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8. LA CRISI DELL'IMPRESA DI TOLFA Come già abbiamo avuto modo di dire, a partire dalla seconda metà del XVII secolo iniziava irrimediabilmente, per la fabbrica delle allumiere di Roma, una fase discendente che culminerà poi nella crisi vera e propria. Fu questo un periodo di generale e grave congiuntura economica. Nelle grandi città italiane i prezzi delle merci ristagnarono e si abbassarono, calarono le emissioni di monete, anche le importanti industrie lombarde e fiorentine entrarono in crisi.
Lo storico francese Jean Delumeau così scriveva (284): "Appare evidente che il calo della produzione e delle esportazioni della grande impresa romana si è situato proprio nell'ambito della congiuntura recessiva che caratterizzò l'economia italiana nel XVII secolo. E tuttavia ci chiediamo se la crisi incipiente dell'allume romano sia il risultato di questa recessione o ne sia una delle cause. La risposta a tale interrogativo non pone dubbi. Due furono le cause dell'eclissi progressiva, e peraltro abbastanza lenta, dell'allume di Roma: 1 ° la concorrenza delle cave straniere, e in particolare di quelle dell'Inghilterra e di Liegi; 2° la flessione graduale della capacità produttiva dell'azienda pontificia stessa, per esaurimento di alcuni filoni. Ritorneremo, nel prosieguo della trattazione, su questi due punti, per il momento ci limiteremo ad insistere particolarmente sulla seguente conclusione: il calo di prosperità delle cave romane di allume fu certamente, ma in misura impossibile da calcolarsi, una delle cause della recessione italiana del XVII secolo, uno degli elementi costitutivi di una congiura negativa. Se è vero, come noi pensiamo, che l'azienda di Tolfa fu, nei secoli dell'Ancien Régime, la più importante industria d'Italia, ogni crisi di questa azienda doveva, in maggiore o minor misura, avere dei riflessi sull'insieme dell'attività economica della Penisola. "
Le conclusioni a cui Delumeau è giunto sono estremamente interessanti, specialmente riguardo alle motivazioni che provocarono l'eclissi progressiva dell'allume di Tolfa. Due furono principalmente le cause:
1) La concorrenza delle cave straniere; in particolare Yorkshire e Liegi.
2) La flessione della capacità produttiva dell'azienda stessa dovuta ad un certo esaurimento dei filoni alluminiferi e alla vetustà degli impianti produttivi che avevano bisogno di essere rimodernati o rifatti.
Su questo secondo punto pone, giustamente, maggior attenzione lo storico francese riportando una serie di testimonianze che non fanno altro che confermare la fondatezza di tale affermazione. Nei conti dell'impresa riferiti agli ultimi anni del XVII secolo e per tutto il XVIII secolo troviamo costantemente ingenti somme di denaro spese dagli appaltatori per mantenere in efficienza le strutture aziendali; caldaie, magazzini ecc.. Spesso queste somme superavano quelle previste nei contratti per la manutenzione degli impianti da addebitare poi alla Camera Apostolica. Ciò mostra chiaramente quanto bisogno c'era di ristrutturare e modernizzare l'impresa. Lo stesso Breislak (285), che visitò le cave di Tolfa alla fine del XVIII secolo, criticò i procedimenti ormai obsoleti che ancora venivano applicati a Tolfa. Anche l'esaurimento delle vecchie cave è provato dai documenti e dalle testimonianze a nostra disposizione. Si cercarono nuovi filoni e si riaprirono vecchie cave, il tutto con poco successo. L'impresa di Tolfa era ormai avviata al tramonto e come scrisse giustamente il Ponzi (286), fu la comparsa sul mercato dell'allume artificiale, a prezzi più bassi di quello naturale, a dare il colpo di grazia all'azienda dì Tolfa.
Per quanto riguarda invece il primo punto, e cioè quello della concorrenza di allumi stranieri, bisogna notare come la comparsa dell'allume inglese dello Yorkshire e di quello di Liegi sul mercato europeo coincise con l'inizio della fase discendente dell'impresa di Tolfa.
Fino ai primi decenni del Seicento l'allume pontificio aveva trovato nel nord dell'Europa un mercato importantissimo. I dati a nostra disposizione dimostrano che durante il XVI secolo, periodo di maggior splendore per l'impresa di Tolfa, gran parte delle spedizioni erano destinate ai Paesi Bassi, alla Francia Atlantica, all'Inghilterra. Ma non solo, è estremamente probabile che i carichi inviati nei depositi di Genova siano stati poi rispediti, almeno in parte, verso le stesse regioni del nord. Detto questo vediamo come l'immissione dell'allume fabbricato a Liegi e in Inghilterra sul mercato europeo, databile tra il 1610 e il 1625, provocò sicuramente un calo delle esportazioni del prodotto romano, anche se nei Paesi Bassi, nelle Province Unite e negli altri paesi dell'Europa del nord si continuò ad usare il minerale di Tolfa. Questo stato di cose fece si che la parte settentrionale d'Europa acquisì una propria autonomia relativamente all'approvvigionamento di un prodotto che era di importanza vitale per l'industria tessile, all'epoca in assoluto il settore produttivo più importante.
Detto ciò possiamo terminare affermando, senza ombra di dubbio, che la concorrenza degli allumi settentrionali non fu la causa principale della crisi dell'impresa di Tolfa, ma contribuì, in buona parte, a mettere in difficoltà l'impresa .papale proprio nel momento in cui alcuni filoni venivano ad esaurirsi.9. L'ESTRAZIONE E LA LAVORAZIONE DELL'ALLUME NELLE DESCRIZIONI LASCIATE DA VISITATORI ILLUSTRI E NELLA DOCUMENTAZIONE D'ARCHIVIO.Un'impresa così importante come l'industria alluminifera di Tolfa non attirò soltanto un gran numero di operai e minatori, ma richiamò anche l'interesse di numerosi tecnici e scienziati che non esitarono a trascorrere brevi periodi in questi luoghi per studiare da vicino i procedimenti di produzione, lasciando spesso interessantissime testimonianze delle esperienze fatte.
La più antica di queste testimonianze, a noi nota, è una descrizione eseguita dal senese M. Pietro Andrea Mattioli, che durante l'appalto Chigi, definito dal Mattioli "splendidissimo mercante ", risiedette per due anni nei luoghi dove si estraeva e lavorava l'allume (presumibilmente nei pressi de La Bianca), lasciandoci un'interessantissima testimonianza sui metodi e sulle tecniche di lavorazione utilizzate nelle miniere di Tolfa agli inizi del XVI secolo. Questo è il testo dell'importante documento (287):
"... Inperoché per quanto ho veduto io nelle Alumiere del Papa alla Tolpha, nel tempo che n'haveva l'appalto Agostino Chigi mio compatriota splendidissimo mercante, mi fu dato amplissima facultà di notare, e di vedere, come si faccia l'Alume di rocca, per essermi accaduto à fare stanza in quel luogo per due anni continui.
