Archeologia

Walter Bianchi "Velsina"
 
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ETTORE PIERRETTORI

A la Tòrfa ... da lontano

Poesie in dialetto tolfetano

a cura di
Giuseppe Morra
Eugenio Bottacci

Prefazione di Tullio De Mauro
Presentazione di Giovanni Barone

NUOVA IMPRONTA Edizioni
Roma, 1994

PREFAZIONE

Nel 1982 una prima raccolta di poesie dialettali di Ettore Pierrettori apparve presso la casa Gruppo Editoriale Forma di Torino, nella collana «Biblioteca degli scrittori in dialetto e lingue altre» che dirigevo con Maurizio Pallante. La raccolta fu curata da Eugenio Bottacci, Giuseppe Morra e Angelo Pierantozzi e portava il titolo «La Tòrfa dal Barsòlo. Poesie in dialetto tolfetano». E' probabile che, nella decisione di portare in pubblico e a stampa la sua attività poetica, per Pierrettori (e per i suoi amici curatori) abbia pesato quella singolare esperienza dell'ottobre del 1980, che vide incontrarsi a Tolfa alcuni dei nostri maggiori poeti in lingua e i rappresentanti della poesia orale e cantata, popolare e locale, di prevalente derivazione contadina. Anni dopo ne nacque un raro e prezioso libretto: «Tolfa zona di poesia. Per una pratica e una magia della parola», a cura di M. Chiararia, A. Cioni, M. Marchionne, M. Nuccetelli, con una mia prefazione (Valore d'Uso Edizioni, Roma 1982). A dodici anni di distanza, ecco una nuova testimonianza dell'attività poetica di Pierrettori. Che, nato nel 1927, dopo varie attività diventato insegnante, a partire dai tardi anni Settanta si è fatto poeta, per amore della sua gente e della sua terra, per amore della sua parlata minacciata da un forzato e superficiale abbandono. Con questo amore, non sopito, non sopibile, Pierrettori torna a noi, a ripopolare il nostro orizzonte delle identità presenti nella sua memoria e nelle sue ricostruzioni poetiche. Le note ai testi e i commenti ci restituiscono con puntualità filologica quel che c'è da sapere per gustare appieno il recupero di identità locali che Pierrettori ci dona. Ci dona, a me pare, ben oltre l'orizzonte della Tolfa, anche se chiaramente il suo obiettivo, i lettori e le lettrici che i suoi testi vogliono selezionare, sono quelli della sua gente e della sua terra. Ci dicono le statistiche che sessanta e più italiani ogni cento ancora sono legati all'uso del loro dialetto nativo, anche se quasi tutti usano l'italiano assai bene. Quasi metà della popolazione è fatta da persone che, a seconda delle occasioni, alternano italiano e uno dei nostri dialetti, ancora tenaci e vivi. L'italiano è restato troppo a lungo e per troppe persone lingua di scuola, di uffici, perché non ci si avvantaggi tutti dal persistere di queste assai più dirette modalità espressive che sono le parlate dialettali: dove «burocratese», «difficilese», «politichese» non trovano spazio o, se lo trovano, lo pagano con la ironia tagliente e la beffa. Che grazie a tali modalità espressive dei nostri dialetti vi sia chi, come Pierrettori, esplora le vie della poesia è una testimonianza preziosa di una forza non spenta che arricchisce la vita di noi tutti. A Pierrettori dunque un grazie, da Tolfa, «zona di poesia», e da più vasti dintorni!

