index

 

 

 

UNIVERSITA' DEGLI STUDI DELLA TUSCIA VITERBO

Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali

Tesi di laurea dello studente DAVID FINORI, matricola n° 158

Titolo:
"LO SFRUTTAMENTO DELLE RISORSE MINERARIE DEI MONTI DELLA TOLFA IN EPOCA TARDO-MEDIEVALE"

Relatore: Prof. Massimo Miglio Correlatore: Prof. Alfio Cortonesi

Anno Accademico 1999-2000


DAVID FINORI


LO SFRUTTAMENTO DELLE RISORSE MINERARIE DEI MONTI
DELLA TOLFA IN EPOCA TARDO MEDIEVALE.

abbreviazioni utilizzate:
ACT = Archivio Comunale di Tolfa.A.S.R.S.P. = Archivio della Società Romana di Storia Patria (pubblicazione periodica).
ASR = Archivio di Stato di Roma.
R.I.S. = Rerum Italicarum Scriptores, del Muratori (Milano, Tip. Palatina, 1842). S.R.S.P. = Società Romana di Storia Patria.

(Foto)

INTRODUZIONE

La frammentarietà dei documenti, la carenza di finalizzate indagini archeologiche e d'archivio e la poca attenzione con cui gli studiosi hanno analizzato le vicende storiche della regione tolfetana non avevano consentito, fino a poco tempo fa, di definire la reale importanza storica di questi luoghi.
Per troppo tempo è stato detto che l'aspetto storico più importante dei monti della Tolfa andava ricercato nell'allevamento del bestiame, nell'agricoltura, nello sfruttamento del patrimonio boschivo. Recentemente, grazie soprattutto al contributo fornito da studiosi locali e da nuove ricerche archeologiche, è stato dimostrato che l'elemento più "significativo" della storia tolfetana va individuato nello sfruttamento delle risorse minerarie, che ripetutosi, oseremo dire, in modo ciclico, ha accompagnato l'uomo nella sua evoluzione dalle epoche più antiche fino ai giorni nostri, condizionando fortemente le vicende dell'intero comprensorio. Non a caso molte sono le colline letteralmente sventrate e perforate; tante sono le cave e le miniere che, visibili ancora oggi, fanno tornare in mente ed immaginare i secoli passati, quando tutta la regione era invasa da ricercatori speranzosi di fare fortuna, da gente più o meno illustre, ma anche da persone poco raccomandabili che trovarono nel lavoro in miniera l'unica alternativa alla galera.
Per tali motivi si è voluto affrontare uno studio attento allo sfruttamento delle ricchezze minerarie del territorio tolfetano, ponendo particolare attenzione al periodo tardo-medievale e rinascimentale. Per rendere l'analisi più completa ed esaustiva si è voluta inserire una sintesi storica relativa ai luoghi oggetto del nostro studio con l'intenzione di fornire un quadro di riferimento dove collocare gli avvenimenti e le vicende legate allo sfruttamento minerario.
Il lavoro è diviso in due parti: nella prima si parlerà delle vicende storiche dei monti della Tolfa, con particolare attenzione agli ultimi secoli del Medioevo; nella seconda verrà affrontato quello che può essere considerato l'argomento principale del nostro studio e cioè lo sfruttamento delle risorse minerarie. Questa seconda parte sarà a sua volta divisa in tre sezioni. La prima, riporterà brevi cenni sulle ipotesi di utilizzazione delle risorse minerarie di Tolfa in epoca antica. La seconda, la più cospicua, ripercorrerà le vicende relative alla grande impresa alluminifera nata sul finire del XV secolo e protrattasi fino al secolo scorso. La terza, forse la più interessante, tratterà il tema dello sfruttamento degli "altri minerali" presenti nel territorio tolfetano, in particolare ferro e piombo, fino ad oggi poco studiati, la cui importanza storica è stata offuscata dalla più imponente coltivazione del minerale d' allume. Dovendo affrontare uno studio attento allo sfruttamento di risorse minerarie è bene fare qualche accenno alle caratteristiche geomorfologiche del territorio che a noi interessa. L'area in questione, situata nel Lazio centro-settentrionale tra il mare Tirreno ed il lago di Bracciano, nei comuni di Tolfa ed Allumiere, è inquadrabile nel complesso geologico Tolfetano-Cerite. I geologi e naturalisti ci informano che trattasi di un'unità territoriale costituitasi in epoche remotissime.
Nel Pliocene (circa 2-3 milioni di anni fa) alcuni fenomeni di vulcanesimo, tra i più antichi dell'Italia centrale, fecero emergere dal mare un gruppo di isole costituite da lave trachitiche acide, ricche di minerali (ferro, piombo, allume, ecc...), dando vita ad un piccolo arcipelago. Successivi sommovimenti diedero luogo a trasformazioni ulteriori, fino a quando l'elevazione delle parti ancora sommerse non portò all'aspetto attuale. Queste vicende delle quali la zona è stata teatro fanno si che nella povertà di minerali che si rileva nel Lazio il territorio di Tolfa costituisca un campo minerario non vasto ma notevolmente interessante.
Riportiamo a tal proposito un breve brano del Ponzi: La Tolfa è un paese formato da un gruppo di monti che lungo il litorale tirreno sovrastano i paraggi di Civitavecchia, e che sebbene poco rilevanti, pure danno a scorgere essere stati prodotti da meravigliose e straordinarie operazioni cosmiche. La svariata quantità di minerali, la magnificenza delle loro cristallizzazioni resero celebre quel paese, e perciò nei passati tempi non solo fu visitato da curiosi della natura, ma altresì da speculatori industriali''.(1) Lo stesso autore elenca i vari minerali presenti in quest'area mettendo in evidenza la rilevanza che l'alluminite ebbe nello sviluppo storico della regione; il suo rinvenimento, infatti, avvenuto sul finire del Medioevo, costituì per Tolfa, villaggio agreste oscuro e senza particolare importanza, motivo e inizio di una "novella istoria".
Ritornando al bacino minerario dei monti della Tolfa è bene fare una precisazione utile per il nostro studio. Va detto che l'intero bacino può essere suddiviso in due settori principali: quello settentrionale, caratterizzato da un'elevata concentrazione di minerale alluminoso, dove si svilupperà la grande impresa dell'allume e quello meridionale in cui predominano i minerali metalliferi da cui si ricavarono principalmente ferro e piombo.
Dopo questa breve parentesi sembra corretto spendere qualche parola per illustrare come e dove è stato svolto il lavoro di ricerca del materiale e dei documenti utili al nostro studio.
Innanzi tutto va detto che la maggior parte delle notizie e delle testimonianze sono state recuperate attraverso un'attenta lettura degli articoli, dei testi e di tutte quelle fonti bibliografiche reperite in diverse biblioteche locali (biblioteca di Tolfa, Allumiere e Civitavecchia) e in misura maggiore alla biblioteca Nazionale di Roma, dove si è svolta la parte predominante della ricerca. Molto interessante è stata anche la consultazione dei documenti presenti all'archivio di Stato di Roma, camerale III, specialmente per ciò che riguarda l'impresa dell'allume. Tali documenti, già ampiamente analizzati da molti studiosi, primo tra tutti Delumeau, hanno comunque fornito interessanti informazioni sui metodi di estrazione del minerale alluminoso. Per ultimo, ma certamente non meno importante, va ricordato il prezioso materiale e le preziose informazioni fornite da studiosi locali che spinti da una passione inesauribile e da un forte amore verso la terra natia, continuano con il loro lavoro a fare luce sulle vicende storiche di Tolfa. In modo particolare ci preme qui ringraziare Giuseppe Cola, grande appassionato di storia e studioso di "cose" tolfetane, senza il contributo del quale il nostro lavoro sarebbe risultato sicuramente molto più lacunoso di quello che è.

Parte Prima

PROFILO STORICO DEI MONTI DELLA TOLFA NEL PERIODO TARDO MEDIEVALE.

Prima di addentrarci nelle interessanti vicende che riguardano lo sfruttamento delle risorse minerarie nella regione tolfetana, e in particolare l'importante impresa alluminifera che per alcuni secoli diede a questo territorio prestigio e gloria a livello europeo, è bene tentare di ricostruire le fasi storiche di quei luoghi che furono teatro di questi eccezionali eventi.
Inizieremo cercando di fare il più possibile chiarezza sulla storia di Tolfa, o meglio delle Tolfe; vedremo più avanti il perché dell'uso del plurale, partendo dalle prime notizie e dai primi documenti a noi pervenuti risalenti al periodo medievale. Presteremo poi particolare attenzione alle vicende storiche tardo medievali contemporanee al grande sviluppo dell'industria alluminifera. Va detto, come premessa, che la nascita dell'impresa dell'allume provocherà grandi ripercussioni, non solo economiche e demografiche, ma anche politiche, nella regione che si sta analizzando. Ritornando al discorso delle due Tolfe bisogna notare come a partire dal XII secolo troveremo nominate nelle notizie e nei documenti a noi pervenuti due diversi centri: Tolfa Nuova e Tolfa Vecchia. Ciò testimonia come la regione tolfetana, nel periodo tardo medievale, fosse territorialmente e politicamente divisa in due diversi domini che ebbero spesso vicende storiche parallele ma anche distinte. La storia dei due centri dovrà essere vista e studiata in un più ampio respiro di collegamenti e con la distinzione tra feudi baronali e liberi comuni.
Senza dubbio i molti documenti presenti nella "Margarita Cornetana" hanno indirizzato a valorizzare la storia di Tolfa Vecchia; ciò è naturale se si considera che questa prestava atti di vassallaggio al comune di Corneto. Al contrario, poche sono le notizie relative alle vicende di Tolfa Nuova, quando invece quest'ultima presentava una precisa autonomia locale. A consolidare la posizione storica di Tolfa Vecchia si aggiunse l'esplosione economica del XV secolo dovuta all'industria dell'allume, in conseguenza della quale Tolfa Nuova venne distrutta. Sembra quindi naturalmente scontata la cancellazione dalla memoria delle vicende storiche alle quali Tolfa Nuova partecipò attivamente. L'interesse alla sua storia si accentua sempre di più quando la tradizione locale, confortata da una serie di autori fino al secolo scorso, ritenne di dover localizzare a Tolfa Nuova il centro abitato romano di "Forum Clodii" o "Claudii" che gli studiosi moderni collocano presso la modesta chiesa di S. Liberato, nei dintorni di Bracciano.

1. LE PRIME NOTIZIE.

La prima notizia che riguarda Tolfa Nuova e di riflesso Tolfa Vecchia la fornisce Annio da Viterbo. Il frate viterbese, che visse nella seconda metà del Quattrocento, periodo in cui Tolfa Nuova esisteva ancora, riporta nei suoi "Commentari su due frammenti dell'itinerario di Antonino Pio (Antiquitatum variarum volumina XV) " le seguenti parole: "Forum novem pagorum Claudii ab hac Tulfa Nova: olim Foro Claudii: recta via est in Tarquinias" e dice anche "Est igitur Tulfa Nova inclyta praefectis Romanis usque ad tempora nostra: quae destructa a Saracenis nomen Claudium perdidit et a reparatoribus vicinis Tulfanis Veteribus nomen desumpsit" (2).
Prima di commentare questa testimonianza è bene ricordare i giudizi negativi dati su Annio e come questi gravino sull'affidabilità della sua opera. Recentemente si è registrato un tentativo di rivalutazione dello storico viterbese, anche se nel complesso l'autore rimane poco credibile. A conferma di ciò notiamo come gli storici moderni si siano indirizzati verso una diversa ubicazione di Forum Claudii nei pressi della chiesa di S. Liberato, sita nelle vicinanze di Bracciano (3). Nonostante ciò, per quanto riguarda il presente studio, vale la pena analizzare, con le dovute precauzioni, la testimonianza lasciata da Annio, soprattutto per le interessanti spiegazioni che fornisce sull'origine di Tolfa Nuova e sul suo nome.
Secondo la notizia anniana, nei tempi in cui le scorrerie saracene desolavano la Tuscia, esisteva, non lontano dal mare, sul monte ora detto della Tolfaccia, un centro romano da lui identificato col Forum Claudii dell' "Itinerario" di Antonino Pio. Durante una delle numerose incursioni, quando l'opera devastatrice dei nuovi barbari s'estese anche nell'entroterra, il centro fu distrutto e gli abitanti furono costretti a cercare rifugio presso Tolfa (Vecchia). Si deduce inoltre che, dopo un certo periodo di cui non sappiamo la durata, furono proprio gli stessi fuggiaschi, o i loro eredi, con l'aiuto dei tolfetani, a ricostruire l'antico centro abitato, che perse allora il nome di Forum Claudii e prese quello di Tolfa Nuova. Venne così naturale che per necessaria differenziazione si desse l'attributo di "Vecchia" all'altra comunità. Si tratterebbe di un fenomeno simile a quello di molti altri centri limitrofi (4). E' inoltre molto difficile cercare di datare tali avvenimenti; a tutt'oggi non è ancora possibile. Di sicuro sappiamo che nel momento in cui avvennero le incursioni saracene Tolfa Vecchia già esisteva e forse era già munita di qualche fortificazione. Certo è che se si accettasse come veritiera la testimonianza di Annio avremmo una serie di risposte valide a questioni storiche di non poco interesse; prima tra tutte la presenza in epoca tardo medievale di due Tolfe, topograficamente così vicine ma con vicende storiche tanto diverse.
Il frate viterbese è infatti il primo cronista che evidenzia la distinzione tra i due nuclei abitativi e spiega il motivo per cui Tolfa Nuova apparteneva alla prefettura romana ed era direttamente collegata alla potente famiglia dei prefetti Di Vico. Chiarisce poi perché i due centri erano chiamati allo stesso modo: Tolfa, con i diversi attributi di "vecchia" e "nuova". Ciò deriverebbe dal fatto che Tolfa Nuova era stata ricostruita dagli abitanti di Tolfa Vecchia, ovvero da coloro che a Tolfa Vecchia si erano ritirati durante le invasioni saracene. Dopo Annio altri affermarono la corrispondenza tra Forum Claudii e Tolfa Nuova. Il primo fu il Volaterrano (1455-1522) (5) che, basandosi su Plinio e Strabone, pone a Tolfa, senza distinzione, tanto il Foro di Claudio quanto la prefettura. Alla metà del XVI secolo toccò a Leandro Alberti (1479-1552) (6) confermare la corrispondenza tra Forum Claudii e Tolfa Nuova. L'autore cita Strabone, Plinio, Antonino e Tolomeo (7) e riprendendo Annio e il Volaterrano, aggiunge che nelle vicinanze c'era la prefettura e la via Claudia.
Per quanto riguarda le testimonianze locali ne abbiamo una risalente al 9 marzo 1636, quando il consiglio comunale di Tolfa, nell'avanzare istanza al papa per ottenere l'area necessaria alla costruzione della chiesa di Cibona, iniziò la risoluzione con le seguenti parole: "Si pregiano i nostri antichi che questa nostra terra avesse i suoi primi fondamenti da un mercato nobilissimo istituito da Claudio perlocchè da Plinio, da Strabone e da Tolomeo vien chiamato Forum Claudii'. (8)
Un'ulteriore testimonianza la ricaviamo dal Morra che la riprende, a sua volta, dal settecentesco manoscritto Buttaoni: "Tolfa nova credo quod fuerit prope Forum Clodij, et quia circa ipsum erant novem pagi, et Praefecturae, et antiquitatis viarum latarum selicibus pulcherrimis constitutarum demonstrat nec non Tolomei Tabulae et aliorum. Ibi Sanctus Protegenes martir fuit quodam tempore relegatus "'. (9)
Anche qui si afferma che il Foro di Claudio si trovava nelle vicinanze di Tolfa Nuova ed intorno ad esso il manoscritto pone i nove villaggi di Plinio e la prefettura.
In sostanza, fino al XVII secolo era ritenuto che Forum Claudii fosse stato nelle vicinanze della medievale Tolfa Nuova.
L'inversione a questa tendenza venne data nel 1624 dal Cluverio che cercò di localizzare Forum Claudii sulla base dello studio delle strade antiche; l'autore così si esprime: "... hinc errarunt illi, qui Forum Claudii interpretati sunt oppidum Tolfam... ", e aggiunge: "totus autem Ager Praefectura Claudiae, circa Forum Claudii, in novem portiones distribuitus fuit, qui Novem Pagi dicebantur"(10)
Da questo momento in poi iniziò l'altalena di ipotesi sulla localizzazione del Foro, fin quando nel 1859 lo storico Desjardin, dopo una serie di interessanti studi, propose di localizzare Forum Claudii nei pressi della chiesa di S. Liberato nei dintorni di Bracciano. La tesi dello studioso francese è stata confermata con autorità dal Tomassetti nel 1913 e, fino ai nostri giorni, chiunque si sia cimentato nello studio di tale argomento ha indicato come base di partenza l'opera del Tomassetti. Di fronte a tale storico sembra inutile e fuori luogo ogni osservazione, va detto però, che il Tomassetti svaluta completamente l'importanza storica ed economica dei monti della Tolfa . Nella sua importante opera "La Campagna Romana"(11) Tolfa è presa in considerazione solo indirettamente quando si parla delle vicende di altri centri.
A questo proposito, ci sembra giusto ricordare che in questi ultimi anni sono riprese nella zona della Tolfaccia (Tolfa Nuova) ricerche archeologiche attorno ad un vasto insediamento romano che potrebbero fare nuova luce sulla vicenda. Fino a pochi anni fa si pensava che questo non fosse altro che una tipica villa rurale con vocazione prettamente agricola. Grazie ai recenti scavi si è però notato che l'insediamento in questione mostra caratteristiche particolari che lo differenziano dalle altre ville rurali presenti sul territorio. In attesa di ulteriori scavi chiarificatori è bene ripetere ancora una volta come a tutt'oggi sembra impossibile accettare l'ipotesi di Annio, almeno per ciò che riguarda la derivazione di Tolfa Nuova dall'antico centro di Forum Claudii. Più interessanti, anche se bisognose di ulteriori verifiche, sono le altre informazioni fornite dal frate viterbese. Annio, infatti, è il primo autore che mette in evidenza l'esistenza di due centri distinti denominati rispettivamente Tolfa Vecchia e Tolfa Nuova; fornisce anche una spiegazione, abbastanza verosimile, al perché di questo fenomeno e aggiunge una giustificazione al fatto che, ancora ai suoi tempi, Tolfa Nuova era legata alla prefettura romana. Concludiamo ricordando che le argomentazione sopra esposte andrebbero vagliate con più attenzione. Certo è che se fosse possibile considerare come veritiera l'ipotesi di Annio, avremmo un importante testimonianza delle vicende storiche delle due "Tolfe".