La onde posso ben dire, che la materia del'Alume di rocca, quando si cava, non è liquida, né si secca al sole poscia la state, come si crede il Brasavola, per havere affermato Plinio, che così si faceva l'allume liquido. Et però dico, che l'Alume di rocca non si fa di terra liquida ma di durissima, e fortissima pietra.
Di cui si trova di quella, che tende al rosso, molto più dura di tutte, il cui Alume più di tutti rosseggia, e più è acuto, et valorose de gli altri. Et di quella, che è notabilmente bianca, la quale è più frangibile, e più tenera, di cui si fa uno Alume bianco, e trasparente, come un cristallo, assai manco acuto del predetto. Et però è sempre questo più in uso per le tinture delle sete, e de i panni fini, che non è l'altro.
Cavasi questa pietra a cava aperta dalla montagna tutta massiccia, dove stanno sempre per lo continuo gran numero dè picconieri, che con picconi, mazze, e scalpelli la cavano, e la rompono nel modo che si fa nelle cave delle pietre, che si cavano per gli edifici de i palazzi.
Conducesi poscia questa tal pietra rotta in pezzi con le carette à certe fornaci simili a quelle, dove si cuoce la calcina, ma veramente non così grandi, e quivi si cuoce con fuoco di grossissime legna di elice, e di quercia nel modo medesimo, che si cuoce la calcina: ma non però se gli dà fuoco più di dodici, overo quattordici hore;percioché in tanto tempo si cuoce, quanto basta, e si più si cuocesse, se gli brusciarebbe tutta la sostanza dell'allume.
Cavasi poi, come è fredda dalla fornaci, e conducesi con le carrette sopra a certe gran piazze e quivi s'acconcia con bellissimo ordine in certi monti lunghi un quaranta passi , e più, e larghi in cinque, over sei braccia e alti due, fatti da ogni banda à scarpa, come se si volesse principiare il fondamento di qualche grande edificio, accioché non ricaschino à basso.
Et come sono finiti questi ordini, se gli gitta sopra dell'acqua (inperoché da ogni banda vi ricorre) con certe pale di legno incavate copiosamente, reiterendo così tre, over quattro volte il giorno, fino che la pietra si converte in terra, il che non si fa in manco di trentacinque over, quaranta giorni.
Conducesi poscia questa terra à certe caldaie grandissime di bronzo nel fondo, e per l'intorno di mattoni, murate sopra à certi forni. Et così empite le caldaie d'acqua per certi canali, che agevolmente ve la portano, gli danno per il forno di sotto il fuoco. Et come comincia à bollire, gittano due lavoranti la terra nella caldaia, sopra la quale stanno continuamente quattro huomini gagliardissimi con quattro grandissime pale di legno, le quali con grandissima fatica maneggiano nel mescolare, che fanno del continuo, la terra con l'acqua.
Et come conoscono che l'acqua ha tirato a se tutta la sustanza del 'Allume che si contiene in detta terra, cavano, e levano la feccia fuori dal fondo della caldaia con quelle pale, e la gittano da una cataratta al basso sotto un canal d'acqua , che se la porta via.
Il che fatto, subito rigittano nuova terra nella caldaia, facendo come prima tante volte, che conoscono havere l'acqua tanta sustanza d 'Alume, che basti.
Et così poi lasciata dare alquanto al fondo la feccia, mandano per canali questa acqua aluminosa in certi cassoni, fatti di grossissime tavole di quercia, di gran capacità, dove in spazio d'otto giorni si genera per ogni intorno un sommesso d'Alume, di modo che rassembra lastre di grossissimi diamanti attaccati con bellissima arte insieme.
Et quando si vuoi cavare dalle casse, si rimanda la liscia (così si chiama l'acqua, chev'avanza dentro) chiara alle caldaie per lo medesimo canale, e la torbida si scola di sotto, cavando un zasso di legno.
La feccia poi aluminosa, che si ritrova nel fondo congelata à modo di grano, si porta anch'ella a ricuocere alle caldaie.
Spiccasi poscia dalle casse l'Alume con certi istromenti di ferro fatti a modo di scarpello largo, e messo in certe ceste con due maniche fatte di vergelle di sanguino, e di nocciolo, si lava in una gran cassa piena d'acqua, e come è asciutto, si ripone in magazzino.
Il che arguisce manifestamente, che altra cosa sia l'Alume liquido, e altra cosa l'Alume di rocca. Percioche dice Plinio, che il liquido, è limpido e di colore di latte, che si cava liquido e seccasi la state al sole, e che l'ottimo messo nel succo dei melagrani, subito diventa nero. Il che non si vede in alcun modo nell'Allume di rocca, il quale più si rassembra al ghiaccio puro, e al cristallo, che al latte, si fa di durissima pietra non di liquida terra, né diventa in alcun modo nero, quando si mette nel succo dei malagrani; ma più lucido, più chiaro, trasparente, e più cristallino ".