Maggio 1994

Tullio De Mauro

PRESENTAZIONE

Organizzare una presentazione ragionata di questa raccolta di sonetti tolfetani dell'amico Ettore Pierrettori è compito che mi accingo a svolgere animato da un senso di partecipazione ideale e, in qualche misura, di coinvolgimento con l'impresa condotta finalmente in porto dall'autore.
In effetti, fin dalle prime stesure di alcune delle presenti composizioni, ne sono stato incondizionato estimatore e non ho mancato di incoraggiare l'autore nei suoi momenti di dubbio e di perplessità.
Credo che il genere, che si riallaccia alla tradizione dei nostri grandi poeti dialettali e (scusate se è poco) ripropone la vivacità e la genuinità di alcuni quadretti popolareschi di un Trilussa, meriti una sua sopravvivenza e una legittimazione letteraria per lo meno per tre ordini di motivi: primo, per il valore linguistico di un recupero dialettale che dovrebbe avere una sua continuità e dignità a livello culturale, sociale, economico e di comunicazione; secondo, per la grande importanza che questi sonetti finiscono per assumere dal punto di vista del recupero e della memoria di passate culture e tradizioni popolari; terzo, per la scoppiettante ed arguta vena poetica del Pierrettori che — dagli archivi della sua memoria o da spunti occasionali ed estemporanei — ci offre un campionario di umanità e situazioni, colti secondo vari registri, tra i due poli del suo paesaggio interiore: Tolfa e Grosseto. Che l'autore sia poeta vero possiamo riscontrarlo dalla maggior parte dei sonetti che compongono questa raccolta; ci si soffermi, ad esempio, su «'L testamento del metitore», «Pane e sapore de la renga», «La cena de le poveracce», «'L fiocco rosa», «La croce più piccola», «Nu lo so più manch'io» (per non citarne che alcuni), e non si potrà non cogliere la essenzialità e la scioltezza delle rime, l'immagine o la situazione che prende campo a tutto tondo, il messaggio che varia dalla riflessione amara, al rimpianto, al rifugio nella memoria.
I sonetti nascono sempre da un'ispirazione autentica, da una riflessione a lungo sedimentata, o da occasioni conviviali ed esperienze di amicizie e di lavoro; si veda in quest'ultimo caso la raccolta dedicata alla memoria dei dodici anni trascorsi nella scuola media « Ungaretti» di Grosseto: vi sono contenuti sonetti che offrono uno spettacolo di un ambiente di lavoro — vero e proprio microcosmo di consetudini, affetti e piccole nevrosi quotidiane — colto dal Pierrettori con fine arguzia e con affettuoso senso dell'ironia, ma anche con toni di profonda amarezza e di dolore, come quando ricorda la collega Maria Pia Ferretti, colpita da un male incurabile ed in seguito deceduta, oppure quando riflette con disappunto sul momento in cui dovrà lasciare quel mondo di solidarietà e di affetti che per lui sono sempre stati gli amici e la scuola.
Una poesia, quindi, che varia toni e registri spaziando dall'umoristico all'arguto, al pessimistico, al nostalgico, alla cupa incertezza data dal dubbio e dal senso del niente. In quest'ultimo senso — è opinione strettamente di chi scrive —un «horror vacui» dovuto alla percezione del tempo che passa unito al corpo che comincia a rispondere sempre meno e al rimpianto del figlio mai avuto, fa da palinsesto al pessimismo e alla drammaticità di alcuni sonetti che ritengo i migliori.
In sede di conclusione terrei a ribadire la grande importanza che assumono operazioni culturali come questa compiuta dal Pierrettori; la presente raccolta di sonetti, infatti, al di là dell'intrinseco valore poetico e della effettiva rappresentazione di costume e di umanità che ne risulta, assume e si carica di un «plusvalore» costituito dalla testimonianza diretta di un mondo e di una cultura subalterni (la civiltà contadina della Tolfa con il caleidoscopio di luoghi della memoria, personaggi, ricorrenze, riti) essenziale per chi coltivi interessi legati alle tradizioni popolari e al recupero del patrimonio culturale delle passate generazioni.
In questo senso anche l'uso del dialetto finisce per acquisire l'importanza del documento filologicamente essenziale di un patrimonio che — per mutazione di modelli culturali — tende malgrado tutto a perdere terreno.

