index

 

 

Pagina 2 Pagina 3 Pagina 4 Pagina 5

L'allume di Tolfa e il suo commercio

Nella vasta pianura che si distende, lungo il litorale tirrenico, dal monte Amiata fino alla cerchia dei colli Albani, e comprende la più gran parte della Tuscia romana, le due principali masse di sollevamento sono quelle dei monti Cimini e dei monti della Tolfa.
Quest'ultimo gruppo, continuazione della catena metallifera della Toscana, ha principio al sud di Corneto, dalle cui pendici lo separa il corso inferiore del fiumicello Mignone, e termina con le alture di Cerveteri, presso il Fosso Vaccina, oltre il quale la pianura, non più interrotta che da lievi ondulazioni del terreno, digrada verso il Tevere e la campagna di Roma. Il limite orientale del gruppo si Confonde con le colline che incoronano il lago di Bracciano; a ponente esso allunga le sue propaggini fino al mare, presso al capo Linaro.
Simili a un piccolo arcipelago, quali dovevano essere in realtà ne' tempi preistorici, quando le bassure subappenniniche stavano ancora sott'acqua, i monti Tolfetani formano un intricato e bizzarro complesso di alture boscose e selvagge, spesso dominate da cocuzzoli di rocce biancheggianti, frastagliate dai profondi valloncelli ne' quali scorrono gli affluenti del Mignone, che ricinge il gruppo a settentrione e ad oriente, dalla foce marina fino allo spopolato paesello di Rota. Se una distinzione dovesse farsi nell'apparente disordine della breve cerchia montana, potremmo segnarla col maggiore di codesti tributari, il Verginiese, che sembra dividere il gruppo in due regioni: alla inferiore sovrasta l'aspro colle della Tolfaccia (591 m.), la settentrionale emerge coi mammelloni di monte Urbano (622 m.), delle Grazie (61 5 m.) e col picco della Tolfa, coronato dagli avanzi di una possente rocca, che dominava il villaggio omonimo. Vicino a questo un altro villaggetto, Allumiere, giace ai piedi del monte delle Grazie e forma, insieme col primo, il solo centro popolato di tutto il gruppo montuoso, in cui regna per molte miglia all'ingiro l'abbandono; e dove le valli sono infestate dalla malaria (1).
Sorto nel periodo eocenico dell'epoca terziaria, il nucleo del gruppo della Tolfa e costituito di rocce trachitiche, intorno a cui si e venuta formando una vasta zona di calcari e di arenarie. In codesto nucleo, al pari che nella catena metallifera toscana che lo precede, s’incontrano frequenti e copiose le vene metallifere, insieme con altri preziosi minerali: il ferro, il piombo argentifero, i solfuri di piombo e di mercurio, il caolino o terra da porcellana, la pietra litografica, i bellissimi quarzi cristallini (diamanti della Tolfa) e l'allumite, abbondantissima e di qualità eccellente. Ricchezze rimaste lungamente ignorate: che l'età antica non ci ha lasciato memorie (2) di sfruttamento dei tesori nascosti in questa regione selvaggia, che nessuna strada romana percorreva; ne vi e ricordo o traccia alcuna di lavori mineari durante il medioevo (eccettuata, forse, la escavazione del ferro (3) nella zona inferiore del gruppo montuoso), prima della scoperta degli allumi che doveva dare alla negletta contrada insolita vita, sul cadere dell’età medioevale. Onde pare giustificata l'affermazione di uno scrittore contemporaneo al famoso rinvenimento, il quale chiamò la regione «plaga rimasta ignota per più di cinquemila anni, fino « ai tempi nostri » (4).
La più antica memoria, a noi nota, della storia politica dell'alpestre paese e quella conservata nella Historia Sicula (5) di Lorenzo Buonincontri, dove si narra del sorgere di vari tirannelli nei domini della Chiesa, in seguito alla morte del re tedesco Corrado III (1152). Fra questi e ricordato Nicolò dell’Anguillara, che occupava Tolphas et Sanctam Severina. La forma plurale del nome, se non è creazione del cronista quattrocentista, starebbe a dimostrare che già in codesto secolo il territorio tolfetano era diviso in due domini e due castelli: Tolfavecchia e Tolfanova, della cui esistenza abbiamo certi documenti per il secolo XIII (6).
Al principio del seguente, nel 1303, il vicario generale del Patrimonio assolveva il comune di Corneto dalle violenze perpetrate contro i castelli e gli abitanti di varie terre poste sotto la giurisdizione di quella potente repubblica, la cui libertà cominciava, però, già allora a piegare sotto il pre-dominio della Chiesa: fra codeste terre é nominata Tulfavetus, i cui signori dipendevano da Corneto anche nel Dugento (7).
Quanto alla Tolfanuova, che fu essa pure un tempo compresa nel territorio della giurisdizione cornetana, pare non tardasse a sottrarsene dopo la fine del secolo XIII. Verso la metà del Trecento n'era investito il prefetto di Roma, Giovanni di Vico, che nel 1354, al tempo della rinascente signoria pontificia in Italia, prestava giuramento di fedeltà al rettore del Patrimonio per i suoi feudi « castris Bledae, « Civiteveteris, Tulfenovae et Ancarani » (8). La grandezza della potente casa di Vico scompare, insieme con la famiglia stessa, come é noto, nel principio del pontificato di Eugenio IV; il quale infeudava del castello e del territorio di Tolfanova, insieme con altri terreni e luoghi fortificati della medesima regione, il nuovo prefetto di Roma Francesco Orsini (9). Questi otteneva la conferma della investitura da Nicolò V ; ma il successore Callisto III trasferiva al nipote prediletto Pier Luigi Farnese, insieme con la prefettura, anche il feudo di Tolfanova, da essa dipendente. Sotto Pio II tornò il possesso agli Orsini, che ne venivano spogliati nel 1460 dalle armi di Everso dell'Anguillara, il quale restaurò la rocca, abbandonata, e la munì per dominare il castello e i territori vicini (10), finché Paolo II non ebbe avocato Tolfanova e le sue terre alla Camera papale: ciò che vedremo più innanzi.