Di qualche anno più tardi (1540 circa) è il brano di V. Biringuccio, riportato anche da Delumeau, e ripreso da "Li diece libri della pirotechnia", dove un capitolo intero è dedicato all'allume romano. Ecco cosa scrive Biringuccio riguardo alle cave di allume di rocca (288):
"... in Italia invece trovasi in diversi luoghi eccedendo in bellezza, qualità e bontà quello delle altre contrade. E per contentare il vostro desiderio di saperne, vi dirò che se ne trova in terra napoletana a Ischia, a Pozzuoli e probabilmente in terra romana a dodici miglia dal mare tra Civitavecchia e Cometa, in un luogo chiamato Le tolfe, laddove sono riuniti diversi monti. Il maggior numero dei quali è di quelli che producono allume e non furono scoperti fino al tempo di Pio Secondo, dopo il quale i ministri della Camera Apostolica si sono adoperati a mettervi cave e ne hanno tratto un tesoro che si può stimare. E ho opinione che continueranno in questa volontà fino all'ultimo giorno del secolo, in quanto hanno convinzione che non potrà mai essere estinto né svuotato da umana operazione Le cave, dove si recano gli operai per trovare questa pietra, si lasciano aperte, e si continua ad allargare la breccia finché quelli che cercano la pietra siano arrivati al mezzo della montagna, laddove sperano essi trovare maggior quantità di ciò che cercano. Per questo, dopo aver scoperto la terra non tardano a fare una lunga trincea. Poi cominciano a incidere la pietra il più profondamente possibile, senza dimenticare di appoggiare ed erigere pietre di legno, per impedire di far cadere quel che si trova sopra, che non tardano a buttar giù quando trovano il punto che cercano. Poi, con mazze di ferro ed altri strumenti, si adoperano per rompere la pietra, separando la buona dalla inutile e cattiva, e inviando la buona su carri alla fornace, e la cattiva nel fiume, e ciò per pulire la cava e per non fare impedimento agli operai che lavorano ad andare sempre oltre dirigendosi alla parte dove discoprono maggiore apparenza di minerale. Vi assicuro che non vi sarebbe necessità per la gente di tale stato, che viene a scavare il monte fino al centro, per vedere quel che è dentro, di temere di farsi aiutare dall'arte di negromanzia o dalla forza dei giganti per rovesciarlo sottosopra. Vi assicuro che non si possono trovare facilmente i monti che producono tali minerali, e se per caso fortuito o per arte se ne incontrano, dopo aver cavato e scelto come v'ho detto, il tutto verrà condotto alle fornaci, che sono identiche a quelle comuni dove si forma la calce, coperte sulla volta della stessa pietra, e similmente sarà la parte inferiore dove sarà messo il fuoco per cuocere la pietra, la quale riempirà tutta detta volta, e vi sarà fuoco continuo per dieci o dodici ore o di più, a discrezione di quelli che conducono l'impresa, sull'esperienza dei quali il tutto riposa. Giacché se si dimenticasse di farvi diligenza, la virtù e sostanza dell'allume verrebbe a essere consumata dal fuoco tanto che non si potrebbe più riconoscere la virtù della pietra, e sarebbevi pericolo che il padrone e conduttore dell'opera venisse a subire grave danno dalla spesa da lui fatta… …Quando questa pietra sarà stata abbastanza affumata secca e cotta, e il calore ne sarà assente, gli operai la porranno fuori dalla fornace per posarla in qualche luogo piano, nel quale disporranno queste pietre, le une sulle altre, così come se si volesse costruire un bastione a muraglia, che continueranno a fare fino a che sia di lunghezza di venti o venticinque, di larghezza quattro, e in altezza uno e mezzo, quasi due. Dopo, costruiranno un canale d'acqua per bagnarlo sera e mattina, e nell'estate tre volte al giorno, continuando questo a fare per quaranta giorni sul finire dei quali la pietra sarà disfatta e abbastanza pulita per fare l'allume. Ma prima di poter procedere a detto scopo, necessita trovare un ambiente abbastanza spazioso. Per risparmiare la spesa, lo si potrà far costruire a forma di capanna, ma bisogna che sia larga, a tal punto da potervi mettere una o due caldaie, con il numero necessario di cassoni dove sarà messa I'acqua per congelare, e che queste siano della capacità che potranno portare le caldaie. Il fondo delle quali sarà di pietra o di bronzo, ed eguaglierà un diametro in grandezza di quattro braccia, avente tutto intorno un bordo uguale a quello dei piatti di stagno. E saranno poste, queste caldaie, sulle fornaci contro il muro, e il tutto incassato nella legna, un braccio e mezzo dal bordo della caldaia, fino al fondo Che si costruisca nello stesso ambiente ove sono le caldaie o in luogo vicino, trenta cassoni o tine di legno di quercia, per ciascuna caldaia, nelle quali sarà messa la lisciva d'allume, per essere congelata e esse saranno di altezza due braccia e mezzo, di larghezza due e tre in lunghezza, e al più possibile ben fatte. A ciascuna saranno messi operai con loro strumenti, per vegliare che niuna cosa venga a versare, e si mettano tutti in ordine, lungo la muraglia, vicini gli uni agli altri come ad essi piacerà. Vi ho dato conto delle pietre di allume messe insieme come devesi, delle caldaie sulle fornaci, e similmente dei cassoni messi in fila per fare l'allume: per cui, desiderosi di andare più oltre, dovrete per prima cosa empire d'acqua (che prenderà suo corso per un canale) la caldaia, la quale sarà sì grande che essa terrà cento carichi d'acqua: per la quale far bollire, si metterà fuoco al di sotto per la bocca della fornace. Tosto che gli operai la scorgeranno bollire, essi vi metteranno dentro la pietra, che diventerà così disfatta, perché bagnata, che sarà quasi convertita in terra. Vi si potranno mettere dentro per ciascuna volta sei o otto carrettate. E allora sarà di bisogna che quattro degli operai siano sul bordo, muniti di pale di legno grandi e lunghe tanto che abbiano poter arrivare fino in fondo per muovere e girare nell'acqua questa pietra, per trarne e metter fuori quella che è di troppo dura e mal disposta a fondersi. E in questo modo tre o quattro volte, non manchino di gettare nella caldaia tutta la pietra che vogliono mettere in opra, lasciando intervallo tra l'una e l 'altra uno spazio di tre ore dando comodo all'acqua di perdere il suo calore.
E dopo che essa del tutto fredda, rimettendo dentro della terra, essi operai tornano a farla bollire. E quando si accorgono sulla fine che la caldaia è ben vuotata delle pietre non cotta, e l'acqua è sgombra della feccia terrosa e densa, vedendo l'acqua pronta a congelarsi, e ben carica di sostanza d'allume, con alcuni vasi di legno, formati a mo' di grandi mestoli non mancano i medesimi operai di vuotarla, e per alcuni canali propri a questo compito la faranno andare a recarsi dentro cassoni e tini, riempiendoli tutti l'uno dopo l'altro, e colà la lasciano riposare per congelarsi, quattro giorni in inverno, sei in estate. Sulla fine dei quali, gli operai fanno due buchi sotto i cassoni per dar corso a tutta l'acqua che non è congelata. Ma per prima raccolgono la più limpida, e la rimettono dentro la caldaia, oppure dentro uno dei cassoni, per trattarla ancora una volta, poiché trattiene ancora in sé sostanza d'allume. Vi assicuro che non mancherete, così facendo, di trovarlo dentro i cassoni che avrete riempito, attaccato al legno nella stessa quantità e stesse virtù che, aveva la pietra che era stata messa dentro, sia che fosse bianca, o rossa, secondo la qualità della cava da cui sarà stata estratta. Vi informo inoltre che si deve gettare al vento quello che si trova in fondo ai cassoni, se non vi è apparenza d'allume dello spessore d'almeno tre o quattro dita, in quanto è cosa inutile. Ma l'altra materia che appare sull'acqua deve essere rimessa nella caldaia, in compagnia delle pietre che si vuole far bollire di nuovo. L'allume che si troverà attaccato dentro i cassoni sarà strappato con una sgorbia o qualche altro ferro, e dopo averlo posto e lavato in una piccola conca, sarà riposto al coperto in un magazzino, e così condotto alla fine della sua perfezione. Non voglio dimenticare di avvertirvi che con vantaggio di ferramenti, fornaci, caldaie e grandi cassoni, si perviene ad ammassare allume in grandissima quantità, al punto che si arriva ad aver soddisfazione della spesa, essendo aiutati dal profitto che ne viene a sortire ".