Giovanni Barone

Rosario (Argentina), gennaio 1994

INTRODUZIONE

Il 12 giugno 1982, quando nella sala del Monte, a Tolfa, presentammo «La Tòrfa dal barsòlo», eravamo, da una parte, soddisfatti per il fatto che vedeva finalmente la luce un'opera unica e particolarmente significativa nel contesto culturale del nostro paese, ma, dall'altra, un po' spiacevolmente convinti che l'enorme fatica di Ettore sarebbe rimasta prima ed ultima. Rafforzava la nostra convinzione il suo trasferimento lavorativo ed abitativo a Grosseto, avvenuto nel settembre del 1981, che sembrava poter costituire il presupposto più che valido di una frattura insanabile tra il poeta ed il mondo, le situazioni, i riti ed i personaggi che avevano costituito la principale fonte di ispirazione della sua poesia. Lo immaginavamo già impegnato a studiare la nuova realtà di vita, ad individuare i settori in cui estrinsecare la sua irrefrenabile vitalità, a conoscere nuovi amici, a promuovere iniziative in cui esprimere il suo profondo bisogno di socialità; ritenevamo, insomma, che, «in tutt'altre faccende affaccendato», avrebbe allentato inevitabilmente il legame con la sua terra e, conseguentemente, abbandonato il mezzo espressivo che gli era servito per cantarla e rappresentarla liricamente.
Invece, fortunatamente, questo non è avvenuto. Ettore si è perfettamente inserito nella nuova comunità, ha partecipato alle sue attività, ha stabilito nuove amicizie, ma ha mantenuto ben saldo il suo rapporto con Tolfa e con i tolfetani, interiorizzandolo e vivendolo in maniera più intima e sicuramente più sofferta. Il paese natale è diventato per lui la meta di un ideale e ricorrente viaggio, indispensabile per portare avanti, ma non necessariamente per concludere, l'affresco poetico iniziato con la precedente raccolta di versi.
L'ampio consenso ottenuto negli ambienti più diversi da «La Tòrfa dal barsòlo» ha contribuito a determinare attorno a questa seconda (e speriamo non ultima!) fatica poetica di Ettore Pierrettori un clima di attesa che può pregiudicarne una attenta lettura ed una serena valutazione. La prima pubblicazione, infatti, ha immediatamente collocato l'autore, illetterato dichiarato, al di sopra di un ambito strettamente localistico, sia per lo spessore della ispirazione poetica, sia per la scelta organica e consapevole del mezzo linguistico, il dialetto tolfetano. Tale successo ha forse inconsciamente condizionato l'autore a dare alla presente raccolta un'organizzazione interna che sembra ricalcare la struttura della precedente, dando l'impressione di una sostanziale identità di valore poetico e di una lineare continuità di temi e di forme espressive.
Questa sensazione è avvalorata non solo dallo spazio e dalla posizione privilegiata della poesia di memoria (consapevolmente sostenuta nei suoi valori anche dall'ampia e minuziosa ricostruzione di alcuni aspetti del folklore locale nelle Appendici), ma anche dal ruolo di alleggerimento e di variazione del tono poetico intenzionalmente assegnato ad alcune sezioni. Ad esempio la illustrazione dei proverbi di «Frate Indovino» viene a sostituire nel ruolo la trascrizione in rima dei detti celebri di «Peppe de Fongo», così come le barzellette sui Carabinieri (Fattarèlle... cossì cossi) prendono il posto di quelle di «'N fregantò dentr'a 'n gran callaro». Altri esempi si potrebbero fare, ma non è il caso di entrare in particolari minuti.
L'unica parte che sembrerebbe affrontare tematiche nuove è quella che ci offre la cronistoria dell'«esilio grossetano» dell'A., ma il tema della nostalgia per la terra natale, per lo «scòjo ch'attira come fusse calamita» era già presente nella prima pubblicazione. «Niente di nuovo sotto il sole», dunque? Parrebbe proprio che il poeta abbia mirato ad un risultato certo e che, adeguando l'adagio calcistico, «squadra vincente non si cambia», alla composizione poetica, abbia intenzionalmente replicato l'opera precedente. Se — paradossalmente — così fosse, questo secondo lavoro sarebbe privo di quella spontaneità creativa da cui non è possibile prescindere, se si vogliono conseguire autentici valori poetici; allora l'opera