2. NOTIZIE DOPO IL MILLE.

Dopo aver brevemente accennato a quella che può essere considerata soltanto un'affascinante ipotesi storica, bisogna notare come per trovare notizie certe relative ai monti della Tolfa sia necessario varcare l'anno Mille.
La più lontana notizia che abbiamo a disposizione la fornisce il Morra che la riprende dalle carte di uno storico locale, il Bartoli, (12) dove però non è specificata la fonte. Questo è il brano riportato dal Morra: "Fra i due popoli di Farnese e Bisenzio (sic, per Bisenzo, castello sulle rive del lago di Bolsena, non lontano da Capodimonte) nacque questione sulla limitazione dei confini. A decifrarla reso inutile ogni mezzo, fu giuoco forza sperimentare le armi. Siccome l'uno dei paesi era di parte Guelfa e l'altro apparteneva alla fazione Ghibellina, concorsero in detta guerra i Capitani dell'uno e dell'altro Stendardo recandovi le popolazioni di Corneto, di Tolfa, di Vetralla ". In altra parte della stessa pagina (ove in luogo di Vetralla è menzionata Toscanella) è detto: "La guerra ebbe luogo nel 1037, epoca la più remota che ci fu dato rinvenire improntata al nome del nostro castello "(13). Quale testo abbia consultato il Bartoli per rinvenire questa contraddittoria notizia non è conosciuto, rimane però qualche dubbio sulla sua veridicità.
Un'altra notizia simile alla precedente, di qualche anno più tardi, ce la fornisce il Polidori nelle sue "Croniche di Corneto". Egli ci informa che nell'anno 1060 "li Viterbesi, Cornetani, Tolfetani, et Vetrallesi per causa de dispiaceri riceuti dalli Prefetti di Vico furono astretti a collegarsi, et a prender l 'arme contro d'essi Prefetti, et contro li Signori di Bisenzio loro parteggiani et venutosi a fatto d'arme furno astretti li suddetti Prefetti et Signori di Bisenzio salvarsi con la loro gente in Montefiascone "(14). Questa seconda notizia può essere considerata autentica per due motivi sostanziali: il primo perché prevede un'alleanza che, per le volte che sarà ripetuta, può essere considerata storica; il secondo perché è stata riportata dal Manente, ripresa e convalidata da una numerosa schiera di storici e cronisti.
Il Manente così si esprimeva: `In quest'anno, Viterbesi, Tolfani, Cornetani e Vetrallesi mossero guerra a li Signori Prefetti di Vico i quali si ritirarono in Montefiascone con li Signori di Bisenzio '' (15).
Va aggiunta, ancora, la concreta possibilità che a partecipare all'azione furono i signori di Tolfa Vecchia, visto che quelli di Tolfa Nuova parteggiavano per i prefetti Di Vico.
Da queste prime notizie, abbastanza scarne e isolate, si può già azzardare un'interessante deduzione. Appare evidente, infatti, che la storia dei centri siti sulle alture dei monti della Tolfa, fu strettamente legata a quella della famiglia dei prefetti Di Vico, che un ruolo importante dovette svolgere nella storia del Patrimonio.
Ritornando alle prime notizie riguardanti Tolfa ne troviamo una particolarmente interessante datata 1075. Molti sono gli autori che la riprendono; per brevità si riportano di seguito soltanto i due più completi: il Manente e il Morra. Il primo riporta che “in tal tempo (1074) (sic. 1075) fu spiantata la Tolfa per essere stata contraria alla Chiesa Romana. Nel detto anno Cencio Romano inimico della quiete e religion Cristiana prese con le sue genti la notte di Natale Papa Gregorio VII".(16) Il Morra che riprende dal Bartoli e dal Moroni così riporta: "... la Tolfa nell'anno 1074 (sic.1075) fu rasa al suolo per essersi ribbellata alla Chiesa, opera del sacrilego Cincio figlio di Stefano Prefetto "(17).
Ci sembra giusto, a questo punto, spendere qualche parola su questi avvenimenti soffermandoci, in particolare, sulla figura di Cencio (Cincio) (18). Siamo al culmine della lotta che va sotto il nome d'investitura tra Gregorio VII (1073-1085) ed il giovane Enrico IV. La nobiltà romana era capeggiata da Cencio, rampollo feroce del prefetto Stefano, considerato uno scellerato, reo di adulterio e di tutti i peggiori delitti. Caporione del partito di Candalo, il suo comportamento somigliava a quello di un secondo Catilina. Suo padre era stato prefetto della città ed aveva mantenuto il suo ufficio anche con l'avvento del partito degli Ildebrandini. Prima di morire aveva espresso il desiderio che il figlio gli succedesse nella prefettura; ma, anche se lo desiderava molto, Cencio non riuscì ad ottenere tale carica. Nel 1073 il partito riformatore elevò alla carica della prefettura il pio Cinzio figlio di Giovanni Tiniosi che Ildebrando aveva creato prefetto nel 1058. Due personaggi quasi simili ma soltanto nel nome: Cencio veniva dipinto come un diavolo che prega e ammazza; Cinzio come un santo che mentre prega emette le sentenze relative al suo ufficio.
La sera della vigilia di Natale 1075, mentre il papa celebrava la messa, Cencio irrompe in chiesa prelevando Gregorio VII e portandolo in una sua torre. La mattina seguente è tutto risaputo. Cencio è umiliato da tutti per la sua condotta maldestra che non gli ha consentito di portare il papa fuori dalla città. Cencio implorò la grazia al papa che gli impose di recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme. Gregorio VII fu così liberato e, mentre il popolo radeva al suolo le case di Cencio e dei suoi partigiani, andò a terminare la messa interrotta. Cencio non andò a Gerusalemme ma nel 1077 morì improvvisamente a Pavia. Cinzio invece, a cui Gregorio VII aveva affidato la città di Roma durante la sua assenza, cadde alla fine dell'anno in un'imboscata tesagli in campagna da Stefano, fratello di Cencio. I suoi compagni piansero la morte del prefetto, assalirono la rocca di Stefano, lo fecero a pezzi, portarono la sua testa davanti a S. Pietro e punirono i complici con la morte o con l'esilio.
Il breve racconto appena riportato dimostra che la notizia secondo la quale Tolfa fu rasa al suolo nel 1074 o 1075 per essersi ribellata alla Chiesa potrebbe essere vera. I personaggi rivali ci sono tutti compresi i prefetti che indubbiamente danno l'autenticità che si tratti di Tolfa Nuova in quanto appartenente alla prefettura.
Per avere ulteriori informazioni su Tolfa bisogna attendere quasi un secolo. Un cronista ci informa che nel momento in cui Federico Barbarossa assunse il titolo imperiale, dopo la morte di Corrado III (1152), vari tirannelli si impadronirono di alcune terre soggette alla Chiesa romana. Tra questi è nominato un Nicolò della Anguillara che occupava "Tolphas et Sanctam Severinam "(19). La forma plurale del nome Tolphas fa pensare al fatto che i due centri, Tolfa Vecchia e Tolfa Nuova, si trovano in questo caso accomunati dallo stesso destino.

3. IL XIII SECOLO: I PRIMI DOCUMENTI.

3.1. Tolfa Vecchia e gli atti di sottomissione a Corneto.

Dopo queste brevi informazioni, che non permettono di ricostruire con esattezza la storia della regione tolfetana nei secoli XI e XII ma che sono comunque estremamente interessanti, giungiamo al secolo XIII, all'inizio del quale risale il più antico documento riguardante Tolfa Vecchia a noi conosciuto. Il documento in questione non è altro che un atto di sottomissione della popolazione di Tolfa Vecchia, rappresentata dal conte Ugolino, al comune di Corneto, datato 13 marzo 1201 (20).
Sul finire del XII secolo il conte Ugolino si era impossessato, con la forza delle armi, di Tolfa Vecchia, Monte Monastero e Civitella, ledendo i diritti del conte Guido di S. Fiora al quale dovevano appartenere questi luoghi. Intervenne allora il comune di Corneto che favorì la risoluzione del conflitto (21). Esaurita la fase militare si arrivò alla stipula del documento del 13 marzo 1201, mediante il quale il conte Ugolino, con il consenso della moglie e dei figli Rainone e Rainuccio, sottometteva ai consoli e al popolo di Corneto, Tolfa Vecchia e Monte Monastero. Il contenuto del documento ci informa sulle modalità attraverso le quali si manifestava la sottomissione al potente comune vicino. Oltre al simbolico dono del cero, che si doveva ripetere ogni anno nella ricorrenza di S. Secondiano, protettore della città di Corneto, il conte. Ugolino si impegnava a pagare, come risarcimento, 1000 lire di denari pisani agli eredi del conte Guido; a cedere al comune di Corneto i suoi possedimenti di Centocelle e ad esentare gli abitanti di Corneto dal pagamento di qualsiasi diritto nelle sue terre. Insieme ai suoi figli Rainone e Rainuccio giurava il "sequitamento " e si obbligava a farlo giurare ai suoi successori non appena avessero compiuto il quattordicesimo anno d'età. Si impegnava ancora a far ripetere lo stesso giuramento a tutti i suoi uomini e a coloro che in futuro sarebbero venuti ad abitare nelle sue terre. Restava esclusa la cooperazione ad ostilità contro l'imperatore, il papa e il comune di Roma.
Qualche giorno prima, precisamente il 4 marzo 1201 (22), anche il castello di S. Arcangelo (23) era entrato nell'orbita del dominio cornetano. Paltone, abate della chiesa di S. Arcangelo, si era impegnato a condividere con il comune di Corneto una serie di diritti (24), a giurare e fare giurare il "sequitamento" ai suoi successori e a tutti gli uomini del castello di età superiore ai quattordici anni.
Da questi primi documenti a nostra disposizione si nota come agli inizi del XIII secolo Tolfa Vecchia e tutta la parte settentrionale dei monti della Tolfa, quella in cui si svilupperà qualche secolo più tardi la grande impresa alluminifera, furono sottomesse. al comune di Corneto. Non si hanno invece, notizie di sottomissione per quanto riguarda Tolfa Nuova.
Molto probabilmente su Monte Monastero e S. Arcangelo doveva vantare dei diritti anche l'altro potente comune della zona: Viterbo (25). Non a caso sorse subito un conflitto tra cornetani e viterbesi. Si spiegherebbe così la guerra del 1211 mossa dai viterbesi contro Tolfa Vecchia (26). Viterbo dovette ripristinare l'ordine precedente e Rainone, figlio del conte Ugolino, signore di Tolfa Vecchia, tentò allora di espandere il suo dominio in altra direzione impadronendosi del castello del Sasso. Per tale occupazione fu scomunicato da Onorio III (1216-1227) e, dopo l'assedio del 1228 patito dal castello di Monte Monastero da parte delle milizie romane, fu costretto a sottomettersi nel 1230 a Gregorio IX con la garanzia dei prefetti Di Vico (27).
Indubbiamente manca il documento, ma poiché nel documento seguente del 1238 è indicato un privilegio tra Rainone di Tolfa Vecchia ed il comune di Corneto, è probabile che il pontefice, per tamponare la situazione politica tra Viterbo, Corneto e lo stesso comune di Roma, abbia dato il proprio consenso per ripristinare la situazione di fatto creatasi prima del 1211. La giurisdizione dei castelli di Monte Monastero, Civitella e S. Arcangelo passò quindi di nuovo sotto l'egemonia politica e (Foto) amministrativa di Corneto. Prova ne è il fatto che Enrico, abate di S. Arcangelo e successore di Paltone, tentò di svincolarsi dagli accordi del privilegio tra Tolfa Vecchia e Corneto intentando un processo. Con atto del 28 febbraio 1238, dietro preciso ordine del console di Corneto Iacopo di Gepzio, l'abate di S. Arcangelo è costretto a rispondere per quanto spetta a Corneto del castello di S. Arcangelo in forza del privilegio tra Rainone di Tolfa Vecchia ed il comune di Corneto (28). Lo stesso Enrico giura di rinunciare al processo d'appello e presta il "sequitamento". Il console Iacopo riceve il "sequitamento" anche da molti massari di S. Arcangelo e, allo scopo evidente di predisporre un preciso controllo, costituisce un visconte presso il castello di S. Arcangelo.
Con atto del 8 marzo 1256 (29) viene rinnovato dagli uomini di Tolfa Vecchia, nella persona di Simone Carnifex visconte, il giuramento del "sequitamentum". Il documento, contenuto sempre nella Margarita Cornetana, ci da, questa volta, i nominativi degli uomini, probabilmente di età superiore ai quattordici anni, che giurano il "sequitamento" di Monaldo da Orvieto podestà di Corneto. Il giorno successivo, il 9 marzo,(30) tocca agli uomini di Monte Monastero giurare il "sequitamento" al podestà; mentre il 14 aprile (31) è la volta di quelli di Civitella.
Ad altre stipulazioni dello stesso genere Tolfa Vecchia sarà chiamata negli anni successivi. Il 16 agosto 1283 (32) il comune di Corneto, allo scopo di esercitare i diritti previsti nei privilegi precedenti incarica maestro Leonardo Mingardine, sindaco e procuratore, a ricevere il giuramento di "sequitamento" degli uomini di Tolfa Vecchia, Monte Monastero, S. Arcangelo e Civitella. Il giorno seguente giurano per Tolfa Vecchia 91 uomini (33); il 18 agosto sono gli uomini di Monte Monastero a rinnovare il giuramento (34). Lo stesso giorno viene nominato Iannicello Falecorde da Corneto castellano e gastaldo del castello di S. Arcangelo per l'amministrazione dei diritti del comune sulle vigne, i pascoli, i costatici, i dazi, le collette e quanto altro gli spetta in S. Arcangelo, in virtù del privilegio con l'abate del luogo (35).
Dieci anni più tardi emergono come signori di Tolfa Vecchia i Guastapane, che, assieme ad altri, il 26 febbraio 1293 (36) giurano il "sequitamento" davanti al consiglio generale del comune di Corneto. Tra l'altro, si obbligano a conservare il castellano costituito da Corneto presso S. Arcangelo. Ancora nel settembre 1299 viene prestato il consueto giuramento; i firmatari sono qualificati espressamente "signori di Tolfa Vecchia e S. Arcangelo"(37).
Il XIII secolo si chiude con una pagina di discordia e di violenza. Il 25 e 26 dicembre 1299 i signori di Tolfa Vecchia e S. Arcangelo effettuarono un'azione armata contro i signori di Monte Monastero e Civitella; misconoscendo una divisione precedentemente fatta. Il castello di Monte Monastero fu occupato, i signori con i loro familiari e vassalli espulsi. Gli espulsi chiesero giustizia a Corneto che prontamente intervenne ristabilendo la pace e sottomettendo entrambi i contendenti, avocando a se il territorio posto sulla riva sinistra del fiume Mignone.

3.2. Una guerra in famiglia.

Dagli atti di sottomissione al comune di Corneto fin qui analizzati, appare evidente che il territorio di Tolfa Vecchia e dei castelli vicini era così frazionato che non sembra sempre possibile individuare quali fossero i condomini. Soltanto sul finire del XIII secolo emerge dall'anonimato la famiglia dei Guastapane che risulta in possesso di quasi tutti i castelli della zona.
Nell'atto del 26 febbraio 1293 troviamo nominati come signori di Tolfa Vecchia "Cappello e Tebaldino di Guastapane, Graziano e Guastapane di Niccolò, Gepzio di Martino e Oddone di Guitto... "(38). In quello successivo del settembre 1299 risultano: "Tancredi, Tebaldino e Guastapane figli del fu Guastapane, pietro di bove, Guastapanello e Angelo di Pandolfo signori di Tolfa Vecchia e S. Arcangelo "(39).
Molto probabilmente nell'ultimo decennio del XIII secolo, specialmente tra il 1293 e il 1299, si può ipotizzare una spartizione dei castelli e dei possedimenti della zona tra i signori appartenenti alla famiglia Guastapane. Si può ipotizzare ancora che tale spartizione fu la causa della guerra che i signori di Tolfa Vecchia mossero ai loro parenti di Monte Monastero e Civitella sul finire del secolo. Le fasi della guerra sono documentate negli atti del 25 e 26 dicembre 1299 contenuti nella "Margherita Cornetana", dove risulta che i signori di Monte Monastero e Civitella chiesero l'intervento del comune di Corneto (40).
Il giorno 25 dicembre 1299 il podestà di Corneto, Pietro di Oddone Di Vico, radunato un certo numero di fanti e cavalieri si avvicinò prima a Civitella, poi, il giorno seguente, a Monte Monastero. Giunto davanti alla porta del castello di Monte Monastero, Pietro di Oddone chiamò Guastapane del fu Guastapane di Tolfa Vecchia e gli ingiunse di consegnare il castello tolto con le armi ai legittimi proprietari. Il Guastapane rispose che non poteva consegnarlo per il fatto che già glielo avevano chiesto i conti d'Anguillara che vantavano dei diritti sul castello; che attendeva l'arrivo degli stessi Anguillara e che egli stesso godeva dei diritti su Monte Monastero in quanto la spartizione dei castelli era stata fraudolenta. Tali giustificazioni non furono sufficienti a convincere il podestà che con l'uso della forza riprese il castello scacciandone gli invasori. Chiese poi ai signori di Monte Monastero, a quelli di Civitella e allo stesso Guastapane di giurare la sottomissione al comune di Corneto.
I primi a presentarsi di fronte a Pietro di Oddone Di Vico furono i signori di Monte Monastero e Civitella che, con atto del 28 dicembre 1299 (41), investirono il podestà di Corneto del possesso dei due castelli e delle terre annesse. Il giorno seguente gli stessi signori, insieme ai loro familiari e vassalli, giurarono il "sequitamento" ripetendo le stesse formule presenti in tutti gli atti precedenti, a partire da quello del 1201.
Il 30 dicembre 1299 (42) fu la volta di Guastapane del fu Guastapane, in rappresentanza dei signori di Tolfa Vecchia, a giurare il "sequitamento" nel campo di S. Arcangelo alla presenza del podestà e del popolo di Corneto. Lo stesso Guastapane ricevette da Pietro di Oddone Di Vico l'ordine di non molestare in alcun modo i signori e vassalli di Monte Monastero e Civitella e di rivolgersi, per eventuali rivendicazioni su di essi, alla curia del comune di Corneto.
Si concludeva così, con la rinnovata sottomissione dei vari centri al comune di Corneto, la disputa nata sul finire del XIII secolo tra i signori di Tolfa Vecchia e i loro parenti di Monte Monastero e Civitella per il possesso di tali castelli.
Dalle notizie appena riportate risulta chiaro che per tutto il XIII secolo la zona posta sulla riva sinistra del fiume Mignone fu sottoposta alla giurisdizione del comune di Corneto. E' altrettanto chiaro come la proprietà dei luoghi e dei castelli suddetti risulti notevolmente frazionata.
Tra i molti nomi di signori che compaiono negli atti da noi consultati, ritroviamo spesso quelli di appartenenti alla famiglia Guastapane che ebbe certamente un ruolo di primo piano nelle vicende storiche di questa regione. Non a caso il XIII secolo si chiude con la notizia degli scontri tra i Guastapane di Tolfa Vecchia e S. Arcangelo e quelli di Monte Monastero e Civitella.
Ci sembra utile a questo punto aggiungere qualche notizia sulla famiglia Guastapane.