La descrizione delle lavorazioni fatta da Biringuccio, redatta in qualche caso in uno stile oscuro, riprende le notizie dateci dal Mattioli riguardo le quattro fasi fondamentali della produzione dell'allume e cioè:
1 ) La calcinazione, detta anche torrefazione (289); non è altro che la cottura della pietra alluminosa. In questa fase la pietra viene posta sopra dei forni, di forma troncoconica, e viene cotta per un periodo che può variare in base al tipo di pietra da calcinare e al tipo di legna.
2) La macerazione; è la fase successiva e consiste nel sistemare la pietra calcinata in lunghe cataste, a forma di schiena d'asino, sopra le quali alcuni operai getteranno, per più giorni, acqua.
3) La lisciviazione; le pietre provenienti dalla macerazione, ormai disaggregate e ridotte ad un impasto bianco, vengono gettate nell'acqua bollente delle caldaie; di solito si utilizza acqua residua delle precedenti cristallizzazioni. Mentre l'acqua bolle gli operai con lunghe pale l'agitano e fanno in modo che questa sciolga tutto il sale alluminoso, mentre la terra residua precipita nel fondo. Quando l'acqua è abbastanza carica di sali, si spegne il fuoco, si apre un rubinetto posto sul fondo della caldaia, e si fa defluire la liscivia in casse di legno dove avverrà la cristallizzazione.
4) La cristallizzazione; in questa fase si attende che l'acqua depositi i sali di allume, presenti in soluzione, sulle pareti delle casse. Quando ciò è avvenuto viene tolta l'acqua e con l'aiuto di strumenti in ferro vengono distaccati dalle pareti delle casse i cristalli d'allume.
In più ci fornisce interessanti notizie relative ai metodi di escavazione della pietra. Sarà interessante confrontare poi queste due descrizioni con altre di secoli successivi, giunte fino a noi, per verificare l'evoluzione tecnologica dell'impresa di Tolfa. Bisognerà vedere se le tecniche di lavorazione rimasero inalterate nei secoli oppure si modificarono.
Un ulteriore descrizione risalente al XVI secolo, del 1556 è la prima edizione latina, è quella che l'Agricola inserisce nella sua importante opera "De re metallica"(290). Sembrerebbe che l'Agricola conosca bene l'opera di Biringuccio, o per lo meno abbia visitato le cave di Tolfa nello stesso arco di anni. Nella sua opera troviamo poi un'interessante disegno in cui vengono raffigurate le varie fasi della lavorazione dell'allume.
Contemporaneamente all'Agricola transitava per Tolfa Belon du Mans (circa 1550), il quale mette a confronto, nei suoi scritti (291), le lavorazioni fatte a Tolfa con quelle fatte a Cypsella in Tracia. Ci fornisce un'interessante notizia quando afferma che l'allume prodotto a Tolfa è più costoso di quello fatto a Cypsella perché bisogna trasportare il materiale, su dei carri, dalle cave fino al luogo dove viene cotto.
Abbiamo un ultima testimonianza risalente alla fine del XVI secolo; la relazione del viaggio fatto da papa Sisto V, nel 1588, per visitare le celebri cave.
Il racconto di questo viaggio, riportato dal Mignanti (292), ci fa rivivere in modo molto chiaro le fasi della lavorazione e, cosa ancora più interessante, cita per la prima volta l'uso della polvere sulfurea (293). Questa inserita all'interno di un foro aperto artificialmente sul fronte di cava, veniva fatta esplodere per provocare la caduta di grandi macigni.
Prima di proseguire il discorso sulle descrizioni delle lavorazioni, è bene notare come Sisto V non fu né il primo né l'unico papa che si recò a Tolfa per osservare da vicino le lavorazioni delle miniere. Già nel 1481, pochi anni dopo la scoperta dell'allume, Sisto IV, da uomo attivo quale era, volle venire di persona a rendersi conto della situazione estrattiva, inaugurando un costume che si perpetuò nei secoli.
Nel 1505, durante l'appalto Chigi, giungeva nel territorio delle allumiere Giulio II. Nella seconda metà del Cinquecento si registrano un susseguirsi di visite papali a quei luoghi che tanto utile davano alle casse del Vaticano (294).
Nel 1561 toccò a Pio IV venire a Tolfa; dopo di lui fu la volta del suo successore Pio V (1571). Due anni più tardi Gregorio XIII, salito da appena un anno sul trono di S. Pietro, venne in visita alle miniere. Alla permanenza di questo papa è legato un avvenimento importante, e cioè l'inizio della costruzione del grande palazzo, oggi chiamato "Palazzo Camerale", presso l'attuale paese di Allumiere, luogo dove la lavorazione dell'allume si era ormai trasferita e stabilizzata. Fino a quel momento tutti i papi con i loro seguiti, le autorità dello Stato Pontificio, gli appaltatori dell'impresa, e tutti coloro che per vari motivi si trovarono a passare per le miniere, avevano soggiornato a Tolfa. Gregorio XIII sentì il bisogno di far costruire un palazzo vicino ai luoghi di lavorazione per installarvi la direzione del complesso e un alloggio decoroso per l'appaltatore, il governatore e per tutte le personalità che di frequente transitavano per le allumiere, compreso il papa. Il primo papa che soggiornò nel nuovo palazzo fu proprio Sisto V, seguito da Clemente VIII, che ritroviamo presso le lumiere nel 1597. Altri due pontefici che vollero visitare l'impresa di Tolfa furono: Gregorio XVI, nel 1835, e Pio IX nel 1857.
Dopo questa breve parentesi, poniamo ora attenzione alle descrizioni fatte nei secoli successivi da altri personaggi che visitarono le cave di Tolfa e lasciarono testimonianze sulle lavorazioni svoltesi nell'impresa papale.
