al riguardo va rilevato che il vocabolo italiano iride ed il vocabolo latino iris con i quali il vocabolo iridescente è etimologicamente connesso significano, oltre che arcobaleno e cristallino (dell'occhio), anche giglio silvestre (cfr. Regia Parnassi, Neapoli, v. iris, ap. A. M. Ricci, p. 381) o giaggiolo o giglio paonazzo (cfr. Vocab. Lat Ital . ad usum R. Academiae Taurin.,Venetiis 1781, v. iris.). Questa pianta venne chiamata iris in latino a causa del suo colore iri­descente ossia apparentemente mutevole come l'arcobaleno, del suo fiore (cfr. Plinio, Nat. Hist., libro XXI, 7). Nel corso del processo di evoluzione linguistica svoltosi in italia durante la dominazione Iongobarda il nesso semantico che univa a Cillane vocabolo corrispondente al tedesco scillern costituì probabilmente la causa, iniziale di quel mutamento strutturale per effetto del quale attraverso l'influsso del tema paleogermanico /schill/ il latino lilium giunse a trasformarsi in giglio. Delle fasi intermedie di tale processo evolutivo è chiaro sintomo l'apparizione nel lessico dei cogno­mi Cellini e Celli. Poiché tali cognomi appaiono strutturalmente affini al nomen Cillane di gregoriana memoria, ipotizzata connessione etimologica di tale nomen col vocabolo schiIlern e la conseguente possibilità di attribuire al nome dell'antico capo longobardo un valore semantico corrispondente all'incirca a giglio sembrano trovare anche se indirettamente riscontro nel giglio che è raffigurato sia nell'arme di Benvenuto Cellini sia in quella della famiglia Celli di Tolfa ( per Cellini cfr. B. Cellini, Vita, pref. Costanza Pasquali, Cremonese, p. 111; per la f. Celli cfr. O. Morra, op. cit., Pag. 192 ove è riportata quanto scrisse al riguardo A. Bartoli). Se Cillane, come si è sopra ipotizzato, era un duca (e doveva pur esserlo se un papa chiedeva a lui di rispettare una tregua) egli era, molto probabilmente, il titolare del ducato di Castro (uno dei 30 o 36 ducati longobardi (*), l'unico, cioè, dei ducati prossimi a Roma (e quindi particolarmente temuti da S. Gregorio: v. sopra) che avesse frontiere marittime (onde poter effettuare incursioni in Sardegna). Si tratta, come è evidente, d'una semplice ipotesi. Certo è però che Paolo III Farnese scelse come è noto proprio Castro a sede dell'omonimo ducato che egli istituì per suo figlio Pierluigi.

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(*) Cfr. Cesare Cantù, Documenti alla Storia Universale, tomo VIII, ottava ediz., Unione Tipografico editrice, Torino, 1859, pag. 284. Torna su