3.3. La famiglia Guastapane.

Iniziamo col dire che non si hanno notizie certe sull'origine della famiglia Guastapane. E' invece sicura e documentata la presenza attiva dei Guastapane in tutte le vicende del Patrimonio dal XII al XIV secolo.
Le prime indicazioni su tale famiglia furono fornite dal Sansovino (43); l'autore propose l'origine della famiglia degli Anguillara proveniente proprio da un Guastapane che indicò discendente da Raimone e che, dal medesimo Guastapane, sarebbe disceso Pandolfo.
La Sora (44) ricondusse il primo documento originario della famiglia degli Anguillara al 1020 e riconobbe il Raimone del Sansovino alla data del 1163.(45) La stessa autrice riconobbe Pandolfo, primo di una lunga serie di conti, alla data del 1186, quando, assieme ad altri nobili romani, andò incontro ad Enrico VI per accoglierlo come alleato. Il dubbio che resta è se il Sansovino si riferisse a Guastapane del XII secolo, come riconobbe la Sora, oppure a qualche altro Guastapane del secolo successivo. Un'altra notizia, fornita dall'Artioli (46), sostiene che il probabile fondatore della nobile famiglia degli Anguillara fu Raimone seguito da Guastapane, poi da Belizone (o Belinzone) e da questi Guido presente nel 1019. La notizia fornita dall'Artioli potrebbe essere molto importante perché ci porterebbe a collocare il primo Guastapane, discendente di Rainone I e capostipite della famiglia degli Anguillara, nel X secolo. Molto interessante è anche un recente studio di Cola (47) che, sulla base delle notizie suddette, arriva ad alcune considerazioni degne di attenzione, avvalorando l'ipotesi dell'origine longobarda della famiglia.
Passiamo ora ad esaminare quei documenti nei quali sono espressamente menzionati i Guastapane.
Il primo documento certo è del 1215 (48), quando troviamo Guastapane e parenti in lotta contro il comune di Viterbo. La discordia fu risolta proprio nel 1215 grazie all'intervento di Pietro Di Vico che si fece garante per Oderisio di Guastapane e parenti i quali, secondo il Ferruzzi, erano signori di Soriano e, secondo Duprè, vantavano dei diritti feudali su Soriano (49). Da questo primo documento emerge quindi la famiglia Guastapane in competizione con il comune di Viterbo e amica dei prefetti Di Vico.
Il primo documento in cui ritroviamo un Guastapane con il titolo di conte è del 1233 (50). Giangaetano di Orso di Bobone di Pietro obbliga, in un codicillo del suo testamento, i suoi eredi a restituire al conte Guastapane dell'Anguillara 100 libbre di provisini. Dovrebbe trattarsi del medesimo conte Guastapane che ritroviamo nominato nello statuto di Viterbo 1237-1238 (51) dove è detto che gli uomini di Viterbo possono transitare, senza pagare alcun pedaggio, nelle terre dei prefetti e del conte Guastapane. Dal documento è evidenziato che gli uomini delle suddette terre erano direttamente interessati al commercio di indumenti e pelli; tali beni suggeriscono la concia delle pelli e naturalmente il conseguente, quanto naturale e probabile, uso dell'allume notoriamente presente nel territorio dei monti della Tolfa. Si ritrova Guastapane conte dell'Anguillara nel 1246: risulta sposato con Angela di Gentile Orsini, nipote di Matteo Rosso Orsini.
Alla luce dei documenti esposti è possibile riconoscere la famiglia Guastapane divisa in due rami: quello di Soriano e quello di Anguillara col titolo di conte, probabilmente tra loro parenti. Ulteriori notizie relative ai rappresentanti dei due rami della famiglia le ritroviamo nella seconda metà del XIII secolo (52).
Ai Guastapane di Soriano è legata una delle pagine più tristi del nepotismo papale. Niccolò III (Giovanni Gaetano Orsini, 1277-1280), figlio di quel Matteo Rosso che abbiamo visto zio di Angela maritata a Guastapane dell'Anguillara, era intenzionato a costruire presso Soriano la propria residenza estiva. Unico ostacolo era la presenza dei Guastapane a cui era stato concesso Soriano nel 1244 da Innocenzo IV (1243- 1254) (53). I fratelli Guastapane di Soriano, Pandolfo, Guastapane, Pietro e Stefano del fu Porcario, furono accusati di eresia (1278). Tale accusa comportò, oltre l'anatema religioso, la confisca dei beni appartenenti alla famiglia, tra cui anche Soriano. A seguito della condanna Orso Orsini, nipote di Niccolo III, si impadronì di Soriano realizzando così il progetto del papa, mentre i Guastapane furono costretti a nascondersi nelle terre del Patrimonio di S. Pietro.
A partire dal 1292 è attestata con certezza la presenza dei Guastapane sui monti della Tolfa; ma è incerto se siano quelli di Soriano rifugiatisi in questi luoghi, oppure un altro ramo della stessa famiglia.
Tra le varie dispense matrimoniali concesse da Niccolò IV (1288-1292) nel 1292 figurano (54):
Rogerio di Francesco di Tolfa Nuova e Angela di Pandolfuzio di Guastapane di Tolfa Vecchia.
Gerardo di Tebaldo di Tolfa Nuova e Perna di Tancredo di Guastapane di Tolfa Vecchia.
Pelluzio di Tebaldo di Tolfa Nuova e Giacoma di Capello di Guastapane di Tolfa Vecchia.
E' incerto chi fosse il Guastapane dei documenti, se quel Guastapane del fu Porcario documentato nel 1258 (55) e condannato da Niccolò III, oppure quello stesso Guastapane conte dell'Anguillara del 1233 e 1246 del quale manca però il titolo comitale. Non siamo ancora in possesso della documentazione necessaria per completare la genealogia di questa famiglia; tuttavia i documenti che seguono aiutano non poco ad una migliore conoscenza.
Il 26 febbraio 1293 Capello e Tebaldino di Guastapane, Graziano e Guastapane di Nicolò, Gepzio di Mastro e Oddone di Guitto, menzionati espressamente signori di Tolfa Vecchia, giurano il "sequitamento" del comune di Corneto. Il documento, oltre a confermare il Guastapane precedente del 1292, fa conoscere Guastapane col fratello Graziano, figli di Nicolò. Sei anni dopo, il 3 settembre, Tancredi, Tebaldino e Guastapane del fu Guastapane, Pietro di Bove, Guastapane e Angelo di Pandolfo, espressamente menzionati di Tolfa Vecchia e S. Arcangelo, giurano il sequitamento del comune di Corneto (56). Nel documento non troviamo Guastapane di Nicolò che invece ritroviamo nei documenti del 25 e 26 dicembre 1299 espressamente indicato signore di Monte Monastero e Civitella (57). E' probabile quindi che la spartizione dei castelli di Tolfa Vecchia, Monte Monastero, Civitella e S. Arcangelo fosse avvenuta tra il 1293 e il 1299 e a Guastapane di Nicolò fossero stati assegnati i castelli di Monte Monastero e Civitella. Fu la stessa spartizione dei castelli la causa della guerra che i signori di Tolfa Vecchia mossero ai loro parenti di Monte Monastero e Civitella, di cui si è già parlato in precedenza. Gli scontri si conclusero al principio del 1300 grazie all'intervento di Corneto che ristabilì la pace nel territorio tolfetano affermando nuovamente, attraverso una serie di atti, la sua giurisdizione sui vari centri.
Con i suddetti documenti terminano le notizie dei Guastapane dei monti della Tolfa mentre continuano quelle dei Guastapane in altri luoghi.
Concludiamo dicendo che le vicende della famiglia Guastapane non sono certamente paragonabili alle gesta dei prefetti Di Vico che, con la loro politica ambivalente e la loro prepotente autorità, hanno caratterizzato alcuni secoli di storia ma che mai hanno potuto fregiarsi del titolo di "conti" con il quale invece sono menzionati i Guastapane.
Le notizie appena riportate, riguardanti la famiglia Guastapane, vogliono essere semplicemente un contributo alla conoscenza di quegli uomini che hanno partecipato attivamente alle vicende storiche del territorio di cui ci stiamo interessando e più in generale a quelle dell'intero Patrimonio di S. Pietro.

3.4. Al tempo dei Guelfi e Ghibellini.

E' curioso notare come in tutti gli atti e documenti precedentemente riportati non sia mai nominato l'altro importante centro di Tolfa Nuova. Molto probabilmente i due insediamenti, così vicini topograficamente, vivevano esperienze storiche diverse. Mentre Tolfa Vecchia, assieme a tutta la parte nord-est del territorio tolfetano, entrava nell'orbita del potente comune di Corneto sottomettendosi ad esso, Tolfa Nuova continuava a vivere vicende proprie mantenendo uno stretto legame con la famiglia dei prefetti Di Vico. E' questa, senza ombra di dubbio, una delle differenze più importanti che caratterizzerà la storia dei due centri omonimi. E' attestata infatti, per tutto il periodo medievale, la presenza più o meno diretta dei prefetti Di Vico sul castello di Tolfa Nuova. Sarà questa una costante storica che iniziata nel XI secolo con la notizia di Cencio figlio di Stefano prefetto (quindi la notizia del 1074 apparterrebbe a Tolfa Nuova), terminerà nel 1435 con la decapitazione presso la rocca di Soriano di Giacomo Di Vico. Non sono note le motivazioni di tale differenza, probabilmente va imputata al controllo delle risorse minerarie ereditato dal periodo romano dall'ufficio della prefettura che poi dovette pervenire nelle mani dei Di Vico. E' per questa ragione che, trattando della storia dei monti della Tolfa, ci troveremo più volte a dover analizzare le gesta dell'importante famiglia Di Vico.
Ritornando a Tolfa Nuova c'è da dire che una prima notizia relativa a questa località, risalente al 1223, ce la fornisce il Signorelli (58) che riconosce in questo anno la chiesa di S. Maria appartenente a Tolfa Nuova.
Il primo documento in cui è espressamente nominata Tolfa Nuova risale al 1247 ed è fornito dal Theiner in quella preziosa opera che è il "Codex Diplomaticus"(59).
L'autore riporta integralmente la lettera inviata da papa Innocenzo IV (1243-1254) al prefetto Di Vico, mediante la quale lodava la sua fedeltà alla Chiesa e contemporaneamente lo esortava ad usare qualsiasi mezzo per punire e ricondurre a soggezione vetrallesi, tuscanesi e abitanti di Tolfa Vecchia, ribellatesi alla chiesa come "filii degeneri ". Al termine della lettera è aggiunto: "In e. m. nobilibus vìris Tulfe Nove "; e cioè a dire che lo stesso invito era rivolto agli uomini di Tolfa Nuova che quindi insieme al prefetto Di Vico erano dalla parte della Chiesa.
Ci troviamo nel periodo di maggior contrasto tra l'imperialismo di Federico II e la teocrazia di Innocenzo IV. Si sperava che con la nomina di Innocenzo IV i contrasti con l'imperatore si sarebbero affievoliti, al contrario si accentuarono fino a giungere ad una rottura definitiva. In tutto il Patrimonio si assisteva ad un continuo fermento tra le due fazioni. Alle iniziative intraprese dai sostenitori imperiali, capitanati dal conte Simone, governatore imperiale nel Patrimonio, si contrapponevano quelle dei sostenitori della Chiesa. A nulla valse il "parlamento" del 18 agosto 1243, indetto dal conte Simone nella città di Viterbo per terrorizzare i guelfi e i ribelli all'imperatore. Le milizie papali dirette dal cardinale Raniero Capocci e dal conte palatino Guglielmo, accorsero in aiuto dei ribelli; assediarono e presero Viterbo per la Chiesa (60). Lo stesso Federico II, intervenuto senza ottenere alcun risultato, fu costretto a ritirarsi. In tale scontro Pandolfo I dell'Anguillara, già ghibellino, fu fatto prigioniero e passò alla parte guelfa, tanto che l'imperatore lo privò del feudo dell'Anguillara che concesse al prefetto Pietro Di Vico detto, in un documento del 1244, "conte dell'Anguillara". Lo stesso prefetto, signore anche di Tolfa Nuova, inizialmente ghibellino, quando s'avvide che le cose si mettevano male per Federico II si schierò dalla parte papale, cedendo alle promesse di benefici fattegli dal pontefice. La già ghibellina Tolfa Vecchia rimase, invece, fedele all'imperatore favorendo così anche sui monti della Tolfa il formarsi di due schieramenti contrapposti, non tanto e non solo su questioni ideologiche quanto su interessi occasionali.
A seguito del comportamento di Pietro Di Vico, Federico II, uniti ai suoi soldati gente di Vetralla, Tuscania e Tolfa Vecchia, nei primi mesi del 1244 ritornò nel Patrimonio danneggiando e terrificando le terre fedeli al prefetto, tra cui Bieda e Tolfa .Nuova, ma soprattutto con l'intenzione di catturare il papa (61). Innocenzo IV promosse una serie di trattative che però andarono a vuoto e, anche se il 16 marzo scriveva ai viterbesi promettendo loro il risarcimento dei danni subiti per essere tornati alla chiesa, ebbe paura e decise di fuggire (62).
Nel quadro di queste vicende si inserisce il breve episodio del passaggio del pontefice per Tolfa in forma ben diversa da quella che vedremo in epoche successive per altri papi. Innocenzo IV aveva pensato di opporre in Italia all'imperatore una dinastia francese e a tale scopo aveva progettato di recarsi in Francia. Chiese pertanto a Genova che gli fossero mandate segretamente alcune galere a Civitavecchia, da dove si sarebbe imbarcato. La richiesta fu prontamente accolta. Quando la flotta giunse a Civitavecchia il papa si trovava a Sutri. Non appena informato, il 28 giugno 1244, Innocenzo IV "... sulle prime ore della notte, cambiati gli abiti papali in quelli di spedito cavaliere, montò a cavallo, e .forte battendo di sprone, tanto che i compagni non riuscivano a tenergli a fianco, attraversò in poche ore le giogaie della Tolfa, e la mattina appresso arrivò nelle vicinanze di Civitavecchia"(63).
Con l'appoggio di Luigi IX il papa riuscì a far svolgere, nel 1245, il concilio dove ribadì la scomunica e la deposizione di Federico II. Alla notizia, il partito guelfo del Patrimonio riprese spirito, ma a farne le spese più gravi fu Corneto. Memorabile è rimasto l'eccidio di 32 (o 33) cornetani avvenuto il 15 settembre 1245 ad opera del capitano dell'imperatore Vitale d'Aversa (64).
Ormai la guerra decisiva era pronta. Riportava il Manante: "In quest'anno Guglielmo Ildibrandino, Sig. Napoleone Orsini, Sig. Ranuccio Farnese con la cavalleria d'Orvieto e gente de Patrimonio da parte della Chiesa andarono contra la parte Imperiale, e presero Thoscanella, Corneto, la Tolfa (si deve intendere Tolfa Vecchia) e altri luoghi per la Chiesa”(65). Ai nomi prodotti dal Manente vanno aggiunti: per la parte ghibellina Vitale d'Aversa e Pandolfo dell'Anguillara di nuovo agli ordini di Federico II; per la parte guelfa il prefetto Pietro Di Vico. Esaurite le fasi militari con la vittoria dell'esercito pontificio, Innocenzo IV, il 3 maggio 1247, beneficiò i suoi partigiani con le seguenti due lettere: la prima era indirizzata a Pietro Di Vico e lodava la sua fedeltà; la seconda, dello stesso tenore della precedente, era invece indirizzata ai nobili uomini di Tolfa Nuova. Con apposita bolla del 30 aprile 1248 il pontefice invitò i signori e le popolazioni colpevoli a risarcire il prefetto, gli altri prefetteschi e la "comunità" di Tolfa Nuova (66). Ancora una volta troviamo la "comunità" di Tolfa Nuova legata al prefetto.

4. IL PAPATO AVIGNONESE E GLI SCONTRI NEL PATRIMONIO.

4.1. I prefetti Di Vico nella storia dei monti della Tolfa.

Il XIV secolo si apre così come si era chiuso quello precedente. Il 3 gennaio 1300 i signori di Tolfa Vecchia e S. Arcangelo (67) costituiscono loro procuratore Guastapane del fu Guastapane, affinché rinnovi la promessa di sottomissione al comune di Corneto. Qualche giorno più tardi, il 7 gennaio (68), Guastapane del fu Guastapane dichiara a Pietro di Oddone Di Vico, podestà del comune di Corneto e a Giovanni Silvene sindaco, di ratificare tutti i patti intercorsi in precedenza tra la comunità di Corneto e i suoi predecessori. Il documento prosegue con l'elenco degli atti stipulati in passato, iniziando con quello del 13 marzo 1201, di cui si è già ampiamente discusso. Unica novità rispetto ai precedenti atti è la sostituzione del cero, offerto ogni anno per la festa di S. Secondiano, con un palio di seta (del valore di dieci lire di denari paparini) portato da cavalli in corsa da Porta S. Pancrazio fino al palazzo del comune.
Il giorno prima era toccato ad Odduccio e Veraldo (69), figli del fu Guitto dei signori di Tolfa Vecchia, S. Arcangelo, Monte Monastero, Civitella e Rota, a giurare la sottomissione, ripetendo le formule tradizionali, al comune di Corneto per la quarta parte di detti castelli loro spettante. S'impegnavano, ancora, a donare al comune un palio di zendado rosso (dal valore di 40 soldi di denari paparini) per la festa di S. Secondiano.
Altri documenti risalenti sempre ai primi mesi del 1300 sono presenti nella "Margarita Cornetana"(70). Da un'attenta lettura di questi si deduce ancora una volta che, all'inizio del XIV secolo, Tolfa Vecchia e tutta la zona settentrionale della regione tolfetana era sottomessa alla giurisdizione di Corneto.
Tolfa Nuova appare, invece, sempre legata alla potente famiglia dei prefetti Di Vico. Lo testimoniano una serie di notizie in cui troviamo gente della Tolfa (Nuova) al seguito del prefetto Manfredi Di Vico nelle varie scorribande che egli fece nel Patrimonio.
La cronaca è ricca di avvenimenti che danno un quadro eloquente della situazione di quei tempi. Nel febbraio 1309 Manfredi Di Vico, con gente di Vetralla, Tolfa, Viterbo e Corneto, depredò 12.300 bestie tra buoi e bufali, più 5.700 pecore. Il tutto fu restituito grazie all'intervento del rettore del Patrimonio (71). Passati appena due anni ritroviamo Manfredi Di Vico, seguito dalla stessa gente, intervenire nei contrasti sorti tra i Farnese e i signori di Bisenzio per questioni di confine. Manfredi si pose in aiuto dei signori di Bisenzio contro i Farnese, i Tuscanesi e tutto il contado Aldobrandesco (72).
Ma lo scompiglio maggiore si ebbe con la nomina a vicario del rettore Gagliardo di Bernardo de Coucy, detto il Cucuiaco (1312-1317), despota rapace e violento, tutto dedito ad arricchire sé e la propria famiglia, poco o nulla curante degli interessi della Chiesa. Con esempio unico egli, rappresentante della sovrana autorità papale, preferiva, nel suo interesse, appoggiare il partito ghibellino allora imperante (73).
Tale atteggiamento fu palesato dagli scontri orvietani tra Filippeschi (ghibellini) e Monaldeschi (guelfi), quando Bernardo de Coucy si schierò dalla parte dei primi. I Monaldeschi assieme a Poncello Orsini, i Farnese, i Tuscanesi ed altri di parte guelfa assediarono la rocca di Montefiascone presso la quale il Cucuiaco si era rifugiato.(74) Quando sembrava imminente la resa giunse un grosso esercito di ghibellini, capitanati da Manfredi Di Vico assieme alla solita alleanza di cornetani, tolfetani e vetrallesi, con l'aggiunta degli Anguillara ed altri ghibellini. Il Cucuiaco fu in poco tempo liberato e una volta libero, spinto dal rancore, emanò sentenze di bando e distruzione contro tutti i guelfi del Patrimonio (75). AI contrario il partito ghibellino, al massimo della supremazia, si gettò a man bassa per far razzie e predazioni.
Un'ulteriore notizia che testimonia il legame tra il prefetto Manfredi e i signori di Tolfa risale al 1317, anno in cui i Filippeschi, Manfredi Di Vico, i signori di Tolfa e Guittuccio di Bisenzio presero Acquapendente (76). Non è specificato in nessuna cronaca quale Tolfa partecipasse a tali azioni; ma, dato lo stretto legame che sembra unire Tolfa Nuova con i prefetti Di Vico, ed in particolare con Manfredi, è plausibile ipotizzare che si tratti proprio di Tolfa Nuova.
Si spiegherebbe così, l'occupazione di Tolfa Vecchia, avvenuta nel 1322, da parte di Faziolo (o Fazio) Di Vico figlio naturale di Manfredi, il quale costrinse alla fuga i feudatari della Chiesa (77). Con quest'azione il figlio di Manfredi esordì sulla scena politica dei monti della Tolfa. Occorsero tre lettere per far desistere Faziolo. Le lettere portano la data del 6 febbraio 1322, sono inviate da Avignone da papa Giovanni XXII e sono rivolte: una al rettore del Patrimonio perché proceda contro l'invasore; un'altra a Manfredi Di Vico perché punisca l'eccesso del figlio; la terza al comune di Viterbo perché presti aiuto al rettore. Il 1 ottobre dello stesso anno Tolfa Vecchia appare restituita.
Qualche anno più tardi si registra la venuta nel Patrimonio di Ludovico il Bavaro. Ludovico scendeva a Roma per rivendicare i diritti imperiali e per farsi incoronare. Il 2 gennaio 1327 (78) fu accolto a Viterbo con grande onore da Manfredi e Faziolo Di Vico, così pure da Silvestro de' Gatti che era divenuto signore della città (Bona figlia di Silvestro era sposata con Paolino di Capello di Tolfa Nuova). Il 17 gennaio 1328 il Bavaro fu incoronato in S. Pietro.
Nell'estate dello stesso anno una parte dell'esercito tedesco, assieme a gente di Viterbo, Corneto e Tolfa Nuova, si portò contro Orvieto e Montefiascone per depredare tutto quanto fosse stato loro possibile. Ben presto, però, i buoni rapporti tra l'imperatore e i Di Vico s'incrinarono. Ciò fu dovuto al fatto che durante la sua permanenza Ludovico aveva confermato la signoria di Viterbo a Silvestro de' Gatti.
Fallita la politica del Bavaro (agli inizi di settembre Ludovico prendeva la via del ritorno) i rancori che si erano assopiti riemersero con maggiore violenza. Il rettore del Patrimonio tentò in tutti i modi di recuperare la città di Viterbo alla chiesa, scontrandosi con Silvestro de' Gatti ed i suoi sostenitori. Intervennero i due Di Vico che, grazie soprattutto alle esortazioni di papa Giovanni XXII (79), ora aderivano alla politica papale, spinti dalla cupidigia del dominare. L'intervento dei Di Vico fu decisivo. Il 10 settembre 1329 Faziolo Di Vico uccise personalmente Silvestro de' Gatti permettendo di recuperare alla Chiesa la città di Viterbo. Non appena l'esercito pontificio riacquistò le terre del Patrimonio, Giovanni XXII ordinò, con breve dato da Avignone nel 1330, al rettore e al vice rettore del Patrimonio di risarcire Montefiascone dei danni subiti ad opera della città di Viterbo, di Corneto e della " Communia Tulfe Nove, nec non domini Comunis eiusdem Tulfe Nove "(80).
Dal racconto di queste vicende si comprende, ancora una volta, come la comunità di Tolfa Nuova sia legata ai prefetti Di Vico.
Una notizia che riguarda Tolfa Nuova risale al 28 aprile 1331. Presso la rocca di Tolfa Nuova viene ratificata la pace mediante la quale i signori di Tolfa Nuova si obbligarono ad assistere Francesco e Orso dell'Anguillara, figli di Pandolfo, e questi a difenderli e favorirli. Non si conoscono le motivazioni che portarono alla ratifica di questa pace; molto probabilmente erano sorti, in precedenza, dei contrasti tra gli Anguillara e i signori di Tolfa Nuova (81).
Nel 1339-1340 si assiste ad un forte movimento di reazione contro la Chiesa sostenuto da Giovanni Di Vico a cui aderirono Tolfa Nuova e Tolfa Vecchia (82). Ben presto, però, le due Tolfe vennero obbligate con la forza a giurare fedeltà alla Chiesa. Tolfa Vecchia fu costretta all'obbedienza nel 1340 per opera del podestà di Viterbo, Nicola da Perugia e del suo scudiero Cecco. Tolfa Nuova fu recuperata dopo una "cavalcata" fatta dalle milizie pontificie che fecero prigioniero Nerio di Baldo, uno dei signori di Tolfa Nuova. Il giorno 13 novembre 1340 toccò allo stesso Nerio di Baldo e a suo figlio Pucciarello giurare fedeltà al legato pontificio, a loro nome e in nome di tutto il popolo di Tolfa Nuova. Medesima sottomissione fu eseguita il 9 gennaio 1341 dai signori di Tolfa Vecchia (83).
Intanto Giovanni Di Vico (84), con l'intento di allargare sempre di più il proprio dominio territoriale, acquistava nel 1345 il castello di Vetralla e le terre circostanti con grande spavento del papa Clemente VI; grazie anche alla disponibilità di notai propri che registravano ogni atto come appresso indicato: "ho letto in una donatione inter vivos in pergamena nella nostra cancelleria fatta di molti stabili dal medesimo Giovanni (Di Vico), sottoscritta da lui e da Giacomo suo figliolo, a Giovanni Piroto vetrallese, stipolata da Giacomo Celli della Tolfa, nella quale si asserisce che detti beni sono posti nel territorio della sua terra di Vetralla "(85).
Giovanni era al massimo della potenza militare e politica tanto che si poteva permettere di innalzare, in una piazza di Viterbo, una grande aquila imperiale che teneva tra gli artigli il guelfo Roberto re di Napoli. C'era però da fare i conti con la nuova politica portata avanti da Cola di Rienzo (86) secondo cui dovevano essere abbattute le baronie a tutto vantaggio della repubblica. Nel giro di poco tempo Cola riuscì ad ottenere l'obbedienza di tutti i baroni e di tutte le città vicine. Soltanto il prefetto Giovanni Di Vico opponeva una forte resistenza al tribuno eletto dal popolo. Si ebbero, così, una serie di scontri armati, alla fine dei quali il prefetto si impegnava all'obbedienza (87).
Verso la metà di novembre (1347) Giovanni Di Vico giunse a Roma. Conduceva con se suo figlio Francesco, al suo battesimo alle armi, e un seguito di 100 cavalieri e molti signori della Tuscia. Portava inoltre 500 some di grano da distribuire al popolo romano (88). Per festeggiare la venuta Cola lo invitò a desinare in Campidoglio assieme ad un numeroso gruppo di signori suoi fedeli. Mentre sedevano a mensa, il tribuno fece togliere le armi ed i cavalli a tutti i commensali facendo imprigionare il prefetto, suo figlio e gli altri del suo seguito. Tra gli arrestati, oltre ai signori di Farnese, Orvieto, Bisenzio ed altri figura "Lotius de Tulpha nova "(89).
L'anno successivo, mentre imperversava la peste, Giovanni Di Vico acquistò da Stefano dei Normanni il Castrum di Carcari, identificato con l'insediamento medievale di Carcari situato a nord di S. Severa, la cui destinazione era a vocazione estrattiva (90). Quasi sicuramente l'acquisto del castrum fu motivato non solo dalla politica espansionistica attuata dal prefetto, ma anche dall'interesse verso le materie prime che esso possedeva. Probabilmente è per lo stesso motivo che nel 1349 fu acquistato da Nerio del fu Tebaldo dei signori di Tolfa Nuova.
A questi stessi anni e precisamente al 1347, risale un'ulteriore conferma della dipendenza di Tolfa Vecchia da Corneto. Il 4 agosto viene nominato (in platea Sancti Egidii, come già fatto, per cerimonia analoga, il 3 gennaio 1300) il rappresentante dei signori nobili, vassalli e massari di Tolfa Vecchia che, tre giorni dopo, nel palazzo del comune di Corneto, consegnerà il simbolico palio e giurerà il "sequitamento". Prometterà, ancora, che Tolfa Vecchia farà pace e guerra secondo il beneplacito dei cornetani, come pure prometterà di accettare in S. Arcangelo il castellano da loro nominato e di adempiere a quanto stabilito nei privilegi stipulati precedentemente (91). Ma, come vedremo meglio più avanti, la giurisdizione di Corneto su Tolfa Vecchia subirà col tempo un processo di attenuazione.