meriterebbe un interesse assai modesto. Se però non ci si fa fuorviare dalle apparenti corrispondenze ed affinità e si va al di là di una lettura epidermica, ci si rende conto che questa organizzazione del materiale poetico è una sorta di schermo protettivo sotto cui si cela una poesia forse meno corale e solare, ma più intima, tormentata, personale. C'è del resto un sonetto (Tristezza e noia...) che sembra confermare una duplicità del carattere dell'A. e la sua tendenza a mascherare con l'ilarità e l'arguzia i sentimenti e gli stati d'animo; in esso l'A. si descrive come «spasso de fòra e trìbbelo de casa» e dice esplicitamente «recito la commedia quann'è 'n dramma» e «dentro me brucio e n' fò vede' la fiamma».
Al di là di questa sorta di maschera, sotto cui il poeta si cela, più o meno consapevolmente, sono oggettivamente cambiate troppe cose nella sua vita perché la sua poetica resti immobile ed immutata nel tempo.
E' cambiato il rapporto del poeta con la poesia, sia dall'ottica della forma e della tecnica poetica, sia nella matrice stessa dell'ispirazione. L'A. non è più l'illetterato che fatica a comporre il verso e pasticcia con le rime, ma ha acquisito una piena padronanza e dei processi della versificazione e dei moduli linguistici ed espressivi.
La scoperta della poesia non si è rivelata un evento episodico, quale avrebbe potuto essere, se l'A. fosse rimasto pago dei risultati lusinghieri della prima raccolta, ma è divenuta una dimensione del vivere e la via di accesso ad una esplorazione sempre più ampia, profonda ed analitica della propria interiorità.
A questo risultato hanno indubbiamente contribuito accadimenti del tutto incontrollabili dalla volontà del poeta, che l'hanno costretto a provare l'emigrazione in Maremma in una fase della vita assai delicata sul piano psicologico: all'uomo si rivela la fragilità estrema di un fisico non più integro («Pensavo d'esse schietto più de 'n cerro» in «E' tempo de vortà pagina»); il dolore proprio e altrui da evento raro diventa esperienza quasi quotidiana; vengono meno gli affetti delle persone più care e la morte aleggia attorno a noi in cerchi sempre più stretti come un predatore implacabile; il futuro appare incerto, vuoto, ed il presente si manifesta lucidamente in tutta la sua drammatica contraddizione.
Qualche palato fine potrebbe osservare che tali tematiche mal si adattano ad una trattazione poetica nella forma, storicamente definita, del sonetto dialettale: essa, nella sua limitatezza canonica, implicando quasi necessariamente una frammentarietà contenutistica, una varietà di registri espressivi, un realismo più o meno colorito dalla vitalità del parlato, opporrebbe alla loro resa un limite oggettivo.
C'è in tali possibili osservazioni un fondo di verità, se ci si perde nel caleidoscopio delle situazioni e delle figure descritte dal poeta senza cogliere il filo che le lega al centro della sua ispirazione: il sentimento del dolore e la percezione angosciosa della miseria della condizione umana.
E' questo tipo di sensibilità poetica che consente all'Autore di superare la dimensione puramente descrittiva del quadretto popolaresco e di calarsi con la sua partecipazione emotiva nella condizione dei personaggi. Il suo ricostruire il passato è, a ben vedere, un riviverlo, cercando di coglierne l'attualità del significato e la perennità dei valori. Il tradizionale realismo descrittivo del sonetto dialettale è decisamente superato, e l'Autore piega questo schema metrico per rivestire di immagini e colori i più vari moti del suo mondo interiore. E' in realtà la ricchezza delle esperienze di vita, la sua conoscenza diretta e minuziosa di questo piccolo, ma particolare universo, che è la «Tòrfa», la pratica dei più svariati mestieri, la partecipazione personale ai riti, alle ricorrenze, al riprodursi delle tradizioni, la familiarità con i luoghi e le situazioni descritte che consentono all'A. di dare un'anima ai personaggi, prestando ad essi la propria sensibilità per far emergere con chiarezza i valori, le preoccupazioni, le speranze e le illusioni di tutto un popolo. La genesi di questa poesia, anche quando appare volutamente occasionale, giocosa, fatua, non sta mai nel realismo bozzettistico di tanta poesia dialettale, ma nel suo rovesciamento soggettivistico, per cui ogni figura è proiezione esterna di un moto dell'animo, di una rivisitazione del passato che è nella memoria, delle domande insoddisfatte dell'oggi, di una macerazione interiore.