A Tolfavecchia si dividevano il dominio nel Trecento vari signori, fra i quali emergbri della famiglia Baldi, il cui nome fu probabilmente originato da quel Tebaldo che compare nei documenti cornetani del secolo precedente ono i mem(11). Essi ebbero contenzioni coi conti dell'Anguillara, loro vicini e antichi dominatori della Tolfa, e composero le loro liti nel 1331 (12). Un secolo più tardi, la signoria di Tolfavecchia pare fosse ridotta nelle mani di una sola famiglia, della quale sono noti i fratelli Lodovico e Pietro, che tenevano il dominio al tempo della scoperta delle ricchezze minerarie tolfetane. In quest'epoca Corneto manteneva ancora diritti d’alta signoria sul territorio posseduto dai due fratelli (13) (che possiam ritenere discendenti dei Baldi, benché mai non appaia il cognome nei documenti che li concernono); ma il castello e il territorio della Tol-favecchia dovevano, al pari di quelli della Tolfanuova, venire ben presto assorbiti dalla dominazione pontificia.
Ci siamo indugiati a precisare la divisione della regione tolfetana in due distinti domini feudali, perché su di essi dovremo ritornare discorrendo dell’allume di Tolfa, che forma l'argomento della nostra trattazione; e perché tal divisione era passata finora inosservata dagli scrittori, anche da quelli che ebbero sott’occhi gran parte dei documenti suaccennati, e pur continuarono a parlare di un solo castello e di un sol dominio di Tolfa. La ragione di ciò sta, a parer nostro, nel fatto, che oggi rimangono cospicui avanzi di un solo castello, quello di Tolfavecchia, che tutti chiamano semplicemente « la Tolfa », mentre della Tolfanuova é scomparsa perfino la memoria nella tradizione presso gli abitanti di quei pittoreschi luoghi. Ma a chi perlustra le cime boscose delle colline tolfetane al sud del Verginiese, appaiono le tracce sicure di una rocca gemella nei resti di forte costruzione medievale, che spuntano tra il folto della selvaggia vegetazione alla sommità della « Tolfaccia » (14).
A far comprendere l’importanza economica e politica della scoperta di vene alluminose nella regione che abbiamo descritta, non sarà qui inopportuna qualche notizia sul commercio dell'allume nei precedenti secoli del medioevo.
L' allume, prodotto industriale dell' allumite, fu tra gli articoli più ricercati nel commercio medioevale, a cagione dell'uso generale che se ne faceva in molte industrie, ma specialmente nella fissazione dei colori nei tessuti; l’utilità di esso era nota agli antichi Greci e Romani, i quali se ne servivano anche per impregnarne le macchine guerresche e difenderle così dal fuoco nemico (15). Esso veniva ai mercati dell'Occidente in gran quantità dai paesi orientali, sopratutto dai porti di Siria e d’Egitto, fin dai tempi più remoti dell'età di mezzo, dei quali abbiamo notizie relative a questo traffico, e più tardi dalle coste dell'Anatolia; tuttavia, non mancavano le miniere di allumite nei paesi bagnati dal Mediterraneo occidentale, e specialmente nella nostra penisola. Nella prima metà del secolo XIII si trova nel commercio l’allume di monte Argentaro; più frequenti sono le menzioni di allume delle isole d'Ischia e di Vulcano, le cui miniere furono attive già al tempo di Roma antica, e nel medioevo fornivano la industre regione toscana (16).
Ma col diffondersi della dominazione e dei traffici delle repubbliche italiane in Levante, il prodotto delle miniere asiatiche conquistò l’assoluto predominio sui mercati europei e fece languire, se non scomparire, il lavoro delle allumiere italiane (17). Ai Genovesi, divenuti signori delle ricchissime miniere di Focea nell’Asia Minore, venne fatto ben presto di raccogliere nelle lor mani lo sfruttamento di quasi tutte le miniere d’allume in Oriente, e il traffico di codesta merce nei paesi occidentali (18).
Ma la inferiorità dell’Occidente riguardo alla quantità e la qualità dell'allume, e la sua dipendenza dal commercio di questo articolo dall’Oriente si fecero sentire gravosissime dopo la caduta dell' Impero bizantino (1453). I Turchi tolsero ben presto ai Genovesi e ai principi turcomanni dell’Asia Minore i paesi delle miniere; e se l’esercizio e il commercio delle allumiere asiatiche rimase agli Occidentali, diveniva però oltremodo oneroso il tributo che impinguava il tesoro dei sultani di Costantinopoli di più che centomila ducati ogni anno, in grazia di questo solo prodotto minerario (19). Dobbiamo quindi ravvisare uno sforzo dell’Italia commerciale a sottrarsi da sì dannosa dipendenza nelle scoperte di giacimenti alluminosi, delle quali si trova notizia nelle cronache italiane, tra i fatti degli anni immediatamente successivi alla rovina dell' Impero di Oriente.