4.2. La restaurazione del potere ecclesiastico: Egidio Albornoz.

Il 30 giugno 1353, dopo la tragica fine di Cola di Rienzo e del suo progetto politico, papa Innocenzo VI (1352-1362), nel tentativo di riformare l'amministrazione della Chiesa, nominò suo legato e vicario generale in Italia il cardinale Egidio Albornoz, investendolo di pieni poteri per far abbassare le ali al prefetto Giovanni Di Vico. Nella primavera del 1354 iniziarono le fasi militari, nel giro di pochi mesi l'esercito papale ebbe la meglio su quello del prefetto. Il 10 marzo fu assediata Orvieto, il 18 cadde Tuscania, 1'8 aprile Canino e il 18 Corneto. Il 7 maggio una parte delle milizie pontificie si allontanò da Corneto lasciando a controllo della città "duabus bandereis equitum" date da Arturello di Tolfa Vecchia, al quale aveva scritto lo stesso Albornoz (92). Si può dedurre che anche in questo caso le due Tolfe fossero divise: quella Vecchia parteggiava per il papa, quella Nuova per il prefetto.
Tra il 5 e il 10 giugno si arrese Giovanni Di Vico; qualche giorno più tardi (il 14 luglio) si assiste alla solenne presa di possesso di Viterbo (93). Per legittimare il successo, l'Albornoz convocò, nel luglio 1354 presso Montefiascone, un "parlamento" al quale dovettero partecipare obbligatoriamente Giovanni Di Vico ed i suoi familiari, i signori di Bisenzio, quelli di Tolfa Nuova e Tolfa Vecchia, di Monte Monastero ed altri. Tutti giurarono fedeltà alla Chiesa impegnandosi a rispettare le leggi al riguardo emanate e ad eliminare definitivamente le ideologie dei partiti guelfo e ghibellino. Il prefetto fu costretto a restituire alla Chiesa tutti i possedimenti e le città che non gli spettavano di diritto, tra cui anche Viterbo e Orvieto. Gli rimasero soltanto quei luoghi che appartenevano direttamente alla sua famiglia, tra cui il più importante era sicuramente Civitavecchia.
Il 30 settembre 1354 Giovanni Di Vico giurò fedeltà alla Chiesa per i suoi possedimenti di Bieda, Civitavecchia, Tolfa Nuova e Ancarano. Di questi ultimi, però, non era egli unico e incontrastato signore. Ci informa infatti il Calisse che lo stesso giorno giurarono: "Bracciolinus Pacis pro parte sua quam habet in Tulfanova, Iohannes Cole de Ancarana pro dicto castro ". Il giorno seguente giurarono: "Ugolinus Cole de Ancarana pro parte sua castri Ancarane pridicte quando erit in possessione, Loddovicus Sutii de Corneto pro parte quam habet in Tulfanova ".(94) Sempre il giorno seguente giurarono Pietro Di Vico, fratello di Giovanni, per la sua parte di Tolfa Nuova, Pucciarello del fu Bove e Angeluccio D'Arturello signori di Tolfa Vecchia e Orso di Zaccaria D'Arturello per una delle sei parti di Tolfa Vecchia.
Le notizie appena riportate testimoniano, ancora una volta, come Civitavecchia e Bieda appartenessero alla prefettura (ciò è attestato anche in diversi documenti) e grazie ad esse, anche se non è stato ancora prodotto un esplicito atto formale, attraverso supposizioni e deduzioni, è possibile sostenere che anche Tolfa Nuova sia appartenuta alla prefettura romana, seguendo le sorti politiche di questo ufficio.
Presumibilmente al principio del 1355 ci fu un contenzioso per il possesso di Tolfa Nuova se, il 16 marzo 1355, "laudum latum per certos arbitros... " tra Giovanni Di Vico e i Paradisi, figli ed eredi del fu Nerio di Baldo, dei signori di Tolfa Nuova. (95)
Con la morte di Giovanni di Vico avvenuta, secondo il Calisse (96), nei primi mesi del 1366, si ha la successione nella potenza e nella prefettura del figlio primogenito Francesco. Il quale, secondo quanto riportato dall'Antonelli "... seguì le orme paterne. Non appena succeduto lo vediamo infatti, in onta alle Costituzioni provinciali edificare nella rocca di Tolfa Nuova "(97). Si ha quindi, ancora una volta, la conferma che la rocca di Tolfa Nuova apparteneva ai prefetti. Il suo possesso dovette però durare poco se nel 1370 il rettore del Patrimonio Nicola Orsini Conte di Nola, recuperò Tolfa Nuova alla Chiesa spossessandone i condomini (98).
L'anno successivo, il 7 agosto 1371, la comunità di Tolfa Vecchia, rappresentata da "Pucciarello Focacciarii e Puccio di Pietro di Tolfa Vecchia, sindaci dei signori, del comune e degli uomini di Tolfa Vecchia... ", consegnava ai rappresentanti del comune di Corneto "... uno stendardo di lana scarlatta, omaggio che il popolo di Tolfa Vecchia suole fare a Corneto ogni anno, per la festa di S. Secondiano, secondo un 'antica consuetudine... "(99).
E' interessante notare come in questo documento non viene fatta nessuna parola circa gli altri impegni, primo tra tutti il "sequitamento", presenti nei precedenti atti di sottomissione. Quasi certamente ciò sta a testimoniare, come già accennato in precedenza, una diminuzione di potere del comune di Corneto a favore dell'autorità papale restaurata dall'Albornoz.

4.3. La ribellione alla Chiesa del 1375 e lo Scisma.

Con il papa ancora lontano da Roma gli abusi e i soprusi perpetrati dagli ufficiali francesi che amministravano i territori italiani appartenenti alla Chiesa, diedero occasione perché il malcontento si trasformasse in aperta e gravissima ribellione. Centro di questi moti fu la repubblica fiorentina da dove si diffuse in tutta Italia il vento di protesta.
Francesco Di Vico non perse tempo, capì subito che era l'occasione buona per ridare gloria e prestigio alla sua casa. Spronato dai fiorentini iniziò a guerreggiare per liberare il Patrimonio dal dominio ecclesiastico. Roma non aderì alla rivolta e il 9 febbraio 1376 nominò il cancelliere Giovanni Cenci, capitano generale del popolo, il quale entrò nel Patrimonio per arginare le violazioni del prefetto (100). Tolfa Nuova insieme con Civitavecchia, Viterbo e altri centri si schierò dalla parte del prefetto, il quale portò l'assedio su Corneto difeso e poi ripreso da Ludovico Vitelleschi. I ribelli della Chiesa furono dannati all'ultimo supplizio e i loro beni confiscati. Per Tolfa Nuova vengono indicati come tali Faziolo di Pietro di Capello e Carosalo di Pietro Bezochere (101).
Il 5 dicembre 1376 Gregorio XI scese in Italia e, come aveva già fatto Urbano V, scelse bi sbarcare a Corneto visto che il porto di Civitavecchia era posseduto dal Di Vico (102), al momento suo oppositore. Con la venuta a Roma di Gregorio XI Francesco Di Vico uscì dalla lega fiorentina e giunse ad un'intesa con il papa e con í romani. L'accordo di pace, stipulato il 30 ottobre 1377, in Anagni, alla presenza di Gregorio XI, prevedeva, tra l'altro, la restituzione da parte di Francesco di Trevignano della rocca di Carcari e del castello del Sasso (103). Qualche mese più tardi (il 27 marzo 1378) il papa morì. Il 18 aprile 1378 fu eletto suo successore il napoletano Urbano VI (1378-1389) al quale fu contrapposto, dai cardinali francesi, Clemente VII (1378-1394), nominato il 31 ottobre 1378. La nomina di Clemente diede vita allo "Scisma d'Occidente".
Francesco Di Vico, scontento di Urbano VI che non voleva riconoscere alcuni articoli del trattato di pace già stipulato con Gregorio XI, si schierò dalla parte dell'antipapa promettendogli il suo sostegno. Nacquero così scontri tra le due fazioni: Francesco Di Vico seguito da alcune bande di bretoni, fatti venire da Gregorio XI per combattere la lega fiorentina, e da Faziolo di Tolfa Nuova, si portò alla conquista di Toscanella e Corneto (104). Dopo alterne vicende il conflitto si concluse il 17 aprile 1384 quando l'abitato di Corneto, occupato dalle milizie della repubblica di Siena devote a Urbano VI, fu restituito alla Chiesa. "Il papa, dopo aver assolto Corneto dalle censure, vi pose come Vicario Basilio di Levanto e i beni confiscati a Faziolo di Tolfa Nuova furono concessi in feudo al suo .familiare Bartolomeo Signorini di Arezzo il quale, non potuti da lui conseguire, commutò con altri beni. (105)
Nell'aprile 1386 Francesco Di Vico, con l'aiuto dei soliti bretoni, assediò senza successo Tolfa Vecchia che fu presa invece qualche anno più tardi, precisamente 1'8 gennaio 1392, da Giovanni di Sciarra Di Vico, erede nella prefettura del cugino Francesco.Torna su
Si chiudeva così un secolo caratterizzato da una notevole frequenza di scontri armati, estesi a tutto il Patrimonio di S. Pietro, e dovuti alla lontananza del pontefice da Roma. Nei contrasti tra le varie fazioni un ruolo da protagonista fu svolto sicuramente dalla famiglia Di Vico e dai suoi rappresentanti, che, spinti da una smodata ambizione, passarono da una parte all'altra cercando di ottenere i maggiori vantaggi.
Per quanto riguarda il nostro studio è particolarmente interessante lo stretto legame riscontrato tra i prefetti Dì Vico e il territorio di Tolfa Nuova, il cui dominio era, con molta probabilità, legato in qualche modo all'ufficio della prefettura. Si spiegherebbe così il motivo per cui ritroviamo molto spesso gente di Tolfa Nuova al seguito dei vari prefetti.

5. VICENDE POLITICHE DEI MONTI DELLA TOLFA AL MOMENTO DELLA SCOPERTA DELL'ALLUME.

5.1. Tolfa Nuova, gli Orsiní, e la fine della prefettura ereditaria.

Al principio del XV secolo, nel perdurare dello scisma, quando a Gregorio XII (1406-1415) è contrapposto Giovanni XXIII (1410-1415), il Litta ci informa che quest'ultimo concesse a Giovanni Orsini il Vicariato di Tolfa Nuova, Monte Castagno, Valle Marina e Ferraria (106). Con la famiglia Orsini inizia, salvo i tentativi dei Di Vico e degli Anguillara, la giurisdizione della Chiesa su Tolfa Nuova.
Nel 1430 Giacomo Di Vico (107), figlio di Giovanni Di Vico e suo erede nella prefettura urbana e nella potenza familiare, prese Tolfa Nuova (108).
Negli scontri che nacquero nel 1431 tra i Colonna, nipoti di Martino V (1417-1431), ed Eugenio IV (1431-1447) che favoriva a loro danno gli Orsini, il prefetto Giacomo si pose dalla parte dei Colonna e decisivo fu, in favore di questi, il suo intervento nel maggio 1431 presso Monte Fogliano. Fin quando si mantenne l'unione con i Colonna, Giacomo riuscì a tenere testa alle truppe pontificie mantenendo i propri possedimenti. Ma nel momento in cui i Colonna si sottomisero ad Eugenio IV, Giacomo Di Vico rimase isolato. A nulla valse la richiesta di aiuti rivolta a Siena il 18 novembre 1431(109). Nell'inverno 1431-1432 l'esercito pontificio, comandato dal patriarca Giovanni Vitelleschi di Corneto e guidato dai capitani Nicolò Fortebraccio, Ranuccio Farnese, Everso dell'Anguillara, Menicuccio dell'Aquila, recuperò alla chiesa: Orchia, Rispampani, Bieda, Tolfa Nuova, Ancarano e Cencelle.
La cronaca c'informa che Ranuccio Farnese tolse Tolfa Nuova a Giacomo Di Vico e la saccheggiò. In breve l'esercito pontificio prese anche Civitavecchia dove Giacomo Di Vico si era rifugiato con la famiglia (110). Il prefetto si arrese e, dietro compenso di 4.000 fiorini, riparò con la famiglia presso Siena.
Nel momento in cui Eugenio IV fuggì da Roma a Firenze, per la presenza
dell'imperatore Sigismondo (accolto a Siena il 12 luglio 1432), Giacomo Di Vico riprese spirito e tornato da Siena recuperò le sue terre. L'1 agosto 1432 riprese Tolfa Nuova. I condottieri pontifici, conosciute queste notizie, strinsero immediatamente d'assedio Vetralla i cui abitanti, dopo un'eroica resistenza, chiesero aiuto a Giacomo Di Vico. "Poiché questi non aveva a dare loro che buone parole "(111), i vetrallesi trattarono la resa con il capitano pontificio Fortebraccio. Caduta Vetralla, si arresero una dopo l'altra tutte le altre comunità fedeli al prefetto. Giacomo fu costretto di nuovo a rifugiarsi presso Siena.
Accadde però, che il Fortebraccio, non essendo stato pagato dal pontefice per i servizi resigli, non volle rendere ad Eugenio IV le terre tolte al Di Vico, tanto che da alleato del papa divenne suo acerrimo nemico. Giacomo Di Vico prese ancora una volta la palla al balzo; nell'agosto 1433 partì da Siena per unirsi al Fortebraccio. L'anno successivo (1434), con l'aiuto di Nicolò della Stella, alleato del Fortebraccio, riottenne Tolfa Nuova, la fortifico e successivamente, nel novembre 1434, riuscì a difenderla dall'assedio dell'esercito pontificio comandato da Everso dell'Anguillara e Polo Tedesco Orsini. Ma per l'intrecciarsi di interessi personali, riconciliazioni e abbandoni, Giacomo Di Vico rimase di nuovo isolato e a nulla valsero le spavalde richieste d'aiuto rivolte a Viterbo (112). L'esercito pontificio al comando del cardinale Vitelleschi, avanzò deciso. Come tre anni prima Giacomo Di Vico si era ripreso Tolfa Nuova, così l'11 agosto del 1435 Dolce dell'Anguillara e Orsino, per conto del Vitelleschi (un secondo Albornoz), gli tolsero Tolfa Nuova e la distrussero (113).
Dopo il vano tentativo di riprendere Vetralla, Giacomo Di Vico fu decapitato dal Vitelleschi, il 28 settembre 1435, nella rocca di Soriano. Con la sue morte ebbe fine la potente famiglia dei Di Vico che, per diritto ereditario, aveva ininterrottamente tenuto la prefettura di Roma dal XII secolo.
Con la morte di Giacomo Di Vico, la prefettura romana venne concessa dai pontefici a loro arbitrio. Con Eugenio IV (1431-1447) venne limitata la giurisdizione del prefetto e del senatore affidando i poteri di polizia e giustizia a chi assumeva l'ufficio di vice camerlengo della Chiesa. Il 14 ottobre 1435 Francesco Orsini figlio di Giovanni, primo duca di Gravina e fondatore del ramo omonimo, fu investito da Eugenio IV della prefettura e nello stesso anno del vicariato di Tolfa Nuova, Monte Castagno, Valle Marina e Ferraria, dietro il pagamento di un censo di cento libbre di cera (114). Nella bolla è detto che quei luoghi erano appartenuti a Giacomo Di Vico e a lui confiscati. L'infeudazione di Tolfa Nuova e del suo territorio agli Orsiní fu confermata nel 1451 da Nicolò V (1447-1455) (115).
Nel frattempo erano entrati sulla scena politica dei monti della Tolfa due personaggi che tanto peso avranno nelle vicende storiche locali: Pietro e Ludovico Tingendio o d'Elassona (116). I due fratelli acquistarono nel 1435 i primi 12 trentesimi di Tolfa Vecchia; più tardi, nel 1448, i restanti 18 trentesimi, divenendo così unici proprietari di Tolfa Vecchia. Nell'acquisto era compresa anche Rota.
Con molta probabilità Ludovico e Pietro tentarono in qualche modo diacquistare anche il territorio di Tolfa Nuova, incontrando però l'opposizione del Vescovo Bartolomeo Vitelleschi. Il contrasto fu risolto dalla Sacra Rota che assegnò l'appartenenza di Tolfa Nuova al Vitelleschi, nipote del famoso cardinale. E' eloquente la lettera del 14 febbraio 1454, pubblicata dal Guerri, con la quale il magistrato di Corneto si congratulava con il medesimo vescovo per l'esito a lui favorevole della vertenza contro i signori di Tolfa Vecchia: "... ingenti maximoque gaudio... congratulamus igitur vobiscum... "(117).
Nell'anno della sua elezione Callisto III (1455-1458) confermò l'infeudazione di Tolfa Nuova agli Orsini (118). Due anni più tardi, il 31 luglio 1457, lo stesso papa concesse la prefettura al nipote Pier Ludovico Borgia; insieme a quest'ufficio trasferì al nipote prediletto il vicariato di Tolfa Nuova. Ancora una volta le sorti di Tolfa Nuova sono legate a quelle della prefettura, a testimonianza del fatto che il dominio di tale luogo spettava a codesto ufficio. Il Cola, che riporta il Contelori, così scrive: post aliquod annorum intervallum a Calisto terti Praefecti dictioni, atque imperio restituita sunt oppida: vetus Civitas... Tulphae nove... ac dominatus urbanae olim Praefectura coniuncta erant”. (119)
Nel 1458, dopo la morte di Callisto III e di suo nipote, Pio II (1458-1464) restituì Tolfa Nuova agli Orsini.