Il «monumento alla Tolfetanità» che ne deriva ha poco di realistico, poiché si tratta di sostanziale oggettivazione della varia, complessa e ricca interiorità dell'Autore. Una riprova di quanto detto si può avere non solo nella immedesimazione, a volte evidente e scoperta, nei personaggi, sui quali si riversa la simpatia del poeta, ma, ancor più, nelle ricorrenti formule i proverbiali, sapienziali, morali o, in alternativa, nelle battute ironiche o nei motti di spirito, attraverso cui egli si maschera e commenta al contempo le figure o l'azione e, soprattutto, nel progressivo emergere della sua scoperta e tormentata personalità nella produzione dell'ultimo periodo (Riflessioni - Ricordanze - Parolando con Mauro e Vincenzo).
La percezione drammatica delle mutate condizioni esistenziali, per il complesso dei motivi sopra accennati, determina una frattura negli equilibri precari della complessa poetica, e l'Io dell'A. prorompe sempre più spesso in primo piano con i suoi crucci, le sue angosce, le sue illusioni, le sue speranze.
Ormai tuffarsi nel passato o rifugiarsi nel grembo materno della terra natale non è più sufficiente: «Sento '1 richiamo della terra mia / l'odore antico che me porta '1 vento / me metto 'n groppa a la mi' fantasia / e giù a lo Scòjo volo nne 'n momento. / Ma lì nun trovo più la compagnia / la casa è fredda e c'è '1 cammino stento» (Nu Io so più manch'io). E' subentrata una sorta di solitudine interiore: «Parlo e nessuno pare che me sente / sempre più m'affugo nel dolore» (Tristezza e noia). Il presente non esercita più alcun tipo di fascino: «guardanno 'ntorno vedo solo spine» (La felicità n'è mae davante); «la vita me se spegne e più nun bolle» ...e mo me sento / 'n arbero vecchio che n'cià più le fronne» (Libero è 'l fiòtto...). La vita gli appare dominata dal male: «L'amore nun c'è più che ciaffratèlla / ngià tutto '1 monno s'è de sangue 'ntriso / la morte mète vite e l'ammannèlla» (Ce ve, 'n' antra Croce pe' la pace). La fiducia nella Giustizia ('L carcere speciale) o nella Legge si è ridotta a zero: «La legge è come pelle de cojone / che l'allunghe o l'accorte a piacimento».
La sfiducia non investe solo qualche aspetto degenerato della vita associata (Le tangente), ma l'anima stessa della civiltà occidentale, il progresso tecnologico (E si doppo 'l progresso): tutto ciò che si colloca nella dimensione esistenziale o nella storia collettiva sembra perdere senso e valore: «Tutto, a la fine, affonna nell'obblio... ('L due de novembre). La visione negativa dell'uomo e della società nel suo insensato sviluppo diviene un approdo sconsolato, privo di sbocchi possibili.
In questo pessimismo, talora cupo, l'A. intravede una sola ancora di salvezza, che possa dare un nuovo fondamento non solo al bisogno individuale di verità e di certezza, ma ai rapporti sociali ed alla solidarietà: la fede. In effetti l'unica parte dell'opera, in cui l'A. riesce a comunicare la commozione e la dimensione della speranza cristiana, che trasfigura il dolore e l'assurdità del vivere, è quella che prende il titolo di Riflessioni.
Certo, la riscoperta della fede è principalmente una soggettiva avventura dello spirito e non comporta di necessità una interpretazione della carità cristiana che diventi messaggio di solidarietà e di socialità universale; ma è proprio questa la spiritualità che il poeta privilegia, quasi a voler redimere il male della storia e le miserie degli uomini (Quello che n'hae dato).
Sul piano dei valori strettamente poetici, non sembra però essere questa la parte migliore dell'opera per una sovrabbondanza del contenuto e del messaggio rispetto all'immagine e al colore, ferma ovviamente restando ogni riserva sulla universale condivisibilità dei principi. E' certamente questa, tuttavia, la parte in cui emerge chiaramente la personalità problematica dell'A. ed il carattere tutto soggettivo ed interiore della sua poesia.