Prima del 1459 (l’anno indicato dai cronisti, i quali, evidentemente, registravano i fatti quand’essi avevano già ottenuto dalla fama larga divulgazione) si scoprivano nuove vene del prezioso minerale a Volterra (20), e si riaprivano le miniere d’Ischia e di Pozzuoli (21), per opera di Genovesi. Verso quest’epoca, nelle terre dei conti di Piombino, non lungi dal monte Argentaro, si rinvenivano uguali giacimenti (22); Venezia, che non trovava codesta ricchezza ne’ propri domini, la andava a cercare, nel 1461, fra i monti del Tirolo (23). E in questo stesso anno si rivelavano all’attività industriale e commerciale degli Italiani i tesori delle vene alluminose di Tolfa, la cui produzione doveva rapidamente acquistare importanza somma, in questo ramo dei traffici europei.
II.
La storia della scoperta dell'allume nei monti della Tolfa ci é conservata nelle Memorie di Pio II e negli atti ufficiali del suo pontificato. Ma, se le pagine dei famosi Commentarii del papa umanista si trovano riprodotte o riassunte in tutti gli autori che scrissero del suo pontificato in generale, o particolarmente della scoperta fortunata, le notizie contenute in quei ricordi autobiografici non sono state finora vagliate con l’aiuto dei documenti, che giovano a chiarirle e a integrarle.
Narra Pio II, ne’ suoi Commentarii, di Giovanni da Castro, un Padovano (24) arricchitosi in Costantinopoli con l'industria dei panni, ch’ei ritirava dall'Occidente e tingeva con poca spesa mediante l’allume abbondante dei paesi d’Oriente; il quale, perduto ogni suo avere per la caduta di Bisanzio sotto le armi di Maometto II, erasi ridotto in
Italia e, assunto al pontificato Enea Silvio Piccolomini, da questi (antico amico di lui e del padre, il celebre giurista Paolo da Castro) veniva accolto nella Corte papale, ottenendovi l'ufficio di commissario generale sopra le rendite della Camera apostolica in Roma e nel Patrimonio. Perlustrando i monti e i colli della Campagna romana, egli trova certi arbusti che crescevano nell'aspra regione della Tolfa, e gli ricordavano la vegetazione caratteristica delle montagne ricche d’allumite dell’Oriente; in breve, giunge a scoprire che i monti tolfetani nascondevano nelle loro viscere immensa quantità del prezioso minerale.
All’entusiasmo, con cui messer Giovanni annuncia al pontefice la scoperta, Pio II oppone da prima l’incredulità; ma quando a Venezia e a Firenze gl’intenditori confermano che le pietre scavate a Tolfa contengono veramente l’allumite, e alcuni Genovesi provetti lavoratori di allumi, chiamati a saggiare il prodotto della nuova miniera, ne esaltano l’eccellente qualità, superiore a quella delle miniere asiatiche, il papa si arrende all'evidenza del fatto provvidenziale, che gli avrebbe procurato i mezzi per la Crociata, a cui eran rivolte tutte le energie del suo fervido spirito; e provvede a trarre il maggior profitto dall’insperata fortuna (25).
Il fatto é riferito dagli storici moderni all'anno 1462, sulla fede dei cronisti contemporanei, e delle parole dello stesso pontefice che scriveva essere il da Castro venuto alla Corte di Roma « poco prima » della primavera di codesto anno (26). Ma l'espressione va evidentemente presa in senso assai largo, poiché non v’ha dubbio che il da Castro trovavasi in corte di Roma fino dal 1460 (27); si può anzi ritenere che già in codesto anno fosse avvenuta l’importante scoperta, e che essa sia stata contemporanea, o quasi, ai rinvenimenti di allumite in altre parti della penisola, dei quali toccammo più sopra. Infatti, già nell' agosto del '61 Pio II, con bolla diretta a ser Giovanni, sanzionava i capitoli di un contratto precedentemente stipulato da quest’ultimo con la Camera apostolica e col comune di Corneto « de et supra alumine », dice il documento pontificio, «aliisque mineriis et metallis diversis, et sculptis et non scul « ptis, quae &c. accipere possis, tam in territorio Cornetano quam aliis territoriis nobis et Romanae Ecclesiae « mediate vel immediate subiectis ». Il Castrense si obbligava a versare alla Camera due ducati per ogni cantaro di allume fabbricato, e il 15 per cento del valore degli altri minerali e metalli, defalcate le spese di estrazione e di confezione; mentre della parte di profitto spettante ai Cornetani (non é detto quale fosse), la metà era devoluta alla costruzione delle mura della città e l’altra metà si doveva spendere in doti maritali a favore di fanciulle di Corneto e di Castro, da designarsi « da ser Giovanni e dai suoi  (28).
I giacimenti erano, evidentemente, conosciuti più tempo innanzi all'agosto del 1461, se in questo mese il da Castro avea già provveduto ad assicurarsi i vantaggi dell' invenzione. E la impresa mineraria doveva essere già iniziata e avviata quando il papa, convinto ormai della straordinaria importanza di essa, rivendicava alla Chiesa l’alto dominio sul territorio tolfetano e arrogava allo Stato pontificio l’esclusivo diritto di sfruttamento delle allumiere. Tale mutazione nei rapporti giuridici concernenti la miniera di Tolfa risulta dal breve papale, dato in Viterbo il I° di giugno 1462, con cui veniva nominato « maestro principale » della miniera il genovese Biagio di Centurione Spinola, il quale — così é detto nel documento — era riconosciuto come il più sicuro ed esperto conoscitore e lavoratore dell’allume in quei tempi, ed era stato chiamato da Venezia, dove stava trattando per una impresa consimile (29), alla corte papale e aveva quivi compiuti, in presenza del pon-tefice, gli esperimenti per dimostrare la eccellenza del prodotto di Tolfa (30).