5.2. La distruzione di Tolfa Nuova.

Nel momento in cui sui monti della Tolfa avveniva l'importante "scoperta" dell'allume e iniziava lo sfruttamento a livello industriale di questo importante minerale, Everso dell'Anguillara, figlio di Dolce I, s'impadroniva violentemente di Tolfa Nuova togliendola a Francesco Orsini (120). Così riporta la notizia Niccolò della Tuccia (in Ciampi): "... nel detto mese (novembre 1460) il Duca Averso andò con le sue genti e assai maestri di pietra e altri vassalli, e pigliò la Tolfa Nuova, quale era disabitata tutta, e subito fe rilevar mura e far fortezze, e portocci assai calcina, e pigliolla, e fella guardar per lui, e questo fu per aver la tenuta e il Castello, qual si chiama Valle Marina "(121). Everso restaurò quindi la rocca, che a detta del Della Tuccia era abbandonata e la fortificò con l'intento di dominare i territori vicini.
Quasi certamente il forte interesse verso questi territori da parte di un'importante famiglia come gli Anguillara era dovuto, ancora una volta, alle ricchezze minerarie qui presenti.
Molto probabilmente la S. Sede non riconosceva i nuovi detentori del feudo se è vero che gli Orsini continuarono a pagare il censo per Tolfa Nuova, come appare dai libri "Introitus et Exitus" della Camera Apostolica, dove è scritto: "magnifico d.no Baptista Ursino, fl.10 pro valore 100 librarum (cere), pro censu Tolfenove, videlicet presentis anni & c. "; 2 giugno 1463. (122)
Nell'agosto del 1464 morì Pio II seguito, nel mese successivo, da Everso Dell'Anguillara. A Pio II successe il veneziano Pietro Barbo che prese il nome di Paolo II (1464-1471), mentre dopo la morte di Everso il suo patrimonio passò ai figli gemelli Francesco e Diofebo.
L'allume, nel frattempo, cominciava a dare i primi frutti e Paolo II, accogliendo gli intendimenti del suo predecessore, stabiliva che il prodotto delle allumiere dovesse essere interamente devoluto alla causa della lotta contro i nemici della cristianità. Contemporaneamente a questa e ad altre iniziative, atte ad una migliore organizzazione amministrativa e produttiva dell'impresa alluminifera, Paolo II si impegnò per fare in modo che la dominazione temporale sul territorio delle "allumiere" fosse esercitata direttamente dalla Chiesa. In tal senso si possono registrare una serie di iniziative, intraprese da Paolo II, per ottenere la diretta sovranità della Chiesa sul feudo di Tolfa Nuova (123). L'8 febbraio 1465 Paolo II poneva a Tolfa Nuova il primo castellano pontificio; il 16 aprile 1466 veniva ridotta la sua guarnigione da 15 a otto paghe; il 20 agosto 1467 venne designato l'ultimo castellano (124).
I grandi introiti provenienti dall'impresa dell'allume e la maggiore consistenza della massa alluminifera presente nel territorio di Tolfa Vecchia, fecero si che l'asse economico strategico, fino ad allora detenuto da Tolfa Nuova, si spostò decisamente verso Tolfa Vecchia che divenne così il centro più importante del comprensorio tolfetano (125).
Per questi motivi Tolfa Nuova subì un rapido declino, tanto che, nel 1471, Sisto IV (1471-1484), successore di Paolo II, decise la demolizione della rocca, previa consegna al castellano di Tolfa Vecchia delle suppellettili e delle munizioni. Successivamente alla demolizione del castello (126), il 12 agosto 1471, il papa ordinò la restituzione della tenuta di Tolfa Nuova, eccetto la rocca, a Marino Orsini arcivescovo di Taranto e ai suoi fratelli. Il 3 settembre successivo Orlando Orsini ne entrò in possesso (127). Da questo momento in poi si parlerà soltanto di "tenuta" di Tolfa Nuova; la quale sarà utilizzata principalmente con fini agricolo-pastorali (128).
Troveremo ancora negli anni successivi altre conferme del vicariato di Tolfa Nuova, Valle Marina, Ferraria e Monte Castagno agli Orsini (129).

5.3. La vendita di Tolfa Vecchia e la fine della signoria feudale.

Alla metà del `400, mentre Tolfa Nuova si apprestava a vivere il periodo più triste e buio della sua storia che culminerà nella distruzione della rocca (1471), facevano la loro comparsa nel territorio tolfetano due fratelli, Ludovico e Pietro (130), che in momenti successivi acquistarono la proprietà del feudo di Tolfa Vecchia, venendone in effettivo possesso nel 1448 (131).
Fu durante la loro signoria che, nei monti tolfetani, furono ritrovati abbondanti giacimenti d'allume che favorirono la nascita di un'imponente industria alluminifera.
L'utilizzazione del sottosuolo da parte del potere statale non turbò, inizialmente, i rapporti fra l'autorità ecclesiastica e i signori di Tolfa Vecchia, che furono messi a parte degli utili.(132) Anche con Paolo II, Ludovico e Pietro ottennero inizialmente gli stessi benefici, ma ben presto furono costretti a subire la volontà del papa, che intendeva assumere in diretta signoria il territorio dove si trovavano le miniere e quello circostante, per renderne totalmente sicuro e indisturbato in ogni tempo l'esercizio. L'energico Paolo II propose ai fratelli la vendita del feudo di Tolfa Vecchia ad un prezzo non conosciuto; non lo fece manifestamente ma, si direbbe, diplomaticamente valendosi dell'opera mediatrice di un tal Rocca, amico dei feudatari, al quale promise vantaggi e benefici per se e per suo figlio Domenico (133).
Ludovico e Pietro, assieme alle famiglie dei Celli e dei Mozzelli, rifiutarono l'offerta del papa, che decise allora di privarli della signoria del feudo. Alla presa di posizione dei fratelli e delle famiglie più notabili di Tolfa Vecchia, si contrappose la maggior parte della comunità, che invece era favorevole alla proposta papale. La tendenziale opposizione dei locali ai feudatari prese ulteriore consistenza allorché uno di loro, di nome Trentasoldi, d'origine corsa, che godeva nel luogo di un certo sostegno, andò da Carlo Gaetani e, asserendo di parlare per loro mandato, gli comunicò l'opposizione della comunità ai fratelli feudatari. Il Gaetani se ne piacque e riferì la cosa al papa. Questo, intenzionato a risolvere la controversia a suo favore, inviò a Tolfa Vecchia il governatore di Roma Domenico Albergati con cavalieri e fanti, ritenendo che facilmente il castello si sarebbe ridotto in suo potere.
Le cose si svolsero invece diversamente; molti tolfetani rimasero fedeli ai signori. Il governatore informò allora il papa del reale stato delle cose; ma questo, più che mai fermo nel suo proposito, inviò nuove truppe dotate altresì di una grossa bombarda. Sembra che l'assedio del castello di Tolfa Vecchia sia durato dall'8 agosto al 15 ottobre 1468, di certo fu fatto con assalti e incendi di case, con bombarde e polvere da sparo, per espugnare la rocca difesa ad oltranza dai feudatari e dai loro sostenitori.
A differenza della presa di Tolfa Nuova avvenuta tre anni prima, questa volta la peggio toccò al pontefice. Ludovico e Pietro chiesero aiuto ad Orso Orsini, duca di Ascoli, padre di Agnese moglie di Ludovico e capitano generale dell'esercito del re di Napoli (134). A seguito della richiesta d'aiuto le milizie napoletane, di ritorno da una vittoriosa azione in Toscana a favore dei Medici, si diressero verso Tolfa Vecchia (135). Tanta fu la paura di Paolo II, che ordinò il ritiro delle truppe pontificie dall'assedio e, temendo l'entrata in Roma dell'esercito napoletano, nascose i tesori in Castel S. Angelo pensando persino di fuggire da Roma.
Il conflitto militare sfociò in una soluzione concordata grazie anche all'intervento di un altro Orsini, Napoleone, capitano generale della Chiesa. Evidentemente il papa volle evitare i danni e le incognite di un'ulteriore lotta armata, così come i due fratelli Ludovico e Pietro dovettero comprendere che, per effetto della nuova realtà creatasi nel territorio, il pieno dominio della Chiesa era inevitabile.
Fu così raggiunto l'accordo per la vendita alla Camera Apostolica del feudo di Tolfa Vecchia. L'atto fu stipulato in data 2 giugno 1469 (136); la somma che il pontefice pagava ai due fratelli per l'acquisto era di 17.300 scudi d'oro, anticipata dal banco mediceo. Cessava in questo modo la signoria feudale a Tolfa Vecchia. Ludovico e Pietro lasciarono Tolfa Vecchia e andarono a stabilirsi nella contea del Serino, nel regno di Napoli, ove acquistarono il titolo comitale aggiungendo al loro nome il predicato della terra già posseduta; diversi sono, infatti, i "Frangipani della Tolfa" con i quali lo storico s'imbatte nel corso dei secoli seguenti.
Con il forzato acquisto, Paolo II poteva ora disporre liberamente del feudo e delle miniere e, come aveva fatto precedentemente per Tolfa Nuova, il 20 giugno 1469, nominava il primo castellano pontificio di Tolfa Vecchia nella persona di Ludovico Boschetti, con il quale terminava l'egemonia feudale e iniziava il diretto dominio dello Stato Pontificio sui monti della Tolfa.
Dopo le distruzioni causate dall'assedio, la rocca di Tolfa Vecchia sarà ristrutturata nel 1472 (137) e nel 1489. Nel 1502, per volontà di A. Chigi, Nicolò Segardi farà trasportare í pezzi di artiglieria della rocca a Porto Ercole e Talamone, provocando così l'iniziale smantellamento. Nel 1532 la rocca doveva essere già in rovina se Annibal Caro, in un suo sonetto tanto spiritoso quanto sarcastico, la definisce "un pezzo di sfasciume ".

5.4. I Frangipani della Tolfa.

Quella dell'appartenenza dei due fratelli Ludovico e Pietro alla famiglia Frangipani è stata e continua ad essere un'appassionante questione storica, cui a tutt'oggi non è stata ancora data una risposta certa. Di sicuro il nome di questa famiglia è rimasto fortemente impresso nella tradizione locale. Ancora oggi quello che rimane del castello medievale di Tolfa continua ad essere chiamato, dagli abitanti del luogo e da coloro che vengono in visita al paese, "Rocca dei Frangipani".
In questi ultimi anni sta però emergendo una critica abbastanza documentata, che metterebbe in dubbio la reale appartenenza dei due fratelli alla famiglia suddetta. Il dubbio nasce dal fatto che in tutti i documenti in cui questi sono menzionati, alcuni dei quali particolarmente interessanti, non è mai aggiunto il nome della casata Frangipani. Bisogna notare come già in passato, alcuni importanti storici avevano fatto osservazioni simili. Primo tra tutti lo Zippel che così scriveva nella sua opera: "Osserviamo che Lodovico ebbe la contea di Serino soltanto dopo il 1469, come è detto più innanzi; e che nei documenti non abbiamo mai incontrato il casato dei Frangipani unito al nome dei signori di Tolfavecchia". (138) Lo stesso Morra, che accettava con qualche titubanza l'appartenenza di Ludovico e Pietro ad un ramo della famiglia Frangipani, affermava che nei documenti non appariva il casato (139). Ultimo, in ordine di tempo, ad intervenire sul problema è stato Cola, che di recente ha fatto osservare che i Frangipani della Tolfa non avevano nessun rapporto di parentela con i Frangipani di Roma dei secoli precedenti (140).
Veniamo ora all'analisi dei documenti a nostra disposizione con la speranza di fare un po' di chiarezza sul problema. Il primo su cui vorremmo porre la nostra attenzione, è l'atto con cui Nicolò V (1447-1459) conferma l'infeudazione della rocca di Tolfa Vecchia ai fratelli Ludovico e Pietro, dove è scritto Ludovico e Pietro Tingenduce "alias elsonia'' (141). Altre testimonianze sono successive alla scoperta dell'allume e attestano la partecipazione dei due fratelli ad una parte degli utili dell'impresa. Il 22 giugno 1462, con apposita bolla emessa da Viterbo, Pio II nominava i fratelli Ludovico e Pietro suoi scudieri onorari e commensali continui concedendo anche un salvacondotto per gli stati della Chiesa (142).
Il 6 aprile 1463 furono pagati 180 ducati a "magnifico d.no Petro de la Tolfa ad custodiam aluminis deputato, in deducionem sue provisionis "(143). Il 21 novembre 1464 si ha un nuovo pagamento di 30 ducati a "m. cis d. nìs Ludovico et Petro de Tulfaveteri, pro eorum salario trium mensium "(144). In occasione delle feste natalizie dello stesso anno si pagarono 500 fiorini a "Ludovico et Petro de Tulfaveteri: qui ipsis donantur pro locanda seu maritanda filia petri predicti "(145).
Dopo questa carrellata di notizie relative ai vari pagamenti fatti dalla Camera Apostolica ai fratelli di Tolfa Vecchia arriviamo ad un documento estremamente importante. Ci riferiamo all'atto con cui fu venduta, il 2 giugno 1469 (146), Tolfa Vecchia alle autorità camerali. Sembra strano che, in un documento ufficiale di tale rilevanza, i due fratelli Ludovico e Pietro non siano stati indicati col nome Frangipani se realmente appartenenti al suddetto casato.
Da questa sommaria analisi si può quindi affermare che nel breve periodo in cui Ludovico e Pietro dominarono su Tolfa Vecchia non furono mai chiamati col nome di Frangipani. Di certo non può essere questa una semplice coincidenza; così come non è una coincidenza il fatto che, dopo l'abbandono del territorio tolfetano e l'acquisto della contea del Serino, i due fratelli mantennero il predicato di "Tolfa Vecchia". Sarebbe, a questo punto, molto interessante capire e spiegare il motivo per cui i loro discendenti furono indicati con il predicato di "Frangipani della Tolfa". Molti sono, infatti, i Frangipani della Tolfa con cui lo storico s'imbatte; ultima in ordine di tempo è quella Francesca Frangipani della Tolfa, maritata con un Orsini e madre del papa Benedetto XIII (1724-1730), con la quale si estinse la famiglia. In realtà, alla luce delle notizie a nostra disposizione, è praticamente impossibile arrivare ad una conclusione certa. Pertanto, in attesa di uno studio più approfondito e di qualche documento chiarificatore, ci sembra giusto rimarcare come nulla di ciò che è contenuto negli scritti sopracitati, riguardanti Ludovico e Pietro, fa pensare ad una loro appartenenza o parentela con i Frangipani di Roma.

5.5. Lo sviluppo urbano di Tolfa Vecchia e le conseguenze dell'industria dell'allume sulla topografia della regione tolfetana.