Questa nuova dimensione della spiritualità e del sentimento non basta, però, a rendere ragione piena di una poesia che sembra dipanarsi con più spontaneità e versatilità attorno a temi occasionali ed episodici, esternandosi in un evidente culto della risata, del motto di spirito, dell'arguta ironia, della beffa, del paradosso, in particolare modo laddove l'A. rinuncia volutamente alla invenzione fantastica, limitandosi, apparentemente, a mettere in rima barzellette, proverbi, detti celebri, canti a mietere (Il lamento del zi' Leo').
E' sicuramente evidente in queste composizioni l'abilità stilistica e metrica: il poeta mette alla prova il suo tecnicismo versificatorio, ma ciò che emerge su tutto è la capacità di rappresentazione pittorica e l'efficacia espressiva con cui ricrea situazioni e figure, che danno corpo e sangue, colore ed immagine ad una materia consunta dall'uso quotidiano, trita, a volte decisamente vuota o banale.
E' in questa sorta di soffio vitale, che anima maschere e scene di consueta e ordinaria ovvietà, tutta la grandezza dell'A.; ma tale creazione poetica non sarebbe possibile senza una profonda e varia esperienza del vivere e un intimo e forte sentire. Un ruolo fondamentale nel sintetizzare in un efficacissimo impressionismo descrittivo questi apporti diversi è svolto dall'uso del mezzo linguistico, il dialetto. La vivacità ed il colore del parlato, il suo patrimonio di immagini, di musicalità, di concisione espressiva contribuiscono in maniera determinante all'efficacia della rappresentazione. Questa seconda raccolta evidenzia, più che la prima, le valenze espressive del dialetto, che non sono legate tanto alle particolarità e specificità lessicali, quanto alla capacità di rendere il patrimonio di immagini connesse alle peculiari condizioni di vita e di civiltà contadina sviluppatasi sui «Monti della Tolfa» in un arco di tempo plurisecolare. L'organicità della scrittura in dialetto, peraltro, più che costituire un improbabile argine al dilagare della lingua (o meglio dell'uso gergale che ne fanno i media), sottolinea la lontananza e la ormai mortale fissità non tanto del lessico dialettale (in molta parte adattabile e sufficientemente duttile per essere recepito nella lingua), quanto dell'insieme dei modi di dire, dei giri di frase, dei paragoni, delle similitudini, in definitiva delle immagini, che traggono la loro forza espressiva da un vissuto irrimediabilmente perduto.
Gran parte della bellezza, della forza, del colore di questi versi; deriva dalla capacità dell'A. di reimmettere queste forme comunicative in situazioni e contesti che ridanno loro vita e le sottraggono, per qualche attimo, alla erosione del tempo, al loro destino di monumenti linguistici di un passato che si allontana sempre più.
E' ovvio che la loro vitalità appaia tanto più integra e naturale quanto più l'A. va «alla ricerca del tempo perduto» e che il loro uso appaia forzato quando esterna sentimenti e temi connessi al mutare delle sue personali condizioni ed esperienze di vita degli ultimi anni.
Se queste considerazioni colgono nel segno, appare chiaro che il valore della raccolta non sta tanto nel documentare il nostro passato (che si può evidenziare nella sua obbiettiva dinamica storica con altri più accreditati e scientifici strumenti), quanto nella sua validità di codice per penetrare e cogliere dall'interno il vissuto nella varia, ma perenne drammaticità, individuale e collettiva, della condizione umana; vale a dire, in ultima istanza, nel valore proprio della poesia con la P maiuscola.

Giuseppe Morra
Eugenio Bottacci

Tolfa, marzo 1994

PERSONE E USANZE ... CARATTERISTICHE

* Poesie già pubblicate in «La Tòrfa dal barsòlo» (1982), riproposte in questa raccolta per la loro attinenza con alcuni dei temi trattati. Ogni sonetto è corredato di Note esplicative dei termini dialettali più caratteristici.
Per una inquadratura generale dei principali aspetti del dialetto tolfetano, si rimanda il lettore ad una breve Nota lessicale, a pag. 249.