Altra prova del grande sviluppo raggiunto dalla nascente industria é la concessione, che lo stesso Pio II inviava il 25 ottobre di codesto anno, dai bagni Petriolo presso Siena, alla « università degli operai addetti alla fabbricazione dell’allume nella località chiamata Tolfavecchia », perché potessero valersi di un sacerdote e di un altare portatile appositi per l’esercizio del culto ne’ luoghi « alpestri e selvosi » da loro abitati, senza essere costretti a recarsi nei vicini paesi, infestati dalla pestilenza (31). Il popolo di lavoratori delle miniere si era dunque già creati centri propri di abitazione ; i quali doveano più tardi riunirsi nel nucleo principale, ond’ebbe origine l’attuale villaggio situato a poche miglia dalla Tolfa, che serba nel nome di Allumiere il ricordo di un momento d’intensa e florida vita industriale nella provincia del Patrimonio (32). Un cronista contemporaneo, Nicola della Tuccia (33) afferma che nel 1463 erano adibite al lavoro degli allumi colà circa ottomila persone : cifra enorme, che dubitiamo non sia da riferire agli anni seguenti, ove si pensi alle difficoltà che i tempi e i luoghi dovevano opporre al rapido adunamento di tanta moltitudine di operai, specialmente di esperti minatori e lavoratori del minerale. Comunque, la escavazione e la fabbricazione dell’allume, il quale richiedeva più mesi di tempo per diventare atto al commercio (34), procedettero fin da principio con tale alacrità, che già nel settembre del ‘62 la Camera apostolica era in grado di stipulare coi mercanti genovesi Eliano Spinola, Lodisio Centurioni e Baldassarre Giustiniani la vendita di 6666 2/3 cantari di allume, per 20 mila ducati (35), e contrattare nel novembre dello stesso anno, con un'altra società commerciale di Genova (Filippo e Federico Centurioni, Brancaleone d'Oria) per altrettanta quantità di merce (36), che veniva consegnata ai compratori prima del settembre 1463 ; mentre nell’aprile di questo anno i Medici assicuravano ai propri traffici ben mila 25 cantari del prodotto delle allumiere pontificie (37). Il della Tuccia valuta a centomila ducati (38) il reddito annuale, che fin dai primi anni veniva al tesoro papale dell’esercizio delle miniere d’allumite; Gaspare da Verona (in grado di essere più esattamente infor-mato, vivendo egli presso la corte di Roma) ci dà, nel 1467, la cifra più modesta di ottantamila (39), alla quale, calcolando in poco meno di due ducati il guadagno netto per un cantaro, corrisponde l’annua produzione di circa quaranta mila cantari, nelle nuove allumiere (40).
Mentre affidava a Biagio Spinola, ufficiale stipendiato della Camera apostolica, l’alta direzione e la sorveglianza dell'impresa industriale, il papa stringeva con Giovanni da Castro, col genovese Bartolomeo da Framura e col pisano Carlo Gaetani un contratto per l’esercizio delle miniere e la costruzione dell'’allume. I due compagni di messer Giovanni erano persone ben note nella Curia papale e nel commercio romano. Di Bartolomeo da Framura sappiamo che era « scrittore apostolico » (41) e che si occupava anche de-gl’interessi pecuniari della Camera (42); il Gaetani era un grosso mercante di Roma, che trattava importanti affari col governo pontificio nel commercio dei grani (43), e forniva di cera l’ « aromataria » dei palazzi apostolici (44). Forse avevano ambedue diviso col da Castro anche il merito della scoperta dell' allume, che in un documento ufficiale relativo alle miniere di Tolfa, del 1462, Si afferma essere stato trovato non dal solo Castrense, bensì « per ingenium «quorundam »: nelle memorie dei contemporanei troviamo, infatti, ricordati quali scopritori del prezioso minerale, insieme a Giovanni, « uno Genovese » e un « Carolo pisano » (45).
Il testo del contratto non ci é noto. Solo sappiamo, che esso entrò in vigore col novembre del 1462 (46); che i tre « costruttori » esercitavano le miniere per conto della Camera papale, la quale corrispondeva ad essi tre quarti di ducato per la produzione di ogni cantaro di allume, e 5 baiocchi (un terzo di ducato) per il trasporto della merce fabbricata dalle allumiere (47) al porto di Civitavecchia, dove era custodita nei magazzini affittati per conto della Camera (48); quivi essa veniva consegnata ai compratori. Bartolomeo e Carlo conducevano separatamente dal Castrense il lavoro delle miniere e delle officine relative (allumiere) (49), e ciascuno percepiva dallo Stato la quota che gli spettava per la quantità di materiale da lui lavorato e trasportato. Il pagamento avveniva in denaro contante o in allume ceduto ai fabbricatori, in ragione del prezzo normale di tre ducati al cantaro.