Con lo sviluppo della grande impresa alluminifera e la fine della signoria feudale, un'altra era si apriva per la regione tolfetana e in particolare per Tolfa Vecchia, divenuta ormai centro di vasti interessi e punto di confluenza di funzionari, di imprenditori, di operai, di gente che in vario modo era interessata alla nuova impresa.
Cessata la signoria feudale era iniziata, sul territorio tolfetano, la dominazione diretta della Chiesa. A partire dal 1469, l'autorità di governo fu rappresentata a Tolfa Vecchia da un chierico di camera. A custodia della rocca fu nominato un castellano pontificio (20 giugno 1469); furono eseguiti restauri e rafforzamenti alle strutture, e, due anni dopo, vi furono trasportate le suppellettili e le munizioni della demolita rocca di Tolfa Nuova.
Non mancò ai tolfetani la comprensione e l'aiuto dell'autorità papale per le sofferenze e i danni patiti durante lo scontro armato tra l'esercito pontificio e i feudatari. Con breve datato 15 settembre 1471 (147), Sisto IV accordava alla comunità di Tolfa Vecchia sgravi tributari e condonava i debiti. Nello stesso documento il pontefice approvava e confermava tutti gli statuti, i privilegi e le concessioni di cui la comunità era stata in precedenza dotata. Sarebbe estremamente interessante avere a nostra disposizione questi documenti per meglio conoscere e comprendere gli aspetti e le strutture della vita del paese, nel periodo antecedente al suo passaggio diretto alle dipendenze della Camera. Purtroppo a tutt'oggi nessuna testimonianza di questo genere è a noi pervenuta. Abbiamo invece a nostra disposizione una serie di norme, riguardanti soprattutto l'agricoltura e la pastorizia, emanate nel 1523 e, ancora più importante, lo statuto comunale, deliberato e messo in atto nel 1530, che ci aiutano a comprendere la vita del luogo nella prima metà del Cinquecento (148). Appare chiaro, da questi documenti, che oltre all'attività estrattiva, che non si limitava al solo allume ma interessava anche altri minerali, anche l'agricoltura e la pastorizia prosperavano.
Se l'importanza che Tolfa Vecchia aveva assunto in conseguenza della scoperta del prezioso minerale aveva avuto sicuro peso nella concessione dello statuto, anche lo sviluppo sociale, demografico ed edilizio vi aveva certamente influito. Il Morra, che riprende il Mignanti, ci informa che nella prima metà del Cinquecento la popolazione di Tolfa Vecchia non doveva essere inferiore a 1570 persone, molte delle quali dovevano provenire dai centri limitrofi pochi anni prima distrutti; primo tra tutti Tolfa Nuova (149). Con l'aumento del numero degli abitanti, lo sviluppo edilizio aveva proceduto con razionalità di indirizzi e in forme tali che anche all'osservatore di oggi sembra potervi rilevare il riflesso di un diffuso benessere. Nel corso del XVI secolo l'abitato si sviluppò talmente tanto che la parte di esso esterna alle mura era, di sicuro, più vasta di quella interna. Ma lo sviluppo del paese non fu ragguardevole soltanto sotto l'aspetto quantitativo ma anche qualitativo. Nei confronti delle modeste casupole che costituivano il vecchio centro, il nuovo abitato si presentava con caratteri di ben diversa dignità: basta tener presente il palazzetto appena fuori le mura, dove ebbe poi sede il Comune, dall'elegante cortile in pura linea rinascimentale. Con ogni probabilità fu questo il primo di una serie di edifici che, costruiti lungo la cosiddetta "strada delle botteghe" (odierna via Annibal Caro), diedero al paese quel decoro che ancora oggi può essere ammirato.
Nel quadro di questi generali sviluppi possiamo comprendere alcune opere pubbliche che riflettono il forte sentimento religioso dell'epoca. Prima grande costruzione fu la chiesa della Madonna della Sughera, eretta agli inizi del Cinquecento per volere di A. Chigi allora appaltatore delle vicine miniere di allume (150). La chiesa aveva in origine la forma di un cappellone ottagonale, con al centro un tabernacolo di pietra artisticamente scolpito e decorato. Successivamente, nella seconda metà del secolo, fu aggiunta l'aula rettangolare che diede alla struttura la forma attuale. Accanto al santuario fu eretto un convento dove furono chiamati a risiedere religiosi agostiniani provenienti dal non lontano convento della Trinità.
Nei primi decenni del Seicento, invece, si poneva in evidenza il problema della chiesa parrocchiale di S. Egidio ormai vecchia, non del tutto sicura e assolutamente insufficiente ad accogliere l'accresciuta popolazione (151). L'alternativa era ingrandire la chiesa esistente o costruirne una nuova. Fu scelta la prima ipotesi e il vecchio S. Egidio fu ampliato e strutturato in tre navate: ciò avveniva attorno al 1630. Qualche anno prima dei lavori ora accennati erano sorti la chiesa e il convento dei cappuccini. Nel 1647 fu edificata la chiesa dedicata alla Madonna di Cibona che, secondo la tradizione, doveva accogliere l'immagine fatta dipingere il secolo precedente da A. Chigi e contenuta in un edicola situata nei pressi delle cave di allume (152).
Contemporaneamente alla costruzione di questi edifici religiosi, che bene testimoniano il notevole sviluppo economico ed urbanistico di cui Tolfa Vecchia fu protagonista nel secolo successivo alla scoperta dell'allume, sorgevano nel territorio tolfetano nuovi centri abitati situati in posizione strategica rispetto alle cave di allume. E' il caso del piccolo centro de La Bianca e di quello più importante di Allumiere.
Per quanto riguarda l'abitato de La Bianca c'è da dire che questo è nominato per la prima volta nella seicentesca lettera di F. Zenobi, eremita del convento di Cibona, inviata a papa Alessandro VII (un Chigi). Da quanto riportato nel testo, sembrerebbe che l'origine di questo centro si possa far risalire al periodo in cui il Chigi era appaltatore delle lumiere; quindi all'inizio del XVI secolo. Lo stesso Chigi doveva risiedere a La Bianca (153).
Contemporaneamente a La Bianca sorgeva l'altro centro chiamato in origine Monte Roncone, dall'altura che lo sovrastava, poi denominato Allumiere (154). Nel nuovo villaggio furono costruiti edifici per la lavorazione dell'allume, grandi magazzini, locali per gli attrezzi. Furono migliorate le strade e costruite confortevoli abitazioni per gli operai. Il piccolo villaggio di Allumiere, che dopo la morte di A. Chigi ebbe un periodo di stasi dovuto principalmente ad una breve recessione dell'attività mineraria, riprese il suo sviluppo alla metà del Cinquecento. Nel 1584 fu portata a termine la costruzione del "Palazzo del Governo" poi "Palazzo Camerale", voluto da Gregorio XIII con l'intento di installarvi la direzione dell'impresa e un dignitoso alloggio per l'appaltatore, il governatore e per le personalità che di frequente venivano ad Allumiere. Fino a quel momento, infatti, i vari appaltatori avevano alloggiato a Tolfa Vecchia, dove avevano fatto edificare le loro residenze che ancora oggi possiamo ammirare. Successivamente alla costruzione del Palazzo Camerale il paese si dilatò attorno a questo, ottenendo un'autonomia sempre più marcata.
Ciò che abbiamo appena riportato riguardo la nascita dei centri di La Bianca e Allumiere ci induce ad una interessante considerazione: lo sviluppo dell'industria alluminifera aveva provocato nella regione tolfetana una profonda trasformazione dell'assetto urbanistico del comprensorio. Nuovi centri erano sorti e si erano sostituiti ad altri che nel contempo erano stati distrutti e abbandonati, un esempio su tutti: Tolfa Nuova. Questo cambiamento fu causato, innanzi tutto, dal forte interesse che l'impresa dell'allume calamitò intorno a se, condizionando in senso negativo il progresso delle altre attività minerarie. Considerando che le mineralizzazioni alluminifere erano presenti principalmente nella parte settentrionale del bacino minerario tolfetano, sembra scontato uno spostamento verso questa zona dell'asse economico e conseguentemente del popolamento.

LO SFRUTTAMENTO DELLE RISORSE MINERARIE SUI MONTI DELLA TOLFA.

Dopo aver ricostruito, con non poche difficoltà, una sintesi storica relativa alla regione tolfetana, finalizzata a collocare in una opportuna dimensione le diverse attività estrattive, inizieremo l'interessante analisi dello sfruttamento delle risorse minerarie dei monti della Tolfa. Verrà presa in considerazione non soltanto la famosa industria dell'allume, ma anche tutte quelle attività minerarie che, nel corso di vari secoli, si svolsero in questi luoghi, alcune delle quali precedenti alla più nota impresa alluminifera.
E' ormai storicamente accertato che l'industria alluminifera sia stata la più grande impresa estrattiva in campo europeo, almeno per ciò che riguarda il periodo tardo medioevale e rinascimentale. Sviluppatasi sul finire del Medioevo e proseguita fino al XIX secolo, avrà un peso importante nel sistema economico del tempo. Accanto ad essa, però, non può essere dimenticata l'attività per l'estrazione degli altri minerali che si riconosce operante almeno a partire dalla Protostoria. D'altronde, così come è avvenuto per l'allume, così le risorse metallifere hanno fatto accendere i forni fusori nell'epoca antica, mentre nel Medioevo è una realtà storica la presenza della Rocca di Ferraria. L'estrazione del ferro è documentata dal XIII secolo, in epoca umanistico-rinascimentale, fino a raggiungere l'era moderna. Le varie interruzioni sulla sua continuità sono state determinate da motivi economici e logistici. In pratica sui monti della Tolfa sono stati operati due grandi processi estrattivi: quello dell' allume e quello delle risorse metallifere.
Lo studio non seguirà un ordine cronologico ben preciso; cominceremo infatti la nostra analisi proponendo una breve parentesi sull'utilizzo delle risorse durante l'antichità. Proseguiremo con la trattazione delle importanti vicende riguardanti l'impresa alluminifera, con particolare attenzione ai periodi tardo medievale e rinascimentale, per terminare con le notizie sullo sfruttamento degli altri minerali e metalli.

A) BREVI CENNI SULL'UTILIZZO DELLE RISORSE MINERARIE DI TOLFA NELL'EPOCA ANTICA.

La grande varietà mineralogica presente sui monti della Tolfa è stata ampiamente descritta a partire dal XVI secolo ad opera di naturalisti e viaggiatori che hanno lasciato scritti e cartografie sulla natura e topografia dei giacimenti, unitamente a resoconti sulle tecniche di coltivazione e trattamento dei minerali. Bisogna specificare, però, che gran parte di tali studi riguarda quella che è stata la più grande impresa estrattiva dei monti della Tolfa, e cioè l'industria dell'allume, iniziata nel XV secolo e terminata quattro secoli più tardi. Ad essa si deve principalmente l'importanza storica di questi luoghi. Per molto tempo si è ritenuto che la coltivazione dell'allume fosse stata l'unica attività estrattiva presente sulle colline tolfetane durante il Medioevo.
Oggi si è ormai giunti alla convinzione che l'impresa alluminifera non fu la sola attività mineraria praticata nella zona; accanto ad essa, ne sorse un'altra, quella degli altri minerali, poco conosciuta, minimamente valorizzata, ma che è stata invece la prima documentata. Pertanto inizieremo la trattazione riguardante lo sfruttamento delle risorse minerarie sui monti della Tolfa cercando di ricostruire, il più esattamente possibile, un quadro storico che faccia una qualche luce sulle attività minerarie che si svolsero in questi colli durante tutte le epoche ad iniziare da quella antica. Nei testi antichi, o per lo meno nelle opere pervenuteci, non abbiamo trovato testimonianze dirette dello sfruttamento delle risorse minerarie e della loro commercializzazione nell'antichità. Tuttavia, a seguito degli studi e della risultanze archeologiche, è ora possibile tracciare un preliminare profilo storico delle testimonianze minerarie partendo appunto dalle epoche più antiche fino al Medioevo.
Le prime testimonianze archeologiche in questo senso risalgono al periodo Protostorico, al quale appartengono i noti ripostigli de "le Coste del Marano ", di "Monte Rovello ", di "Rota" e de "le Vignacce "(155). Gli oggetti in bronzo qui ritrovati, in tutto più di 140 pezzi, alcuni dei quali esposti presso il Museo Pigorini di Roma, testimoniano la grande conoscenza delle tecniche e le ottime capacità artistiche dei bronzisti operanti sui monti della Tolfa.
Sempre grazie alle ricognizioni sul campo e alle ricerche archeologiche si è giunti ad osservare come, in epoca Protostorica, il territorio tolfetano fosse così densamente popolato tanto che ad ogni collina corrispondeva un piccolo centro abitato. Di tali centri, che testimoniano il preludio di quella che sarà la topografia medievale, non restano che pochi frammenti di ceramica.
Altra considerazione di notevole interesse è che la maggior parte di questi siti d'altura è posizionata nelle vicinanze dei bacini minerari come se avesse la funzione di proteggerli, o di limitarne l'accesso; di certo documentano il loro sfruttamento. Un esempio su tutti è "la Castellina": insediamento protostorico posizionato lungo il corso del Marangone a sud delle pendici dei monti della Tolfa.. Il Colasanti dimostrò che questo risale al periodo pre-etrusco (bronzo antico, protovillanoviano e villanoviano) e corrisponde al noto "Castrum Inui "(156). Secondo il Pareti, che riporta le testimonianza del Colasanti, "Castrum Inui era un centro abitato fortificato che gli abitanti italici della regione costruirono, all'inizio dell'età del ferro, per controllare la zona delle miniere della Tolfa, e per concentrarvi il materiale ricavato, il quale poteva essere inoltrato, o per via terra o caricato su barconi attraccati alla foce del Marangone che poteva servire per l 'imbarco "(157). Da tale affermazione si può dedurre che "la Castellina" è stata la prima finestra sul mare delle risorse minerarie dell'entroterra. Il tutto è convalidato dalla presenza di scorie di fusione rinvenute durante gli scavi archeologici e in superficie dopo le intemperie (158).
Oltre al torrente Marangone un'importante via d'accesso all'entroterra era di certo il fiume Mignone (159) che, essendo stato navigabile per il tratto finale, permetteva di raggiungere con piccole imbarcazioni a remi i centri abitati dislocati lungo il suo corso; primo tra tutti l'abitato di Luni dove sono stati ritrovati frammenti di ceramica micenea (160). La presenza dei commercianti egeo-anatolici, provenienti da lidi così lontani, può essere spiegata soltanto con la forte attrazione che le ricchezze minerarie costituivano in quel tempo e con la necessità del loro reperimento.
Altra importante via di comunicazione fluviale fu sicuramente il corso d'acqua denominato Rio Fiume, il quale permetteva di raggiungere l'entroterra tolfetano e di conseguenza i bacini minerali. Secondo quanto asserito da Berardozzi, Cola e Galimberti (161), la denominazione Rio Fiume non sarebbe altro che la conseguenza della corruzione dell'originario nome latino "Heri-Flumen ", che potrebbe significare "fiume del rame", vista la probabile derivazione del termine Heri dal vocabolo latino "aes-aeris" (= rame) come pure "aerarius" (= di rame). Non casualmente nell'alveo dello stesso torrente, in località "Tufarelle", sono state rinvenute alcune "aes rude".
Per quanto riguarda l'ipotesi dello sfruttamento delle risorse offerte dal territorio tolfetano da parte degli Etruschi si hanno opinioni discordanti. Qualcuno ha ritenuto che gli insediamenti presenti sulle "castelline" tufacee dei monti della Tolfa fossero a vocazione prettamente agricola-pastorale; altri, invece, hanno affermato che gli etruschi utilizzarono ampiamente le ricchezze minerarie offerte dalle colline dell'entroterra cerite-tolfetano, rastrellando in particolare i minerali nobili quali oro, argento, ma anche ferro, allume, rame, cinabro, galena, ocre e cristalli di quarzo (detti diamanti di Tolfa). Al riguardo è lunga la serie degli autori che hanno sostenuto questa tesi; tra i tanti nomi illustri ricordiamo: M. Pallottino, M. Torelli, S. Steingraber (162).
Per fornire un'ulteriore convalida a quanto è stato detto, riportiamo le parole di L. Banti (163): "... il possesso della zona metallifera di Tolfa ed Allumiere spiega la ricchezza di Cere, il suo sviluppo commerciale e artistico, perché nell'antichità, come ora, i metalli erano la ricchezza di un popolo e il più diffuso articolo di scambio... "; e ancora la testimonianza fornita da W. Keller (164): "Ricerche archeologiche condotte in loco non lasciano dubbi: le tracce di una prima attività mineraria risalgono a epoca Villanoviana "; più oltre (165): "presso Tolfa e la vicina Allumiere, ricche di ferro, piombo e zinco, gli scienziati si imbatterono nelle antichissime tracce di un'attiva miniera, e scoprirono numerosi pozzi nelle cui vicinanze ancora si ammassavano i resti dei minerali metallici estratti".
Per concludere le osservazioni sul periodo Etrusco, aggiungiamo che, secondo il Mondini (166), gli Etruschi, dopo la combustione per la produzione del ferro, distruggevano il forno, battendo la massa di metallo raccolta sul fondo, per cui ritrovare una testimonianza archeologica dell'epoca sarà impresa estremamente ardua.
Anche per l'epoca romana ci sono ipotesi contrastanti. Alcuni studiosi hanno escluso lo sfruttamento dei giacimenti metalliferi, altri, invece, lo hanno asserito così categoricamente da ritenere che il ferro tolfetano sia stato il rifornimento romano durante le guerre Puniche (forse la prima).(167)
Certo è che le testimonianze antiche non ci forniscono notizie certe, possiamo però fare qualche interessante considerazione. Prima di tutto si può notare come tante sono le ville romane dislocate nel comprensorio tolfetano, collocabili in periodi diversi (repubblicano, imperiale, barbarico). Alcune, specialmente quelle situate lungo la parte finale del fiume Mignone, avevano di certo una funzione agricola, come è convalidato dal rinvenimento di numerose basi di torchi di pietra (torcularium); altre, invece, avevano una posizione strategica rispetto al bacino minerario che ha fatto pensare ad una loro stretta connessione con lo sfruttamento delle cave di allume e di altri minerali.
Un insediamento è particolarmente importante in questo senso: quello de "La Fontanaccia", nei pressi della Tolfaccia (località dove sorgeva la medievale Tolfa Nuova). Lo scavo di questo sito, eseguito dai Gruppi Archeologici, non è ancora completato. Fino ad ora è emersa una anomala villa d'epoca imperiale. E' da tener presente che in tutta l'area circostante sono visibili altri ruderi romani. Sono questi i ruderi del tanto discusso "Foro di Claudio" ? Per ora l'interrogativo resta senza risposta, forse l'ultimazione dei lavori di scavo ci fornirà maggiori informazioni. Molto interessante per il nostro studio è invece il fatto che durante le diverse campagne di scavo sono state recuperate anche numerose scorie di fusione che dimostrerebbero lo sfruttamento del minerale di ferro (168). E ancora sarebbe interessante fissare la datazione della strada romana posta alle "Canepine" (Via Cornelia ?) e ricercare le motivazioni economiche e logistiche che spinsero i romani a costruire una strada della larghezza media di metri 2,70 che valicava i monti della Tolfa costeggiando il bacino minerario.
Molti sono gli studiosi che hanno posto la loro attenzione sulle questioni che stiamo analizzando, riportiamo qui qualche testimonianza.
Per primo citiamo il Ponzi che vide a Poggio Capanna "... filoni di ferro dove erano riconoscibili le antiche lavorazioni... ", al Campaccio "... antiche lavorazioni per l'estrazione del minerale ferroso... " e infine lungo il fosso Lenta vide alcuni forni per la fusione del ferro (169). Dopo di lui il Lotti sostenne di aver individuato "antichi lavori di ricerca di solfuri metallici nel fosso delle Carriole e in quello successivo più ad oriente ciotoli di galena, uno dei quali di antica data perché ricoperto da una patina grigiastra" e ancora presso la "Cava Grande" al Poggio della Stella antiche escavazioni per l'estrazione del piombo (170). Lo Zippel (171) riporta tracce di escavazioni di filoni di ferro di epoca remota presso la Roccaccia. A queste autorevoli testimonianze vorremmo aggiungere alcune osservazioni che non forniranno la tanto ricercata chiave di lettura del problema ma aiuteranno in qualche modo la sua risoluzione.
La prima riguarda il fatto che molti studiosi hanno generato confusione ipotizzando che l'ematite erratica che si trova sui monti della Tolfa provenga dalle miniere elbane, quando invece appartiene a questo territorio; la seconda deriva dalla constatazione che le lavorazioni dell'industria alluminifera e degli altri minerali, avvenuti durante il Medioevo, hanno cancellato la maggior parte delle testimonianze del passato, modificando lo stesso aspetto morfologico del territorio.
Prima di aggiungere qualche considerazione finale riportiamo alcuni versi dell'Eneide di Virgilio (libro VIII, v. 597, 605), da cui, senza pretesa di certezza e con un po' di elasticità, si possono riconoscere i luoghi della nostra trattazione se non addirittura gli scavi delle miniere:

E' di Cere vicino, appo il gelato suo
fiume, un sacro bosco antico e grande
d'ombrosi abeti, che da cavi colli (172)
intorno è cinto, venerabile molto e di
gran lunge. E' fama che i Pelasgi, primi
del Lazio occupatori esterni, a
Silvano, Dio dei campi e degli armenti,
consecrar questa selva, e con solenne
rito gli dedicar la festa e `l giorno.
Quinci poco lontano era Tarconte co'
Tirreni accampato; e qui del campo
giunti alla vista, là `ve un alto colle lo

scopria tutto, Enea coi primi suoi fermossi.
(Traduzione di Annibal Caro, che nel sec. XVI soggiornò a Tolfa)

Detto questo possiamo concludere che anche se non siamo in possesso di un documento chiarificatore che ci dia la certezza assoluta dello sfruttamento delle risorse minerarie nell'antichità, si può comunque affermare, con una certa sicurezza, che la coltivazione dei minerali nel territorio tolfetano è stata una costante storica, iniziata in epoca lontana e proseguita, a fasi alterne, durante tutta l'antichità. Questa attività si protrarrà poi, con più o meno frequenza, per tutto il Medioevo fino ad arrivare alle note vicende relative alla grande impresa dell'allume, iniziata nella seconda metà del XV secolo e portata avanti per quasi quattro secoli. Oltre a ripercorrere le importanti tappe che caratterizzarono l'attività delle "allumiere" tolfetane, sarà interessante affrontare uno studio su quello che fu lo sfruttamento dei minerali metallici durante il Medioevo; sfruttamento che, come appare in una serie di testimonianze e dalla presenza di un insediamento chiamato non a caso "Ferraria", ebbe inizio prima dell'industria alluminifera e continuò fino a tempi recenti, ma la cui importanza storica è stata offuscata dalla rivale e più imponente coltivazione del minerale d'allume.
Sarà nostra intenzione riprendere e analizzare quei documenti e quelle notizie concernenti lo sfruttamento dei vari minerali finora trascurati, onde divulgare e porre sulla bilancia della storia il loro peso effettivo ed il ruolo svolto nel passato.