Iniziamo con Paolo Boccone che transitò per la regione tolfetana alla fine del XVII secolo. Il botanico, venuto sui monti della Tolfa per cercare piante medicinali, si interessò anche della fabbricazione dell'allume. Ci informa che trovò una cittadina "molto popolata, e anche da gente d'aspetto assai civile"(295); dimostrazione della prosperità del luogo in quel tempo. Nel XVIII secolo Tolfa compare nei racconti di un grande viaggiatore: Padre Labat, il quale si recò alle miniere di allume e ci fornì notizie di un certo interesse riguardo all'utilizzo dell'allume (296).
A questo secolo appartengono altre due descrizioni. La prima, importantissima, è di uno studioso francese Fougeroux de Bondaroy e risale al 1765, momento in cui, di ritorno da un viaggio di studio in Italia, Fougeroux presentò una sua relazione all'Accademia delle Scienze di Parigi dove descriveva, tra le altre cose, le fasi della lavorazione dell'allume osservate nelle cave di Tolfa. Questa descrizione particolareggiata e minuziosa, riportata già in altri studi, è tanto interessante che ci è sembrato utile analizzarla di nuovo nel presente lavoro dedicato all'allume di Tolfa (297).
"... Gli operai abbattono questa pietra cominciando dall'alto della montagna, e proseguono fino al livello della pianura dove i carri vengono a prenderla; lo scavo che vi fanno forma una lunga strada, che essi continuamente allargano con nuovi abbattimenti e poiché le pareti sono tagliate a picco, essi si servono di impalcature volanti, composte da due puntoni conficcati nella roccia e sostenuti all'altra estremità da funi assicurate alla sommità del monte; delle tavole appoggiate sui puntoni completano l'impalcatura, e le stesse funi che la reggono servono agli operai da scala per discendervi, insieme agli appigli offerti dalle asperità della roccia.
Poiché la pietra non è disposta a strati, la si spacca con dei cunei di ferro, picche e mazze, e si getta il materiale in basso, dove i carri vengono a caricarlo; talvolta, ma raramente, si fa uso della polvere.(298) Le pietre, abbattute in grossi blocchi, vengono frantumate in pezzi più piccoli e prontamente portate alle fornaci dove debbono essere calcinate; gli operai affermano che se si lasciassero a lungo esposte all'aria e alle mutevolezze del sole e della pioggia, perderebbero i loro sali e tornerebbero inutili; se ne separa allora a volte una crosta giallastra che copre la pasta nella quale si riducono e che è verosimilmente prodotta da una dissoluzione di ocra o di ferro.
Le fornaci dove si calcina la pietra sono interrate; per installarle, si sceglie un pendio tagliato a picco, di circa 6 o 7 piedi, o una terrazza spianata espressamente a tale uso; la fornace viene inserita nel terreno sul bordo del pendio, in modo che la sua bocca o porta si trovi in basso, la sua, forma è quella di una calotta o cupola di 6 piedi di diametro, e la parte superiore della cupola o volta è forata da un'apertura circolare di circa 3 piedi di larghezza; è attorno a questa apertura, e perciò sul terreno soprastante, che viene sistemata la pietra da calcinare anch'essa disposta a cupola, avendo cura che vi siano spazzi liberi tra le pietre da dove possa passare la fiamma e il fumo. Quando queste pietre sono state esposte al fuoco per dodici o quattordici ore, il fumo diventa bianco, le pietre assumono un colore rosa, e spandono un debole odore di solfuro di potassio; si lascia allora spegnere il fuoco, e quando le pietre si sono raffreddate, si dispongono nuovamente in maniera che quelle che hanno ricevuto di mezzo l'azione del fuoco siano ora ad esso le più esposte, e si sottopongono ad una seconda calcinazione; il riscaldamento si fa con legno di faggio e di carpino, che si trova in abbondanza nei dintorni; le pietre così calcinate si attaccano. fortemente alla lingua e vi lasciano il gusto tipico dell'allume.
Le pietre così trattate si portano in un luogo vicino alle officine, dove si stendono in lunghi mucchi, di circa tre piedi di altezza, a forma di schiena d'asino, avendo cura di porre sopra i pezzi più grossi. I mucchi hanno sui due lati delle fosse piene d'acqua e quattro o cinque volte al giorno, a seconda che il sole sia più o meno forte, degli operai attingono con dei mestoli l'acqua dalle fosse e ne innaffiano i mucchi, questo lavoro dura quaranta giorni.
Al termine di questo periodo, le pietre si presentano disaggregate e ridotte ad un impasto bianco, che si attacca alle mani quando lo si maneggia e che prende una leggera tinta di rosso; il materiale viene allora portato alle caldaie. Le caldaie sono più in basso del livello del suolo; il fondo che è di piombo (299), si inserisce entro una struttura in muratura che si trova al di sotto; il resto della caldaia è in muratura e va ad allargarsi a formare una specie di imbuto. La caldaia poggia sulla fornace munita di una griglia di ferro sulla quale si gettano i ceppi attraverso un'apertura su uno dei lati; ... Le pietre ridotte in pasta sono gettate nell'acqua della caldaia con delle pale; di solito, quest'acqua ha già disciolto dei sali che sono stati fatti evaporare... Mentre l'acqua bolle, diversi operai, con lunghe pale di cui ciascuna richiede la forza di due uomini, mescolano per un certo tempo la pietra di allume ridotta ad un impasto, e la fanno, per così dire, fondere; tolgono poi il terriccio e certe schiume che affiorano in superficie e li gettano ,fuori; poi si fa evaporare l'acqua che ha disciolto i sali di allume: quest'acqua bolle generalmente per ventiquattro ore; trascorso questo tempo, quando la si pensa abbastanza carica di sali, si spegne il fuoco: si lascia precipitare il terriccio e si apre il rubinetto posto ai trequarti della caldaia, verso il fondo; l'acqua cade in una tinaia, da dove viene incanalata verso un ambiente vicino dove sono state disposte in gran numero come delle tine quadrate, fatte di uno spesso legno di quercia, le cui tavole sono tenute unite da traverse e rinforzi che serrano le diverse parti; le si può smontare quando si vuole, togliendo i cunei inseriti nei rinforzi. Si riempiono i cassoni con quest'acqua e la si lascia cristallizzare; l'acqua passa dalla tinaia all'uno e all'altro dei cassoni per mezzo di condotti o gronde di legno che vengono poste e ordinate a piacimento, facendole passare sopra i cassoni; su ognuna della condotte si sono fatte delle aperture; e quando il primo cassone è pieno, l'operaio incaricato di tale compito bada a chiudere l'apertura con della terra d'argilla; in tal modo l'acqua fluisce nella seconda cassa e così di seguito in tutte; si lascia che quest'acqua depositi il sale di allume che contiene in soluzione. In questo ambiente o in due si trovano da sessanta a settanta cassoni disposti su due file, in modo che vi si possa passare in mezzo...