Frattanto, il meraviglioso successo delle nuove allumiere desta la cupidigia e l’intraprendenza dei Romani, che accorrono ai monti Tolfetani in cerca degli altri preziosi minerali, di cui aveva già intravvisto l’esistenza il Castrense (50). A capo di questi esploratori dell’anticipato Eldorado, sembra si trovasse Gaspare da Verona, bizzarro tipo di grammatico romano, pedagogo per bisogno e naturalista per speranza di arricchire (51). In compagnia di Lodovico signore di Tolfavecchia egli imprende la ricerca dell'argento, esplorazione che venne quindi proseguita per conto della Camera papale, ma senza ottenere, a quanto sembra, vantaggiosi risultati (52) ; e la ricerca dell’oro, i cui giacimenti pare esistessero soltanto nelle fantasie astrologiche del Veronese. Con l’aiuto di valenti orafi di Roma, lo stesso Gaspare tenta l’esplorazione degli altri filoni metallici, di cui abbondano le montagne della Tolfa; mentre l’astronomo padovano Domenico Zaccaria, il divinatore della scoperta dell’allume, rivela l’esistenza di una copiosa solfatara (53).
Ma di tutte codeste dovizie minerarie affievolì ben presto la fama, insieme con la speranza di uno sfruttamento proficuo al pari che delle miniere di allume; le quali ebbero invece fortuna sempre crescente negli anni che seguono al pontificato di Enea Silvio Piccolomini.

III.

Pio II non visse tanto, da vedere compiutamente svi-luppata e ordinata la grande impresa economica. Alla vigilia di salpare da Ancona, come aveva sperato, con la flotta cristiana, per quella spedizione contro l’Oriente mus-sulmano, a cui dovean dare il principal sostegno le ricchezze cavate dai monti tolfetani, l’illustre pontefice cedeva al peso degli affanni fisici e morali, il 13 agosto del 1464. Al suo energico successore Paolo II (il veneziano Pietro Barbo, che in gioventù aveva partecipato alla possente vita commerciale della sua patria) spettò il compito, e il merito di dare alla nuova intrapresa industriale e mercantile ordinamenti più perfetti e più vasto incremento.
Accogliendo gl’intendimenti del predecessore, il nuovo papa stabiliva che il prodotto delle allumiere dovesse essere interamente devoluto alla causa della lotta contro i nemici della Cristianità. Abbandonata l’idea di una spedizione promossa e diretta dalla S. Sede, Paolo II intendeva di continuare la difesa del mondo cattolico con aiuti pecuniari ai principi e agli Stati combattenti contro i Turchi, nonché contro gli eretici Ussiti di Boemia: mentre sovveniva largamente le vittime, illustri ed oscure, della barbarie ottomana, che cercavano rifugio in Roma all’ombra della protezione papale (54). L'amministrazione dei beni della « Crociata », tenuta prima dalla Camera apostolica, veniva
da lui affidata, fin dai primi giorni del suo pontificato, ad una Commissione di tre cardinali: questi furono il Bessarione, fervente apostolo della lotta contro la Mezzaluna invadente, il dovizioso e splendido Guglielmo d’Estouteville, che nel nuovo ufficio portò, insieme al consiglio, il soccorso delle sue vaste ricchezze, e l’integro e austero Giovanni Carvagial. Ai tre commissari generali della Crociata incombeva il compito non lieve di regolare le molteplici questioni inerenti all’impresa bellica rimasta troncata con la morte di Pio II, e di curare il regolare e proficuo funzionamento delle miniere e del commercio dell’allume di Tolfa, che d’ora in poi costituì il principale, per non dir l’unico provento della « Crociata ». Dell’opera dei cardinali commissari in quest’ultimo riguardo discorreremo più innanzi; vediamo intanto in qual modo Paolo II provvedesse a render sicuro il dominio territoriale sulla regione delle vene alluminose, e a proteggere in Italia e fuori d’Italia il commercio del loro prodotto.
È noto, come il papa Barbo rivolgesse le cure della sua temporale dominazione a render questa effettiva e piena nelle terre fino a quel tempo mediatamente dipendenti dalla Chiesa; il fatto, che le prime mire ed imprese di conquista di Paolo II sieno state dirette alla provincia del Patrimonio, può trovare giustificazione nei tesori scoperti nelle viscere de’ suoi monti. I più audaci e riottosi, e forse i più potenti signorotti di quella regione erano allora i conti del-l’Anguillara, i quali avevano violentemente occupata, come si é detto, la Tolfanuova, proprio nel tempo che si rivelavano i tesori minerari del territorio vicino. Al papa Barbo, era bensì riuscito, già nel primo anno del suo pontificato, di cacciare gli Anguillara da quel castello, ch’egli avocava all’immediato dominio della Chiesa; la Camera papale non poteva contare sul libero e sicuro sfruttamento delle allumiere, finché rimanessero in signoria i rapaci conti, i quali avranno
senza dubbio mirato cupidamente alle vicine ricchezze naturali. Sbarazzata nel 1465 la Tuscia Romana dalla loro pericolosa potenza, Paolo II era in grado di procedere con maggior speranza di successo all’assoggettamento della Tolfa all’immediata sovranità pontificia. A Tolfavecchia, nel cui territorio erano comprese le miniere, dominavano, come abbiam visto, i fratelli Lodovico e Pietro, il cui casato viene solamente e costantemente indicato ne’ documenti con la qualità di « domini de Tulfaveteri », e che troviamo ricordati fra i capitani militanti agli stipendi della S. Sede sotto Pio II (55). Ai diritti feudali di costoro si aggiungevano quelli di Corneto, che nei secoli precedenti aveva esercitato l’alto dominio sulle terre tolfetane: ma della autorità del decadente comune Cornetano su di esse già aveva dimostrato di non tener conto alcuno il papa Piccolomini (56). Coi due fratelli signorotti convenne invece trattare con maggiori riguardi, e sostenere lotta non breve.