B) L 'ALLUME DI TOLFA TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO.

1. L'ALLUME E LA SUA IMPORTANZA.

L'allume è un solfato doppio di alluminio e potassio, si estrae dal suo minerale che si presenta in vari colori e che è chiamato in diversi modi: allumite, alumite, allunite, alunite, ma probabilmente la dicitura più corretta è aluminite. Se, infatti, la sua etimologia latina è "alumen=che risplende" di conseguenza, il minerale dovrebbe chiamarsi aluminite. Tutti questi appellativi hanno comunque un comune denominatore che consiste nell'autentico significato "che risplende". Il nome della cittadina romana di Luni sul Magra potrebbe avere la medesima origine con la differenza che a splendere non è l'allume ma i bianchi marmi, noti per essere stati cavati e utilizzati sin dall'antichità. Seguendo lo stesso ragionamento anche il nome della protostorica, poi etrusca, poi romana cittadina di Luni sul Mignone dovrebbe avere la medesima origine. Ma questa volta a risplendere dovrebbe essere stato l'allume che spinse i Micenei a risalire il fiume Mignone alla ricerca del minerale, dando il via ai rapporti commerciali con gli abitanti dei monti della Tolfa. (173)
L'allume allo stato naturale si può trovare in filoni più o meno lunghi come pure misto alla roccia alluminifera, che dopo essere stata fatta bollire nelle caldaie di bronzo, seguendo un preciso procedimento, restituisce magnifici cristalli; non a caso i monti della Tolfa sono perforati da lunghe gallerie e sono sventrati da gigantesche quanto spettacolari trincee che le colonie floristiche tentano di rimarginare.
Prima di addentrarci nelle vicende riguardanti la scoperta dell'allume sui monti della Tolfa, la sua produzione, il suo commercio, è bene fare un passo indietro per chiarire la preziosità di questo minerale in epoca medievale e l'importanza del suo ritrovamento in Occidente, specialmente dopo la chiusura dei rapporti commerciali con l'Oriente. Una serie di documenti ci informano su come l'allume fosse necessario a più settori produttivi ed in modo particolare a quello tessile, dove veniva usato per fissare i colori sulle stoffe. Per questo, senza l'allume, tale attività avrebbe subito un grave danno con conseguente crisi nell'economia tardo medievale.
Nel XVI secolo V. Biringuccio scriveva: "l 'allume è necessario ai tintori quanto il pane all'uomo." (174) Due secoli dopo il gesuita S. Breislak descriveva i diversi impieghi dell'allume: "Entra nella composizione di numerosi rimedi farmaceutici ed è spesso usato nelle arti e nella economia domestica unito al sego rende le candele più consistenti dà corpo ai pastelli dei pittori, serve per imbianchire l'argento, per inargentare il rame, preparare il cuoio, e per altri infiniti usi. E' necessario nella composizione dell'azzurro di Berlino, e delle tinte nelle quali dispone le sostanze, che si vogliono colorire, corrode leggiermente la loro superficie, dilata i pori, e somministra una favorevole base alle particelle coloranti, che fissa ne' corpi. Si potrebbe ancora adoperare con vantaggio nel preservare le carte, ed i legni dall'attività del fuoco. Ammiano nel lib. XX narrando gli sforzi inutili de' Persiani nel lanciare il fuoco contro le macchine de' Romani, ne assegna la causa nell'essere state esse con somma diligenza intonacate di allume. Abbiamo ancora nel cap. I del lib. XV di Aulo Gellio, che mentre L. Silla assediava il Pireo degli Ateniesi, proccurò di bruciare una torre di legno che difendeva il porto. Vi si accostò Silla, fece che si allontanassero i Greci, la circondò di legna, vi appressò il fuoco, ma essendo stata la torre da Archelao intonacata di una soluzione di allume, non fu possibile il communicarvi l'incendio. Ci potrebbero sembrare favolosi tali racconti degli antichi, se in questo secolo non se ne fosse fatta l'esperienza in alcuni casotti di legname in Sassonia nel distretto di Altembourg. Dopo l'invenzione della polvere è divenuto necessario, e comune l'uso di una sostanza sì pericolosa. Non vi è città che non abbia i suoi magazzini di polvere, né vi è nave che seco non ne porti una dose. Con tutte le cautele che si adoprano, sono frequenti i casi di accensioni quanto improvvise, altrettanto ancora fatali. Per garantirsi almeno in parte da tali accidenti, non veggo mezzo più facile che quello di racchiudere la polvere in carta ben temprata nella soluzione di allume: Questa la difenderebbe ancora dall'umido. L 'allume destinato ad un tale effetto, non si richiederebbe che fosse purissimo, e se moltiplicandosi la quantità del genere, si diminuisse il di lui prezzo, forse tali pratiche si vedrebbero generalmente adottate con molto vantaggio di quegli stati che anno la sorte di abbondare di allume" (175).
Si capisce subito da questa descrizione l'importanza che l'allume ebbe dall'antichità fino al Medioevo, non solo nel campo tessile, ma anche in altri settori. Sappiamo che Michelangelo lo utilizzava misto al gesso per restaurare le lesioni del marmo; a Venezia entrava nella fabbricazione di alcuni vetri (176). Sciolto nell'acqua calda veniva usato per eliminare la rogna; veniva addirittura usato anche nei rapporti sessuali come preservativo. Il Belli, nel sonetto 1681, così si esprimeva: " .. e dice poi che, senza ciarle, je l'incollate con lume di Rocco, acciò non se li magnino le tarle ".
Lo si andava a prendere in Egitto, in Siria, in Grecia e soprattutto in Anatolia. Si trattava dunque di un bene di consumo primario che stimolò il commercio e favori l'apertura di nuove rotte commerciali e nuovi mercati.
Nell'XI e XII secolo, al tempo delle crociate, i mercanti genovesi, primi tra tutti gli Embriaco, divennero signori di Focea nell'Asia Minore, accentrando nelle loro mani lo sfruttamento e il commercio dell'allume tra i paesi occidentali e orientali.
Nel XIII secolo genovesi e veneziani avevano ormai il monopolio della vendita dell'allume proveniente dall'Oriente (177). Tra le famiglie genovesi spicca quella degli Zaccaria che nel 1264 (178) ebbero le miniere di Focea da Michele Paleologo e che nel 1307 vennero sostituiti dai Cattanei. Gli stessi Zaccaria rivestirono fino al 1329 dignità regale nell'antistante isola di Scio (o Chio), conquistata poi, insieme con Focea, nel 1346 dalla Maona dei Giustiniani. Gabriele D'Annunzio rievoca, nella "Canzone dei Dardanelli" (terzine 78,79,80), la figura di un rappresentante della famiglia Zaccaria dicendo:

"In regia potestà l 'Asia Minore
ha Martin Zaccaria, batte moneta, leva milizie e navi, si travaglia
a Focea per allume, a Chio per, seta, a traffico imperversa e a rappresaglia, stermina Catalani e Musulmani, tutt'armato da re muore in battaglia. "

Sempre nel XIII secolo si cominciarono a sfruttare alcune cave nell'isola di Ischia, a Pozzuoli, sul monte Argentario. Il prodotto, di qualità e quantità mediocre, veniva esportato specialmente verso Firenze dove era molto fiorente l'industria laniera. Inoltre alcune cronache del XIII e XIV secolo segnalano in diverse città italiane (Venezia, Viterbo (179), Genova, Firenze, Cremona), nelle Fiandre, a Marsiglia, la presenza di allume proveniente da Maiorca o dalla Castiglia.
Ma nei secoli XIV e XV era l'allume orientale a dominare il mercato, grazie anche all'intervento delle grandi compagnie commerciali genovesi, che si occupavano sia dell'estrazione che della commercializzazione del prodotto. L'intero commercio era nelle mani di due grandi compagnie: la Maona di Chio, che gestiva l'appalto delle cave di Focea, e la potente famiglia dei Gattiluso, proprietari delle cave greche e appaltatori di quelle turche. Tale situazione si mantenne invariata fino al 1453, quando Maometto II strappò alla cristianità la città di Costantinopoli, ponendo così fine all'Impero Bizantino.
Alle conseguenze religiose e politiche che tale avvenimento provocò si aggiunsero quelle economiche. Anche se l'esercizio e il commercio dell'allume rimase nelle mani delle grandi compagnie occidentali, divenne però oltremodo oneroso il tributo che le nazioni cristiane dovettero versare agli infedeli. Zippel riporta la cifra di centomila ducati d'oro annui, Delumeau quella di circa trecentomila ducati d'oro all'anno (180). Questo stato di cose fece sentire l'urgenza di riportare in attività le cave presenti in Occidente o trovarne delle nuove. Si riaprirono così le cave di Pozzuoli ed Ischia ad opera dei genovesi, furono scoperti nuovi giacimenti nei pressi di Volterra e sul monte Argentario. I veneziani, che non trovarono il prezioso materiale nei loro domini, lo andarono a ricercare in Tirolo, si ricominciò a commerciare con l'Africa settentrionale. Ma, nonostante questo grande sforzo, la quantità di allume prodotto in Occidente era comunque scarsa e anche la qualità era mediocre, unica eccezione sembrarono le cave di Volterra che almeno inizialmente alimentarono eccessive speranze. Fu proprio in questi anni che si scoprirono le cave di Mazarron in Spagna e ancora più importante fu la scoperta di quelle dei monti della Tolfa, che ben presto acquistarono una notevole ímportanza (181).

2. LA SCOPERTA DELL'ALLUME E LA PRIMA ALLUMIERA

Dopo aver fatto una doverosa parentesi sull'importanza e sull'utilizzazione dell'allume nell'epoca antica e nel Medioevo, è bene ritornare all'argomento che ci interessa più da vicino e cioè l'industria alluminifera dei monti della Tolfa.
Inizieremo la trattazione parlando della scoperta dell'allume, o più verosimilmente dell'inizio della sua utilizzazione industriale; visto che ancora oggi esistono tesi discordanti a tal riguardo (182). Il racconto della vicenda è conservato nelle memorie di Pio II, meglio conosciute come "Commentari"(183), e negli atti ufficiali del suo pontificato.
La narrazione del papa umanista attribuisce il merito della scoperta a Giovanni da Castro, commerciante e tintore di panni, che in passato aveva vissuto a Costantinopoli, e lo definisce "inventor aluminis". Il da Castro è detto, da alcuni scrittori contemporanei, "Patavinus"(184), suo padre Paolo, infatti, aveva vissuto a lungo a Padova e lì Giovanni aveva sposato Bianca dei Capodilista. Sua madre, Piera Cerrini, era invece originaria di Corneto. Comunque Giovanni è indicato da Castro come se questa città fosse stata la sua vera patria (185).
La data riportata nei Commentari di Pio II è quella del 1462, data ripresa poi da quasi tutti gli autori che hanno trattato le vicende dell'importante scoperta , primo tra tutti Delumeau. In realtà, come aveva affermato in precedenza lo Zippel, le notizie contenute in questi ricordi autobiografici andrebbero vagliate con maggiore attenzione, servendosi di documenti che possano chiarirle e integrarle.
In tal senso vogliamo qui riportare alcune considerazioni fatte riguardo all'argomento in questione sulla base di altri documenti che abbiamo a disposizione. Prima tra tutti una bolla di Pio II, diretta a Ser Giovanni e datata 23 agosto 1461, con la quale venivano sanzionati e ratificati i capitoli di un contratto precedentemente stipulato da Giovanni da Castro con la Camera Apostolica e col comune di Corneto; "... de et supra alumine aliisque mineriis et metallis diversis..." dice il documento pontificio (186). Il castrense si impegnava a versare alla Camera Apostolica due ducati ogni cantaro di allume fabbricato e il 15% del valore degli altri minerali estratti, escluse le spese di estrazione e confezione. Doveva dare, poi, una parte dei profitti al comune di Corneto, di cui una metà era destinata alla costruzione delle mura della città, l'altra si doveva spendere per far maritare ragazze di Corneto e di Castro scelte dallo stesso Giovanni.
Le notizie ricavate da questo documento ci inducono subito ad alcune considerazioni interessanti. Per prima cosa è possibile dedurre che se nell'agosto 1461 il da Castro si assicurava i vantaggi provenienti "de et supra alumine... ", per se e per i suoi discendenti per un ampio arco di tempo, ciò significa che le ricchezze minerarie erano già state scoperte e che il loro sfruttamento già in corso produceva buoni introiti; visto che nel contratto era prevista la spartizione dei guadagni tra il papato, il comune di Corneto e Giovanni da Castro. Essendo poi tale bolla una ratifica di un documento precedente dimostra chiaramente che l'estrazione era già iniziata prima dell'anno 1461. Sappiamo poi, che il da Castro si trovava alla corte di Roma fin dal 1460; abbiamo infatti, la notizia di un pagamento fatto a Giovanni il 20 gennaio 1461: "Johanni de Castro, pro suis expensis in eundo ad certa loca pro factis s.mi d. n. pape"(187). Sì può quindi affermare, con certezza, che la scoperta e il primo sfruttamento delle risorse minerarie sui monti della Tolfa è precedente al 1462, anno in cui iniziò invece la produzione dell'allume a livello industriale con l'apertura di nuove cave e la costituzione della prima società.
Altra considerazione interessante riguarda il luogo dove avvenne la scoperta e la prima estrazione dell'allume, ovvero la località dove si sviluppò la prima allumiera con il relativo villaggio. Va subito osservato che nel documento del 1461 è presente il comune di Corneto che percepisce parte degli introiti ricavati dall'attività estrattiva, mentre non compaio i signori di Tolfa Vecchia. Le motivazioni di tale presenza possono essere due come ha giustamente messo in evidenza Cola in un suo articolo (188).
Prima di tutto si può ipotizzare che la presenza del comune di Corneto dipenda dal fatto che fin dagli inizi del XIII secolo i signori e la comunità di Tolfa Vecchia dovevano prestare atto di vassallaggio alla vicina città; in realtà tale ipotesi sembra poco credibile anche perché l'ultimo atto di vassallaggio documentato risale al lontano 1371, ed ha il sapore di un rito folcloristico (189).
Più interessante e verosimile è invece la seconda ipotesi proposta da Cola, secondo la quale la presenza di Corneto sarebbe giustificata dal fatto che la prima allumiera si sia trovata in territorio cornetano, al confine con il territorio di Tolfa Vecchia, e che successivamente si sia passati allo sfruttamento delle cave situate nel territorio tolfetano, fuori quindi dalla giurisdizione del comune di Corneto. Va poi aggiunto che nel contratto del 1465 (190), il primo pervenutoci e di cui parleremo più avanti, risulta che la "Societas aluminum" doveva, nel caso in cui l'ufficiale deputato della Camera non avesse ritirato l'allume prodotto mese per mese, consegnare il materiale prodotto a Corneto o a Civitavecchia. Riguardo alla presenza a Corneto di depositi di allume non si è trovata menzione in nessun documento, ma il fatto che la cittadina sia nominata in questo importante documento fa comunque pensare che in origine l'estrazione del minerale avvenisse in quelle falde settentrionali dei monti della Tolfa allora appartenenti a Corneto, e più precisamente in quel territorio circostante la zona attualmente detta "la Farnesiana". Ne consegue che è ragionevole l'ipotesi di identificare il borgo della Farnesiana con la prima "allumiera", ossia il primo luogo dove avveniva l'estrazione e la lavorazione dell'allume e dal quale veniva trasportato per essere imbarcato inizialmente al porto di Corneto poi a quello di Civitavecchia.
Si spiegherebbe così il motivo per cui la comunità cornetana abbia inizialmente percepito parte degli utili della nascente impresa. La sua successiva estromissione venne decisa o perché nel 1462 furono scoperte quantità più consistenti di minerale nel territorio di Tolfa Vecchia, oppure a seguito del principio enunciato da Pio Il, e ancora oggi vigente, secondo il quale la proprietà delle ricchezze del sottosuolo spetta allo stato e non al proprietario del fondo (191). Certo è che Corneto non apparirà più nei successivi documenti degli appalti; anzi, osservando attentamente le vicende storiche successive, notiamo un certo risentimento o una vera e propria avversione di questa città verso il papato. Ciò è confermato dal fatto che Paolo II (1469) e Sisto IV (1478) dovettero ricorrere agli anatemi pontifici; il primo per risolvere una questione riguardante l'approvvigionamento del frumento per il personale delle allumiere, il secondo per convincere i cornetani a consegnare gli animali necessari per il trasporto dell'allume verso Civitavecchia.Torna su
La convalida dell'ipotesi avanzata sul sito della prima estrazione e la conseguente localizzazione della prima allumiera viene fornita anche dall'ubicazione della chiesa di S. Severella, dove risiedeva il sacerdote addetto al culto per gli operai delle miniere, nei pressi dell'attuale borgo della Farnesiana. Riguardo a tale argomento è bene fare subito una precisazione. L'abitudine di associare un luogo di culto destinato agli operai delle allumiere proseguirà anche successivamente, prova ne è la costruzione della chiesa della Sughera nel XVI secolo, voluta da Agostino Chigi, e di quella di Cibona nel secolo successivo.
La prima testimonianza relativa a questo argomento risale al 25 ottobre 1462 quando il papa Pio II concedeva alla "università degli operai addetti alla fabbricazione dell'allume..." la possibilità di avvalersi di un sacerdote e di un altare portatile per l'esercizio del culto nei luoghi da loro abitati senza doversi recare nei vicini paesi infestati dalla pestilenza (192).
L'ubicazione della chiesa di S. Severella nei pressi del borgo della Farnesiana è testimoniata anche dal settecentesco Manoscritto Buttaoni (oggi perduto) (193) dove è scritto che Cencelle era situata tra Corneto e la chiesa di S. Severella, che quindi si doveva trovare sulla riva sinistra del fiume Mignone, proprio nelle vicinanze dell'area attualmente detta Farnesiana. Sappiamo poi che il territorio attorno a S. Severella apparteneva a Corneto già nel 939 quando troviamo la chiesa di S. Severa (quasi certamente la nostra S. Severella) nominata nel "Regesto Farfense" tra i confini di cinque casali ceduti dagli abitanti della Torre di Corneto all'abate Campone (194).
Che gran parte del territorio posto sulla riva sinistra del Mignon appartenesse a Corneto è documentato ancora nel 1288 quando il comune, per bisogno di denaro, mise all'asta un tratto del fiume Mignone "..dal ponte sotto S. Martino di Ripalma fino al mare, con la foce Melledra e lo stradello del pantano.. '' (195).
Un'ulteriore convalida all'ipotesi può venire dall'analisi dei luoghi. Si può notare infatti che la maggiore concentrazione di cave si ha in due diverse località: quella circostante l'Eremo della Trinità e le Cave Vecchie, e quella intorno alla Cavaccia. La prima zona si trova più in basso rispetto ai monti della Tolfa ed è probabile che questa posizione abbia portato alla denominazione di "allumiere inferiore", mentre l'altra zona più alta fu chiamata "allumiera superiore": Non a caso C. Gaetani e i suoi familiari risiedevano presso l'allumiere inferiore e quindi, secondo l'ipotesi avanzata, nei pressi del borgo della Farnesiana.
Riguardo all'abbandono dell'allumiera inferiore non sappiamo le motivazioni, ma sicuramente lo spostamento all'allumiera superiore fu voluto da Agostino Chigi che costruì nuove fabbriche presso la Bianca, come vedremo meglio in seguito.
Un altro particolare non privo di interesse riguardo la scoperta dell'allume, è presente nel brano "De inventione alumeriaru”(196) contenuto nel manoscritto Buttaoni. Lo stesso brano fu consultato dal Ponzi, dal Polidori, dal Guglielmotti e successivamente dal Morra che lo riporta in appendice di una sua opera. Secondo il racconto del manoscritto il da Castro venne a conoscenza della presenza dell'allume sui monti della Tolfa, nei pressi di Corneto, grazie ad un astrologo, tal Domenico (Zaccaria) Padovano, che stava con lui e che gli rivelò la presenza in quelle zone di enormi ricchezze minerarie (197). Il racconto è confermato, riguardo alla parte che nella scoperta avrebbe avuto l'astrologo, dalla testimonianza del contemporaneo Gaspare da Verona (198), il quale attribuisce il merito anzitutto a Domenico Zaccaria da Padova e lamenta il fatto che Pio Il non l'abbia riconosciuto. Il papa senese, infatti, aveva in principio ritenuto che la vantata scoperta dell'allume altro non fosse che l'effetto di "inanes astronomorum fabulae". Se tale versione è veritiera come sembrerebbe, verrebbe a contrastare con il racconto della scoperta contenuto nei Commentari dove il merito è attribuito esclusivamente a Giovanni da Castro.
Possiamo infine mettere in evidenza un ultimo particolare non privo di interesse che compare nella bolla dell'agosto 1461 e cioè il fatto che il contratto non prende in considerazione soltanto l'estrazione dell'allume, ma anche "... aliisque mineriis et metallis diversis... " e cioè ogni altro tipo di minerale presente nel territorio della Chiesa. Questo dimostrerebbe come già prima della lavorazione a livello industriale dell'allume esisteva l'estrazione non solo dell'allume stesso, ma anche di altri minerali, in particolare del ferro, di cui parleremo in un apposito capitolo.
Concludiamo il discorso sulla scoperta dell'allume e la prima allumiera proponendo come data della scoperta quella del 1460 e avanzando l'ipotesi che la descrizione che segue, ripresa dal Polidori, sia riferita proprio a questo anno (anche se nel manoscritto settecentesco è riportata la data 1463). "..Et concesse licenza a Giovanni suddetto non solo di l'edifittio per l'a/urne, ma anco di edificar forno di vena di ferro et molino a grano nelle ruine della Chiesa di Santa Severa, hora S. Severella, posta vicino al castello di Cencelli Et fu nel fabbricar il molino ricoperta et restaurata ancora la chiesa di S. Severella deputandole un sacerdote per la commodità delle lumiere. Questa concessione di fabbricar alume fu per anni venticinque con patto di riconoscere la Camera Apostolica di doi terzi utile.. ".(199)
Se l'ipotesi venisse confermata, tale descrizione corrisponderebbe al primo documento sulla scoperta dell'allume e, cosa ancora più interessante, convaliderebbe l'altra ipotesi circa l'identificazione della prima "allumiera" con il borgo della Farnesiana.