Ogni cassone è di sette piedi in altezza e di cinque in larghezza, ed ha forma di parallelepipedo. Passati più o meno quindici giorni, a seconda della stagione e della qualità di sali che l'acqua contiene in soluzione, l'allume si cristallizza all'interno dei cassoni formandovi cristalli molto irregolari; talvolta, però, all'apertura dello scarico dei cassoni, si può anche trovare allume in splendidi cristalli e in forme molto regolari.
L 'acqua che si toglie da questi cassoni o tine di legno, quando ha depositato i suoi sali, contiene ancora molta allume, che è però misto ad un'acqua madre, un 'acqua grassa, di color carne, che impedisce la cristallizzazione e che è, come si sa, comune a tutti i sali; per recuperare l'allume trattenuto nell'acqua rimasta nei cassoni, bisogna darle più superficie onde evapori più facilmente, e depositi il suo sale; per fare ciò si libera l'apertura che si trova sotto ciascun cassone, e si fa defluire l'acqua tramite delle condotte fino ad altre tine più basse, e meno profonde della precedenti, e che contengono meno liquido: il terriccio inutile vi si deposita; ma il sale vi si cristallizza ancora; si toglie la terra, che viene eliminata, e si conservano i cristalli....
L 'acqua, dopo aver attraversato tutte queste diverse vasche nelle quali scorre in superficie fino a quella più bassa, e di conseguenza l'ultima, va a depositarsi in una tina più bassa ancora, o in un vero e proprio pozzo, dal quale la si solleva tramite una catena a secchi mossa da una corrente d'acqua che fa funzionare la macchina; detta acqua va a versarsi in una vasca o serbatoio più in alto delle caldaie, da dove la si attinge per avviarla alle caldaie quando si vuole fare una nuova cristallizzazione simile a quella appena descritta: quest'acqua è già carica di parti di sale di allume che ha in se disciolto e che depositerà assieme ai sali di cui si caricherà nuovamente.
Quando tutta l'acqua carica dei sali di allume contenuta nella caldaia è stata fatta defluire, si estrae con delle pale la terra depositatasi sul fondo, e la si porta fuori con delle carriole... I cristalli di allume vanno a riempire delle botti che si trasportano poi a Civitavecchia... ".
L'altra testimonianza del XVIII secolo giunta fino a noi è quella di S. Breislak. Il contenuto del racconto del dotto religioso non si discosta di molto da quello di Fougeroux; l'unica differenza la notiamo al momento in cui si parla delle tecniche utilizzate per staccare le pietre dalla montagna. Scriveva il Breislak nel suo saggio (300):
"La prima operazione che si fa nella fabbrica dell'allume, è quella di tagliare dal Monte la pietra; ciò che si ottiene coll'aiuto delle mine. Reca però stupore il vedere un tale lavoro eseguirsi con arte e facilità singolare, in alcuni siti elevati della Montagna, tagliata a picco da uomini, la vita dei quali è affidata solo ad una corda. Questi hanno la destrezza di gettare anche in qualche distanza un tizzo acceso nel luogo appunto dove è la traccia della mina, e seguita l'esplosione, sostenuti parimenti dalle corde, fanno cadere co' pali di ferro que' materiali che la violenza della mina ha solo smossi, senza sbalzarli dal loro sito. Si accendono le mine regolarmente tre volte al giorno, si sceglie quindi la pietra buona per l'allume, e ridotta in pezzi si porta alla piazza de' forni. "
Fourgeroux aveva scritto che la roccia veniva spaccata con cunei di ferro, picche e mazze, e che solo raramente si faceva uso della polvere. Il Breislak, invece, dice che le mine si accendevano regolarmente tre volte al giorno. A parte questa discordanza, si può chiaramente notare come il contenuto delle due relazioni sia abbastanza omogeneo; e ancora più interessante è il fatto che le precise descrizioni lasciateci dai due studiosi settecenteschi mostrano, in modo concreto, il perdurare delle stesse tecniche di lavorazione nel corso dei secoli oggetto del nostro studio. Se si eccettua l'impiego della polvere pirica, non usata in principio, e l'introduzione della macchina idraulica per sollevare l'acqua madre recuperata dai cassoni di cristallizzazione, nessun cambiamento c'era stato nelle diverse fasi di lavorazione dell'allume di Tolfa. L'impresa si basava ancora principalmente sulla forza dell'uomo, grazie alla quale si riusciva a compensare la relativa immobilità della tecnica.
Tenendo conto di questa immobilità diventano estremamente interessanti alcuni documenti presenti nell'Archivio di Stato, fondo Camerale III, in cui ritroviamo notizie utili sulla sequenza e l'articolazione delle varie fasi di coltivazione. Infatti, anche se riferite in misura preponderante agli appalti settecenteschi, queste testimonianze contribuiscono non poco a darci un'idea di come si doveva svolgere lo scavo del minerale già nei secoli precedenti.
Illustriamo quindi, usando il linguaggio dei documenti, alcuni momenti importanti della coltivazione.
a) La definizione della cava: "... Allumiera e cava sono in tal materia puri e semplici sinonimi, spiegando e l'una, e l'altra parola quella vena ò miniera di pietra aluminosa, onde coll'attività del, fuoco si fabrica l'alume "(301).
b) Il modo di eseguire i tasti per la ricerca dei filoni e la posizione delle cave: "...Il lavoro della nuova apertura nella Cava Gangalandi s'intraprenderà col far prima il taglio della macchia per quella lunghezza, e larghezza che richiede il bisogno della suddetta nuova apertura affine di fare le necessarie osservazioni per poscia stabilirsi l'andamento della linea da aprirsi. S'intraprenderà poscia lo sterro, e spurgo delle materie prime di scarico, che s'incontreranno nel preaccennato andamento, ed in seguito si farà il taglio della terra a lungo del nuovo canale per una metà della di lui estensione per proseguire il lavoro con le mine nel masso della montagna, e detto metodo dovrà continuarsi ancora nell'altra metà fintantoché non si vengano ad intersecare i filoni di pietra buona, e che siano posti questi in istato da potersi consegnare all'appaltatore...(302)
"Osservai in primo luogo, che la più gran parte delle cave, ed eccettuata solamente la Cavetta, sono state aperte nella cima dei monti, o almeno in luoghi molto elevati delli stessi monti... "(303);
"... si veggono quelli monti quasi tutti aperti nella sommità, e poscia abbandonati perché non si previdde, né di guarnire quelle cave di cassi emissari per le acque di scolo... "(304).