Fin dal primo anno che furon poste in valore le allumiere, Pio II aveva affermato e applicato il principio giuridico universalmente adottato nella legislazione medioevale che lo Stato, non il possessore del fondo, è proprietario delle ricchezze minerarie (57), pretendendo dall’intraprenditore una elevata contribuzione sopra i redditi delle miniere della Tolfa ; l’anno seguente, 1463, la Camera papale avocava addirittura alla propria amministrazione l’esercizio delle allumiere, mentre convertiva in monopolio il commercio degli allumi, come abbiam già visto. Con ciò, non venivano turbati nel loro possesso, finchè visse papa Pio, i signori di Tolfavecchia: ad essi aveva anzi concesso il pontefice una parte dei profitti dell’impresa (58), e li aveva inoltre chiamati a custodire, in nome .della Camera, il prezioso tesoro minerario, compensandoli con lauto stipendio (59) e con generosi donativi (60). Ugual trattamento goderono i due feudatari da parte di Paolo II negli inizi del suo papato (61), finché non ebbe compiuto l'esterminio della potenza degli Anguillara. Ma dopo l’esito rapido e fortunato di codesta spedizione, egli procedette senz’altro ad assoggettare anche la Tolfavecchia. Questa volta, però, la peggio toccò al papa; poiché a fianco dei due signorotti stava un alleato formidabile: il duca di Ascoli Orso Orsini, creatura di Ferdinando d'Aragona (62).
L’Orsini era strettamente congiunto di parentela a Lodovico della Tolfa, cui aveva dato in moglie una figliuola (63); al suo interesse per la causa del genero non doveva essere estraneo il re di Napoli, suo signore, geloso dei progressi e delle ambizioni conquistatrici di Paolo II, nonché della concorrenza che l’allume papale faceva a quello delle miniere regie. Il duca di Ascoli riusciva, infatti, a condurre verso il campo della guerra intorno a Tolfa le truppe napoletane reduci dalla Toscana, dove erano state al soccorso dei Medici contro Bartolomeo Colleone e la lega formatasi ai danni di Firenze (1467-68); ma le milizie pontificie presero la fuga appena ebber sentore che l’esercito di re Ferdinando, ancor lontano da Tolfa, si dirigeva a quella volta (64).
In seguito a questi fatti, il papa mutò consiglio e scese a trattative coi due fratelli, i quali finirono per cedergli la rocca e il dominio di Tolfavecchia verso il pagamento di 17,300 ducati d’oro, che furono sborsati dalla potente banca romana dei Medici, per conto della Camera papale, e da questa assegnati alle spese gravanti sul monopolio degli allumi (65). Quanto ai signorotti spodestati, essi abbandona¬rono senza indugio quei luoghi (66), per stabilirsi nel vicino Reame, dove acquistarono vaste terre e il titolo comitale (67). A custodia della rocca di Tolfavecchia, che venne tosto restaurata e meglio munita (68), era posto un castellano ufficiale della Chiesa (69).
Per rendere più sicuro il possesso della regione, da cui dipendevano sì ingenti interessi economici, il papa Barbo volle ridotti alla diretta sovranità della Chiesa anche i due castelli, donde si poteva facilmente assalire le miniere della Tolfa e impedirne gli accessi dalla spiaggia marittima e dagli opposti paesi del Sutrino e del Viterbese. L’uno, Monterano, dominava la via fra le Allumiere e Bracciano, e apparteneva insieme col paesello omonimo e con l'altro, vicino, di Rota a un bastardo dei conti dell'Anguillara e ai signori di Tolfavecchia, i cui domini sembra si estendessero fin laggiù, presso i monti Sabatini: Paolo II ebbe codeste terre per prezzo, non sappiamo se innanzi, o contemporaneamente all’acquisto della Tolfavecchia (70). L' altro era il castello di Tolfanova, che il Barbo, salito appena al trono papale, si affrettava a togliere agli Anguillara, senza restituirlo ai legittimi possessori di quel feudo. La rocca di Tolfanova, che il governo della Chiesa tenne munita per pochi anni soltanto dopo la conquista (71), fu fatta demolire dal nuovo papa Sisto IV, il quale fin dagli inizi del suo pontificato aveva rimesso gli Orsini nel possesso delle terre circostanti (72); mentre quella di Monterano venne poi dallo stesso papa venduta ad un Romano fedel servitore della Sede apostolica (73).

IV.

Assicurato il possesso delle miniere, e la tranquilla opera delle migliaia di lavoratori addetti alle allumiere, conveniva organizzare il commercio del loro prodotto. Il sistema del monopolio dell’allume papale era già stato iniziato, come si é visto, da Pio II il quale seguiva l'uso, generale nel medioevo, del commercio fiscale delle ricchezze minerarie, talvolta esteso anche ad altri prodotti naturali e industriali. Nello stesso Stato ecclesiastico si esercitava, oltre al monopolio diretto o indiretto delle miniere, quello del sale, praticato altresì a Venezia, a Genova, nelle repubbliche di Toscana e nel reame di Sicilia (74); anche alla produzione dei cereali il governo pontificio applicava il monopolio, almeno per quanto riguarda la esportazione del grano (75). I papi non compievano, quindi, alcuna offesa al diritto e alle consuetudini del tempo, avocando allo Stato il com
mercio dell'allume. Insolita veramente era, invece, la pretesa di estendere il commercio fiscale di codesta merce a tutti i paesi del mondo cristiano: compito vasto e difficilissimo, alla cui attuazione si poteva pensare soltanto fa-cendo assegnamento sull’autorità spirituale del Papato e sulla giustificazione, che una simile imposizione poteva trovare nello scopo della difesa della Cristianità dalla barbarie musulmana, alla quale erano devoluti i proventi delle nuove miniere. Ma in una età così tiepida nella fede, che aveva inflitto all’entusiasmo del papa Piccolomini per la guerra santa gravissime disillusioni, non era facile che l’interesse per la causa della religione facesse tacere quello economico; onde la santa Sede fu trascinata, da’ suoi ostinati sforzi per ottenere l ’esclusivo diritto di trafficare l’allume papale, in una lunga e pericolosa sequela di contestazioni e di conflitti con gli Stati italiani e stranieri.