3. LA PRIMA "SOCIETAS ALUMINUM" E I PRIMI CONTRATTI.

Ispezionando il territorio Giovanni da Castro ben presto si rese conto dell'enorme estensione alluminifera disponibile e degli enormi guadagni che da essa si potevano trarre. E' lo stesso castrense che si presentò al papa Pio II con un'apposita relazione: "Hodie" inquit "tibi victoriam de Turcho affero. Aureorum supra trecenta milia quottannis ille a Christianis extorquet, propter alumen, quo diversis coloribus lanas inficimus, quia non reperitur apud Latinos, nisi paululum apud insulam Hisclam, quae olim Aenaria dicebatur, Puteolis vicinam; et in Lyppareo Vulcani antro, quod a Romanis olim exhaustum propemodum deficit. at ego septem montes inveni adeo huiuscemodi materiae fecundos, ut septem orbibus sufficere possint. Si iubes accersiri artcies, apparari fornaces, excoqui lapides, Europaeis omnibus alumina ministrabis, et omne Turchi lucrum deficiet; quod tibi additum, duplicato damno illum afficiet. materia et aqua abunde suppetit, et portum habes propinquum in Civitate Vetula, in quo naves onerentur in Occidentem navigaturae. Licebit iam tibi adversus Turchos bellum instruere. Haec tibi minera nervos belli administrabit et auferet Turcho, hoc est pecunia " (200).
In un primo momento le parole del da Castro furono giudicate dal papa fantasie senza fondamento, chiacchiere vane di astrologi. Ma Giovanni non si scoraggiò, e tanto insistette e si adoperò che ottenne ciò che chiedeva: un attento esame della pietra tolfetana fatto da tecnici qualificati. I risultati furono stupefacenti, l'allume ricavato era addirittura migliore di quello asiatico. Lo scavo e la lavorazione furono sollecitamente organizzati, la produzione fu subito ingente.
Il 1 giugno 1462, con breve papale dato in Viterbo, Pio II nominava il genovese Biagio di Centurioni Spinola "maestro principale" delle miniere. Lo Spinola era riconosciuto come il più esperto conoscitore e lavoratore dell'allume in quei tempi. L'incarico era valido per venti anni allo stipendio di 400 ducati e con l'obbligo di un assegno di 100 ducati l'anno alla vedova e ai figli, se la morte di Biagio fosse avvenuta prima del termine del contratto (201).
Giovanni da Castro dovette entrare ben presto nella convinzione che da solo non sarebbe riuscito a portare avanti tutto il lavoro, per cui, una volta assicurati i privilegi per se e per i suoi successori, acconsentì alla costituzione di un'apposita società che rimarrà una costante storica, che sarà chiamata "Societas aluminum" e che sarà presente anche nel XVI secolo durante l'appalto Chigi.
La prima società fu costituita da Giovanni da Castro, il genovese Bartolomeo da Framura e il pisano Carlo Gaetani; persone già note nella Curia papale che forse ebbero un ruolo di un certo rilievo anche durante la scoperta del minerale alluminoso (202). Il primo novembre 1462 entrò così in vigore un nuovo contratto concluso tra la Camera Apostolica da una parte e la nuova società dall'altra. Il contenuto del documento non ci è noto ma interessanti notizie le ricaviamo dallo Zippel. La Camera Apostolica pagava ai tre soci 3/4 di ducato per ogni cantaro di allume prodotto e 5 baiocchi per il trasporto della merce ai magazzini di Civitavecchia. I tre soci conducevano separatamente il lavoro delle miniere, Bartolomeo e Carlo da una parte, il da Castro da un'altra, e ciascuno percepiva una quota proporzionata alla quantità di allume prodotto (203). Il contratto doveva avere una durata di tre anni, visto che il 20 marzo 1465 le stesse parti ne stipularono uno nuovo che entrò in vigore il primo novembre dello stesso anno.
Di questo nuovo accordo abbiamo il testo (204), dall'analisi del quale si riesce a comprendere meglio non solo i rapporti tra le parti interessate, ma anche l'organizzazione dell'impresa di Tolfa. La durata del nuovo accordo era di nove anni, i tre soci si impegnavano a produrre e consegnare ogni anno alla Camera Apostolica 30.000 cantari (1.500 tonnellate) di allume. In casi eccezionali le autorità camerali potevano richiedere, previa notifica dovuta agli appaltatori almeno quattro mesi prima, un'ulteriore produzione di allume fino ad un limite massimo di 21.000 cantari. Gli appaltatori ricevevano dalla Camera Apostolica come ricompensa 3/4 di ducato d'oro per ogni cantaro consegnato; se tuttavia la Camera non avesse desiderato pagare in denaro essa si sarebbe riservata la possibilità di rimborsarli in allume, secondo il prezzo di vendita corrente del prodotto. In questo caso però i tre soci dovevano attenersi per la vendita dell'allume via terra alle regole imposte dalle autorità di Roma a tutti i mercanti, mentre per la vendita via mare potevano godere di ampia libertà. Durante il periodo del contratto nessuno oltre agli appaltatori poteva fabbricare allume sul territori di Tolfa e negli altri luoghi dello Stato della Chiesa; anzi la Camera Apostolica avrebbe ordinato, su richiesta degli appaltatori, il processo, l'arresto, la scomunica e il sequestro dei beni di coloro che avessero commesso dolo o frodo in materia di produzione e vendita di allume. In più la Camera si impegnava a mantenere in pace i luoghi dove avveniva l'estrazione e la lavorazione dell'allume e concedeva agli appaltatori delle cave, agli amministratori, ai fattori e operai un salvacondotto per girare liberamente le terre dello Stato Pontificio.
Questi che abbiamo analizzato sono solo alcuni punti più importanti che ritroviamo all'interno del documento d'appalto. Cerchiamo ora di fare un confronto tra i tre contratti per comprendere l'evoluzione che l'impresa di Tolfa subì nel periodo che va dalla scoperta (1460) al momento dell'accordo del 1465. Prima di tutto come è già stato ampiamente discusso in precedenza, esce di scena il comune di Corneto che è presente solo nel primo documento. Nell'accordo del 1462 compaiono invece per la prima volta Bartolomeo da Framura e Carlo Gaetani come soci accanto a Giovanni da Castro; interessante è il fatto che i primi due lavorano le cave separatamente dal da Castro e questo fa ipotizzare la contemporanea coltivazione di più miniere in diversi luoghi. Il Gottlob opinava che ben quattro miniere fossero aperte nel 1463; ma è incerta supposizione (205). Un'altra considerazione importante è quella riguardante l'evoluzione rapidissima che l'impresa subì nel giro di pochi anni. Il contratto del 1465 mostra, a differenza dei precedenti, un'impresa organizzata nei minimi particolari, sia dal punto di vista tecnico che giuridico ed economico. Si può infine notare come nessuno dei contratti si occupò della commercializzazione del prodotto; nel documento del 1462 c'è un articolo che si occupa del trasporto del materiale fino a Civitavecchia, ma niente di più. Questo sta a significare che dell'aspetto commerciale se ne occupava direttamente la Camera Apostolica col tramite di grandi compagnie commerciali, come quella dei Medici, utilizzando lo stesso sistema di contratti-appalti adottato nell'esercizio delle miniere. Fin dagli inizi dello sfruttamento delle miniere tolfetane, infatti, la Camera Apostolica si rivolse a dei "mercanti intermediari" per la vendita del prodotto sui principali mercati dell'Europa cristiana. Abbiamo notizie di contratti stipulati con mercanti genovesi (206), ma ancora più interessante è la presenza, a partire dall'aprile 1463, della compagnia Medicea che avrà un ruolo di grande importanza nella storia dell'impresa di Tolfa.

4. I MEDICI E L'ALLUME DI TOLFA.

Fin dal 1463 la compagnia Medicea, che era all'epoca la più importante impresa commerciale e bancaria dell'Occidente, si occupò del commercio del minerale di Tolfa sui principali mercati dell'Europa cristiana.
Come già detto in precedenza l'affidamento a grandi compagnie del commercio dell'allume era dovuto al fatto che la Camera Apostolica non aveva una rete commerciale capace di smerciare per proprio conto il prodotto nei vari mercati europei. Fin da subito, quindi, si affidò per la vendita dell'allume, a "mercanti intermediari" inizialmente genovesi, poi dal 1463 ai Medici. Per farsi un'idea dell'importanza che questa attività ebbe nella storia economica della grande compagnia fiorentina basti pensare che tra l'aprile e il giugno 1463 i Medici acquistarono 45.000 cantari d'allume, anche se come dice Delumeau, non vennero immediatamente in possesso della merce acquistata. E ancora, come appare dalle cifre fornite sempre da Delumeau, su una produzione totale di 125.185 cantari effettuata a Tolfa tra il 1 novembre 1462 e il 1 aprile 1466 ben 91.270 cantari furono venduti ai Medici (207).
Oltre ad occuparsi del commercio dell'allume, i Medici fornirono i capitali necessari per le crescenti spese della nuova industria, prime tra tutte quelle per i nuovi impianti. Stando così le cose, fu del tutto naturale l'affidamento alla banca Medicea della "Depositeria della Crociata" (cassa della crociata) che era stata tenuta sotto Pio II dal senese Ambrogio Spannocchi (208).
A partire dal 1466 la grande famiglia fiorentina, rappresentata da Lorenzo il Magnifico e Giovanni Tornabuoni, si inserì direttamente nell'impresa dell'allume sostituendo Bartolomeo da Framura nella compagnia diventando così soci a tutti gli effetti di Giovanni da Castro e Carlo Gaetani (209). Fu allora stipulato un nuovo contratto in sostituzione di quello del 1465 (210). Da questo momento in poi i Medici controlleranno per alcuni anni l'industria e il commercio dell'allume papale. Con un primo accordo, nell'aprile 1471, si assicurarono l'acquisto di 70.000 cantari di allume romano (211). Un anno più tardi, aprile 1472, fu fatta una seconda vendita di allume ai Medici di altri 70.000 cantari. (212) E' questa la dimostrazione che in questo periodo la quasi totalitàdell'allume prodotto a Tolfa era nelle mani della potente famiglia fiorentina. Fatto interessante è che nel 1472 anche le miniere di Volterra entrarono a far parte del dominio di Firenze in seguito alla guerra che sarà chiamata "degli allumi"(213) causata proprio dal desiderio di Firenze di impossessarsi di quelle cave la cui produzione era importantissima per la più fiorente industria fiorentina: quella della lana.
Il papato aveva tentato in precedenza con le convenzioni del 1471 e 1472 di distogliere l'interesse di Lorenzo il Magnifico dalle allumiere di Volterra; negli accordi era detto che per quattro anni i Medici non potevano acquistare altro allume se non quello di Tolfa. Nel momento in cui Firenze si impadronì di Volterra Sisto IV condannò ufficialmente il sacco della città; in realtà aveva fornito egli stesso aiuti militari a Lorenzo con l'invio di truppe (214). La speranza del papa era quella che l'assorbimento delle cave di Volterra nei possedimenti di Firenze avrebbe portato alla chiusura di dette cave proprio a conseguenza degli accordi che il Magnifico aveva già precedentemente stipulato con la Camera Apostolica, il tutto a favore dell'allume romano. In realtà le cose andarono diversamente, le cave volterrane furono sottoposte all'arte della lana, anche se come ha ipotizzato Enrico Fiumi (215) in un suo importante studio, forse fu lo stesso Lorenzo, tramite prestanomi, ad assumere la direzione delle allumiere di Volterra. Il papa rimase così beffato, i Medici avevano ormai nelle mani il controllo sia delle cave di Tolfa sia di quelle di Volterra. Tale situazione causò l'inasprimento dei rapporti tra Sisto IV e Lorenzo il Magnifico. Ben presto le cave di Volterra entrarono in crisi fino ad arrivare alla loro chiusura totale dovuta in particolare alla scarsezza del materiale e alla sua cattiva qualità.
Anche dopo la chiusura delle cave di Volterra la vantaggiosa posizione in cui i Medici si trovarono, riguardo il commercio dell'allume, non mutò. Il 27 dicembre 1474 (216) Sisto IV si vide costretto a consegnare nelle mani della compagnia tutto il minerale "venduto e non venduto", che la Camera Apostolica possedeva nei paesi occidentali, al prezzo di un ducato a cantaro. Nel preambolo della convenzione stipulata dal papato con i Medici sono riportate le motivazioni che spinsero la Camera Apostolica ad effettuare la vendita a condizioni così svantaggiose: prima di tutto i grandi crediti che la banca aveva con la Santa Sede, poi la presenza in Europa di grandi quantità di allume e infine le difficoltà incontrate nella riscossione del denaro dai compratori. Come si può ben vedere la nuova convenzione non faceva altro che sottomettere a Lorenzo e ai suoi soci l'intera impresa di Tolfa; in più mostrava come in quel periodo il commercio dell'allume fosse in crisi, il tutto a spese delle finanze il tutto a spese delle finanze della Santa Sede. Questa situazione non fece altro che aumentare i contrasti tra il battagliero pontefice e la repubblica dominata dai Medici, facendo già presagire la successiva rottura. Rottura che si concretizzò nel 1476 quando il pontefice sostituì la compagnia dei Pazzi a quella dei Medici nella società appaltatrice e nella Depositeria della Crociata. (217)
Questo cambiamento non provocò soltanto sconvolgimenti economici, dovuti al passaggio delle ricchezze provenienti dall'allume da una compagnia all'altra, ma cosa più importante, aumentò l'attrito e la rivalità tra le due grandi famiglie fiorentine; rivalità che non fu soltanto economica, ma anche politica, e che sfociò nell'aprile 1478 nel sanguinoso attentato contro i Medici ricordato come la "congiura dei Pazz, (218) in cui perse la vita Giuliano dei Medici, fratello di Lorenzo.
Le immediate conseguenze di tale avvenimento furono la scomunica e la confisca dei beni appartenenti ai Medici da parte del papa; in particolare vennero confiscati i depositi di allume che pochi anni prima la Camera Apostolica gli aveva venduto. Contemporaneamente, per dimostrare in modo inequivocabile che non aveva nessun accordo segreto con i Pazzi 2, Sisto IV ruppe il contratto concluso due anni prima con la stessa compagnia che doveva avere una durata di dieci anni. Il posto dei Pazzi fu preso allora da una società genovese intitolata a Visconte Cigala e Domenico Centurione (219). Anche il nuovo contratto doveva avere una, durata di dieci anni, ma già nel 1479 troviamo un nuovo accordo, identico a quello dell'anno precedente, concluso con Domenico Centurione e gli eredi di Visconte Cigala che, come si può facilmente suppone, nel frattempo era morto (220).
Qualche anno più tardi, quando i rapporti tra la compagnia medicea e il papato ritornarono buoni (221), grazie specialmente al nuovo papa Innocenzo VIII, i Medici ripresero per un po' la guida dell'impresa (nei mandati dell'anno 1489 figurano quali depositari i Medici), ma la perdita dei registri relativi al periodo 1486-1488 non ci permette di avere le idee del tutto chiare. Di certo sappiamo che nel 1489 i Gentili sono qualificati come "nuovi appaltatori" anche se risultano come "costruttori", cioè coloro che fabbricano l'allume, ancora i membri della famiglia da Castro. I Gentile non rimasero a lungo appaltatori dell'impresa di Tolfa visto che nel 1492 la società fiorentina composta da Paolo Rucellai e soci prendeva il loro posto. Dal 1494 i registri tacciono di nuovo fino al 1503 momento in cui troviamo come appaltatore Agostino Chigi. (222)
Prima di concludere il discorso sui Medici è bene fare qualche considerazione sull'importanza che l'impresa di Tolfa ebbe per la compagnia medicea e viceversa. Innanzi tutto si può affermare, senza ombra di dubbio, che grazie ai capitali forniti dai Medici si ebbe il primo sviluppo dell'impresa, e che furono loro a lanciare il commercio dell'allume romano nel mercato dell'Europa occidentale, grazie soprattutto alla loro forte posizione in Fiandra.
Sulla base delle cifre forniteci da Delumeau notiamo che tra il 1466 e il 1491 circa la metà della produzione venne consegnata ai Medici. Sempre secondo Delumeau si può ritenere che in questo periodo il commercio rappresentò la principale attività finanziaria della famiglia fiorentina; prova ne è il tentativo di monopolizzare il commercio dell'allume in Occidente con il controllo delle cave di Tolfa e successivamente quelle di Volterra. Ancora più importante e degna di estremo interesse è la considerazione che le vicende economiche relative all'allume di Roma ebbero un peso considerevole anche nelle vicende politiche contemporanee; basti pensare alla congiura dei Pazzi che riportò a livello politico i contrasti economici nati tra le due compagnie fiorentine e dovuti alla sostituzione dei Pazzi ai Medici nell'impresa di Tolfa. .
Si può quindi concludere l'analisi dei rapporti tra i Medici e l'impresa di Tolfa affermando che se la grande famiglia fiorentina ebbe un ruolo importante nello sviluppo dell'impresa dell'allume, questa a sua volta fu fonte di enormi ricchezze per la compagnia medicea, ricchezze che in parte contribuirono al grande successo che i Medici ebbero diventando una delle famiglie più importanti della storia d'Italia.