c) La tecnica di lavorazione dei fronti di cava: Per la fabrica dell'alume è prima necessario avere uomini prattici, che conoschino la pietra buona, essendo che non sempre nella cava si trova pietra atta da cavarne l'alume, e molte volte si è tralasciato una cava, e cavato nell'altra per non essere in quella pietra sufficientemente buona per esso alume. Conosciuta adunque la qualità della pietra, si cava essa dalle viscere del monte a forza di martelli, picconi e mine con polvere, caduta che è essa in terra si trasporta fuori dalla cava con carri... "(305);
... si estrae il minerale dal monte aluminoso a cava aperta coll'opera di tre persone che formano una coppia di due... essi sono picconieri, e l'altro volta mine, e sono obligati di fare detta mina il giorno. Fatta da questi la mina con una agucchia di ferro (che è un ferro rotondo con punta acciarita) in profondità secondo l'andamento della montagna di circa palmi 4. Si carica con della polvere per circa libbre 3 secondo parimenti il bisogno, e poi si spara dalli predetti picconieri, i quali sono ancora obligati con picconi e paletti da leva di levare tutto quello che è smosso, e prodotto da la mina. "(306);
... nella quale facciata appariscono 6 filoni di pietra buona aluminosa da lavoro larghi assieme palmi 10, che principiando dal fondo, o sia platea di detta cava, e proseguono fino a mezza altezza di detta montagna, nella quale attualmente vi si lavora, e detta facciata resta tagliata ad uso di arte senza strapiombi... "(307).
"La natura a disposto in cotal guisa i filoni di questo minerale, che sono costantemente incastrati in linea verticale al di dentro delle viscere della montagna, ricoperti da tutte le parti da altro sasso cattivo. L 'uomo dunque per ischiuderli deve prendere dall'alto dei monti spaziosi tagli chiamati banchi, dei quali quanto maggiore è la latitudine, altrettanto magnifici sono i filoni, che al di sotto si scuoprono; e anche poi le pesanti pericolosissime slamature non abbiano ad offendere i lavoranti, l'arte ha suggerito di fare detti tagli per linea obliqua, o come dicono a scarpa"(308).
d) La strategia di coltivazione: ribasso dei banchi e delle platee, cavi a fondetto, lavori a grottesco, cavi a cunicolo: "Promette la R. Camera di far consegnare alli detti appaltatori le Cave della Pietra nette, e pulite, e di far abassare le sboccature che al presente servono per portar via l'acqua tanto che basti per dare il scolo alli fondetti di dette cava, et in caso che la Cavetta non havesse il declivio far riempire i fondi di essa fino alla predetta sboccatura antica... 16. Et occorrendo che nel nuovo appalto le cave vecchie si riducessero inutili per la profondità in modo tale che si stimasse doversi riempire ad effetto di cavar la pietra nelli luoghi superiori, e più alti si conviene che in quel caso debba riempirsi la profondità sino a quel termine solamente che non vi sarà più pietra buona da cavare con questa però che prima di riempire li ditti appaltatori ne debbano dar parte a detto Mons. Ill.mo Tesoriere acciò che possa deputar persona che vi intervenga... "(309);
"Nella medesima Cavetta presentamente si lavora in più parti et in primo luogo si cava nel ,fondetto morto nel sito sotto la Castellina, che è di longhezza principiando dal tufo isolato vicino al Canalone verso la Cavarella canne 54 e di larghezza canne 11 nel maggiore... In questo fondetto si trova qualche poco di pietra, benché la maggior parte sia tufo, terra e sasso inutile. Si lavora parimenti in alcuni luoghi della pariete, cioè nella cima della Cavarella con una coppia di picconieri e in alcuni luoghi sia la Castellina e Cavarella con 2 coppie di picconieri, ma per esser ivi il monte troppo incavato nella parte inferiore, puole facilmente slamare dalla parte superiore... "(310);
"... non solo i cavi a fondetto, o sia a forma di profondi vasconi, sono stati mai sempre vietati, ma é stata molto più vietata la riempitura, come quella che impedisce l'estrazione della pietra aluminosa con seppellirla sempre più sotto inutili spurghi... "(311);
"Non si tralascia, però d'insinuare che lo scavo di questa cava sembra un poco ungusto, et a modo di corridore, talmente che pare potesse ordinarsi, come di fatto il Commissario insinuò nella visita operare un poco più, ed estendere lo scavo dell'uno e l'altro lato e smantellare la cima e cappello della parete per sfuggire il lavoro a grotta, giacché da tutto vi é pietra buona, e da tutti i lati si scuoprono filoni e vene d'alume perfetto, il che fu detto si sarebbe posto in esecuzione... "(312);
"... si é stabilito di assicurarsi meglio se realmente il filone, che apparisce al di fuori, vada incarnirsi ubertosamente nel forte della montagna. Ad oggetto di accettarsi pertanto di simile sussistenza si reputa di fare alla radice della suddetta parete un cavo a cunicolo per tagliare il divisato filone, imperocché in tal maniera si potrà rilevare la di lui reale grossezza... Nella nuova apertura, o sia ribasso, le apparenze sono ottime, imperciocché sebbene il taglio siasi poco profondato, già si sono tuttavia incontrati due larghi filoni... "(313);
"In alcuni luoghi si veggono fondetti sempre inutilmente proibiti, o cunicoli profondissimi escavati per togliere la sola polpa, e per lassare poi, che l'inutil sasso venisse tolto dal proprietario: in altri luoghi si veggono lasciati pericolosi, ed altissimi isolotti... In questi ultimi tempi soltanto coi lumi dell'Eccellentissimo Ruffo allora Tesoriere e colla direzione del peritissimo direttore sig. Francesco Navone, han principiato a sistemarsi quelle Cave, ad aprirsi dei sotterranei emissari, ad escavarsi, o siano gallerie, non già per cavare pietra alluminosa, bensì per iscoprire l'esistenza, la località e la direzione dei filoni alluminosi... meritatamente li fondetti sono proscritti da ogni buon sistema, producendo cavità senza scoli, ed esaurimento del buon materiale... Li cunicoli poi, quanto opportuni per esplorare, quali possono essere le qualità interne di quei monti, altrettanto inutili e dispendiosi per sostituirsi alle cave aperte, non potendosi con la prattica di essi estrarne, che una quantità di pietra sufficiente soltanto per un analisi giornaliera. "(314).
e) Coltivazione dei filoni in galleria: "Tutti sanno quanto dispendioso e poco fruttifero sia l'attuale metodo di escavazione a cielo aperto, ormai abbandonato quasi da tutti coloro che devono estrarre minerale da ,filoni eruttivi. Si dovrebbe perciò desistere da questo metodo per abbracciare il sistema delle gallerie o di lavorazione coperta, il quale risulta immensamente più vantaggioso"(315) .