Paolo II fu, se non l’ideatore, l’esecutore di codesto ardito progetto, a cui il suo predecessore, che n’ebbe il pensiero (76), non fu in tempo di dare effetto. Per realizzarlo, occorreva impedire il commercio dell’allume fra i Cristiani ed i Turchi, e ottenere che lo sfruttamento delle miniere nei paesi occidentali venisse abbandonato, o sottoposto alla Camera apostolica.
Il primo compito rientrava nelle pratiche usate dal Papato nella sua lotta contro la Mezzaluna fin dal principio dell’epoca delle Crociate. Senza opporsi al commercio con gl’infedeli in generale, la Chiesa proibiva costantemente quello dei prodotti che davano ad essi i mezzi per combattere i Cristiani, ossia dei materiali che servono alla fabbricazione delle navi e delle armi. Innocenzo III tentò raggiungere l'ideale della completa cessazione di ogni traffico coi Turchi; ma doveva egli stesso convincersi che il suo proposito non avrebbe mai vinto l'opposizione degli interessi commerciali delle repubbliche marittime italiane. Né la proibizione limitata ai materiali da guerra pare sortisse l'effetto desiderato: l'importazione nei paesi ottomani si presentava troppo proficua ai mercatanti italiani, che caricavano al ritorno le loro navi coi ricchi prodotti acquistati in quei luoghi (77). Nel secolo xv le contravvenzioni ai decreti papali si erano fatte così gravi e frequenti, che Nicolò V dové minacciare la scomunica perfino ai pellegrini che fornissero armi e viveri agl’infedeli, e ordinare ai vescovi di esigere dai padroni e dai conduttori delle navi il giuramento di non trasgredire alle sue ingiunzioni (78). Paolo II, al quale non dev’essere stato estraneo il proposito d’impedire ogni sorta di traffico tra l'Occidente e i Maomettani (79), faceva regolarmente pubblicare ogni anno l'anatema contro chi avesse esercitato il commercio dell’allume con gl’infedeli; ma si può ritenere che l’avidità di guadagno sfidasse frequentemente le censure ecclesiastiche sotto di lui, e specialmente sotto il successore Sisto IV, il quale si trovò a dover provvedere contro le violazioni del monopolio papale perfino nelle terre temporalmente soggette alla Chiesa.
Non meno difficile era 1’impresa di ottenere che gli Stati cristiani rinunciassero a trar vantaggio dai giacimenti del prezioso minerale, trovati nel loro territorio. Noi dobbiamo ora esaminare le varie e complicate trattative e contenzioni originate da codesta pretesa della Camera papale, specialmente in rapporto alle altre miniere italiane, nel reame di Napoli e in Toscana.
Nel Reame si erano riattivate, come dicemmo, poco dopo la metà del secolo xv le miniere delle isole d'Ischia e di Lipari, e quella di Agnano presso Pozzuoli. Mentre quest'ultima veniva appaltata da Ferdinando I, nel 1465, al suo bombardiere Guglielmo Lo Monaco (80), la miniera d'Ischia si esercitava, a quanto sembra, per conto della Camera regia (81), a cui era riservato altresì il diritto di acquistare e trafficare tutto il prodotto delle allumiere di Agnano; in essa la Camera apostolica aveva quindi un vicino, formidabile concorrente per il commercio dell' allume. Si sa che i rapporti tra Paolo II e Ferdinando I, amichevoli nel primo anno del pontificato, non tardarono a guastarsi a causa, sopratutto, della resistenza che l'Aragonese dimostrava nel soddisfare agl'impegni contratti dal padre suo e agli obblighi pecuniari incombenti al re feudatario della S. Sede. Il soccorso portato, nel 1468, dalle milizie napoletane ai signori di Tolfavecchia assediati dall'esercito papale é un episodio della lunga e grave lotta, e addita, a parer nostro, una cagione non ultima del conflitto: la gelosia per la fiorente impresa economica degli allumi tolfetani. Non ci sono note le fasi delle contenzioni, che dovettero durare lungamente, per codesto commercio nei due Stati limitrofi; sappiamo invece, come tra il papa veneziano e il re aragonese si venisse finalmente ad un accordo.
L'11 giugno 1470 veniva conchiuso, fra i commissari generali della Crociata e il plenipotenziario di Ferdinando, Aniello Perotto (82), un contratto della durata di 25 anni (83), per il quale le allumiere pontificie e quelle del re di Napoli debbono costituire « un corpo, ovvero maona », e il prodotto di esse si venderà esclusivamente per uso della Compagnia. Tutto l'allume « se consumerà overo se navicharà « per diverse parte del mundo, per consumptione et uso de « quello », dovrà essere fornito per metà dalle miniere regie (84), e il ricavato della vendita spetti ai due contraenti, in parti eguali, eccezion fatta per l'allume papale giacente negli Stati del duca di Borgogna e a Venezia (dove non esisteva merce importata dalle allumiere napoletane), nella vendita del quale toccherà tuttavia al re la sesta parte del profitto, fino a quando non sieno esauriti i depositi suddetti (85). Le spese per la fabbricazione, il trasporto &c., degli allumi, nonché i danni derivanti dalla cattiva qualità o dal deperimento della merce siano a carico delle due parti, in egual proporzione. Le vendite nei diversi luoghi « dove « sarà navichato », avvengano alla presenza dei delegati della Camera papale e del re; e si venda « a dinari contanti et « non abbarato (a baratto), né se possi vendere a più longo « tempo de uno anno vel circa ». Ogni anno dovrà essere pubblicato il divieto del commercio degli allumi coi Turchi; la merce proveniente dai paesi degl'infedeli verrà confiscata insieme ai navigli e sarà preda dei catturatori, i quali avranno diritto che gli allumi catturati vengano acquistati dalla « Compagnia » per la metà del prezzo corrente « ne «li lochi dove si condurranno », altrimenti, non sarà loro consentito di venderli liberamente che dopo il termine di venticinque anni dalla convenzione. A garanzia dell'osservanza del contratto, un rappresentante del re risiederà costantemente a Civitavecchia, ed uno della Camera apostolica « a le alumere del re ».
Un contratto tanto oneroso per la S. Sede, col quale veniva distrutta l'indipendenza della Camera apostolica nell'esercizio del monopolio degli allumi, mentre alla Camera regia si creava una parte privilegiata nei vantaggi di un' im
presa economica a cui le miniere napoletane contribuivano certamente in più scarsa misura di quelle di Tolfa (86), può essere giustificato solamente dalle preoccupazioni del papa per la imminenza di una guerra con Ferdinando, che si andava preparando da lungo tempo, mentre i progressi dei Turchi nell'Oriente d'Europa consigliavano l'unione degli Stati italiani contro il comune pericolo (87). Che i patti stipulati tra Paolo II e il re napoletano abbiano avuto effetto, almen ne' primi due anni, risulta dal fatto che un rappresentante del papa risiedeva, giusta i termini del contratto, presso la miniera d'Ischia (88); ma di costui non troviamo menzione, dopo il 1472, ne' registri della Depositeria della Crociata, né vi appare alcun altro indizio di intromissione della Camera regia nell'amministrazione delle miniere papali e nel commercio dell'allume di Tolfa (89). Giova quindi ritenere che, succeduto nel settembre del 1471 al papa Barbo il ligure Sisto IV, e ristabiliti i rapporti amichevoli tra Roma e Napoli, il nuovo pontefice abbia ben presto ottenuta la rescissione dei patti del '70 (90) e regolati i rapporti fra i due Stati circa le allumiere in modo più conveniente agli interessi di ambedue; ma sulle vicende del monopolio papale degli allumi nel Reame avremo occasione di ritornare nel seguito di questa trattazione. Qui ricorderemo, come esempio delle ripercussioni che i rapporti politici fra le due potenze avevano su quelli economici, un episodio svoltosi alla fine del medioevo. Alfonso di Aragona, quand'era minacciato dall'invasione di Carlo VIII, e assai più che nel papa Alessandro VI fidava nell'alleanza fiorentina e nei soccorsi pecuniari di Piero de' Medici, cedette a quest'ultimo il libero possesso ed esercizio dell'allumiera di Agnano, concessione revocata poco dopo dal disgraziato successore di Alfonso, Ferdinando II, quando l'esercito francese, a cui il Medici e Firenze avevano aperta la strada, già toccava il confine del regno (91).
A far tacere l'industria delle allumiere di Volterra, sulle quali esercitò dapprincipio il diritto di possesso quel Comune, non pare che i papi si siano provati; quando però le esplorazioni dei cercatori di vene alluminose penetrarono nei terreni appartenenti al vescovo di quella città, non mancò Paolo II di richiamare quest'ultimo alla rigorosa tutela dei diritti della sua mensa (92). Vedremo più innanzi quali fossero i mezzi con cui la Camera papale provvide a difendere il prodotto delle miniere di Tolfa dalla concorrenza dell'allume volterrano, allorquando di quest'ultimo s'impadronirono Firenze e i Medici.Favorevoli circostanze parvero presentarsi, invece, per impedire simile produzione nel piccolo Stato degli Appiano a Piombino (93). La scoperta di giacimenti alluminosi era quivi avvenuta, poco dopo la metà del secolo, nel territorio di Montione, in certi fondi che occupavano da lungo tempo quei signori, malgrado i diritti che sopra di essi poteva vantare la mensa vescovile di Massa, alla cui diocesi apparteneva lo Stato di Piombino. Paolo II non era riuscito a far restituire i terreni, che custodivano i depositi alluminosi, al vescovo da Iacopo III di Appiano: questi aveva sfidato fin l'interdetto lanciato contro il suo dominio. Miglior successo non toccò a Sisto IV. Egli aveva acquistato dalla mensa Massana la proprietà delle miniere (94), che avrebbero dovuto dipendere dalla Camera apostolica; ma le reiterate minacce e la scomunica del pontefice contro i figli di Iacopo III (Iacopo IV, Gerardo e Belisario), succeduti nella signoria l'anno 1474 e finalmente il suo appello al braccio secolare (95), non li poterono convincere di lasciarsi sottrarre dalla S. Sede la ricchezza del loro suolo. La questione si trascinò quindi sotto il successore di Sisto, Innocenzo VIII, che finì, egli pure, per ricorrere ai fulmini della scomunica maggiore, dopo avere deferita a un collegio di giureconsulti la decisione intorno alle varie questioni giuridiche circa i diritti degli Appiano e della mensa Massana sulle terre contestate; anche questa volta, probabilmente, con esito negativo.

Torna su