Dai brani riportati si coglie con chiarezza uno dei problemi di fondo che hanno condizionato i rapporti tra la Camera Apostolica e gli appaltatori: la necessità di trarre il massimo profitto dall'impresa ha rappresentato per gli investitori un obiettivo da perseguire senza indugi e al tempo stesso una costante preoccupazione per gli architetti camerali preposti al controllo dei lavori. La conduzione dello scavo era infatti subordinata alla necessità di ottenere quantità elevate di pietra alluminosa, spesso a scapito delle norme di sicurezza: non sempre veniva praticato il taglio a scarpa delle pareti, che sarebbero dovute essere suddivise in banchi sovrapposti per evitare il pericolo di slamature o dilamazioni.
La lavorazione in parete produsse ben presto (è testimoniato già nel XVII secolo) il lavoro a grottesco, che consisteva nell'approfondire la coltivazione del filone, limitatamente al suo spessore nel fronte di cava, senza procedere con l'avanzamento del banco e la conseguente rimozione della roccia sterile. Le costose opere di ribasso delle platee di cava, inoltre, comportanti l'asportazione di enormi quantità di roccia, venivano spesso aggirate con la pratica dei cavi a fondetto, vietati nei contratti d'appalto ma poi praticati con frequenza. In sostanza si approfondiva nella platea la coltivazione del filone estraendo soltanto il sasso alluminoso senza effettuare il ribasso, producendo in tal modo fosse di varie dimensioni poi dissimulate con materiale di spurgo (i cosiddetti fondetti morti). Una discutibile strategia di coltivazione è la ragione che ha indotto molti appaltatori a moltiplicare, soprattutto nel XVI e nel XVIII secolo, i tasti per l'apertura di nuove cave, oppure a ridursi alla ricerca di nuovi filoni nelle cave già aperte: le trovavano comunque pericolose per i lavoranti e costose da amministrare, in quanto sgrottate nella parete e sfondettate nella platea. L'assenza di una strategia estrattiva ragionata contribuì in parte alla crisi dell'impresa già alla metà del XVII secolo, nonostante i progressi raggiunti nella fase di trasformazione del prodotto; la ripresa coincise con le innovazioni introdotte da Fortunato Gangalandi, che legherà il proprio nome alla cava denominata in precedenza Cavaccia, nella prima metà del XVIII secolo.
Migliori risultati si raggiunsero anche con la sperimentazione di nuove tecniche estrattive: già alla fine del Settecento veniva praticato lo scavo a cunicolo alla base del fronte di cava o comunque a seguire il filone; tecnica certamente mediata dall'esperienza maturata nel settore dei metalli.
Si conseguì, però, l'effetto di introdurre una tecnica mista: le cave rimasero a cielo aperto e tali pratiche furono fortemente criticate dagli architetti camerali ancora agli inizi del XIX secolo. Sarà soltanto a partire dal 1854 che si sperimenterà la coltivazione in galleria, perfezionata successivamente sotto la direzione dell'ing. Paolino Masi nel 1856. La nuova strategia di scavo produrrà un incremento della produzione e verrà largamente praticata tra la fine del XIX e la prima metà di questo secolo.

C) GLI ALTRI MINERALI.
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1. PRIME TESTIMONIANZE DELLO SFRUTTAMENTO MINERARIO NEL MEDIOEVO: LA ROCCA DI FERRARIA.
Dopo aver parlato dello sfruttamento industriale dell'alluminite, che si sviluppò con esiti alternativi per alcuni secoli e a cui si deve l'importanza storica dei monti della Tolfa, analizzeremo ora le vicende che interessano l'estrazione e lo sfruttamento di una lunga serie di altri minerali; in particolare ferro e piombo (316). Tali attività, infatti, a differenza di quella dell'allume, che ha lasciato una straordinaria documentazione descrittiva, contabile e cartografica nei documenti della Camera Apostolica (oggi conservati presso l'Archivio di Stato di Roma, fondo Camerale III) e negli studi eseguiti da insigni studiosi, primo tra tutti Delumeau, è poco conosciuta, appena studiata e poco valorizzata sebbene sia testimoniata da un cospicuo numero di documenti. Questi dimostrano come tale coltivazione si sviluppò precedentemente a quella alluminifera e prosegui, con fasi alterne, fino all'età moderna dando spesso risultati non trascurabili. Di certo la rilevanza storica di questa attività fu offuscata da quella più imponente e più importante dell'allume.
La prima esplicita menzione di una presunta attività estrattiva del ferro, riconducibile con buona probabilità all'area tolfetana, risale al 1173 (317). Il documento in questione, testimoniato dal Muratori, riporta il contenuto di un'alleanza politico-economica stipulata tra la repubblica Marinara di Pisa ed il neo Comune di Corneto (318). Nel documento è espressamente detto: "Devetum non facemus nec constrictum alicui homini, Cornietum ire volenti, excepto de vena ferri.", ciò significa che i pisani non ponevano ostacoli a chi avesse voluto commerciare con Corneto ad esclusione della vena di ferro, che probabilmente corrispondeva ad una miniera di ferro. Tale coltivazione apparteneva evidentemente al comune di Corneto, il quale si riservava l'estrazione e la commercializzazione del prodotto. Il documento non ci fornisce nessun'altra notizia relativa a questa vena né riporta alcun riferimento topografico; per questo risulta alquanto difficile identificare i luoghi dove avveniva quest'attività estrattiva. Vista, però, l'importanza che potrebbe avere per il nostro studio l'identificazione della località, si cercherà, con l'aiuto delle notizie a nostra disposizione, di delimitare il più precisamente possibile l'area di ricerca.
Secondo quanto scritto da diversi studiosi, gran parte dei monti della Tolfa, con il relativo bacino minerario, appartenevano sin dall'epoca Etrusca alla giurisdizione di Tarquinia-Corneto. Il Dasti (319) afferma che il territorio appartenente alla potente lucumonia di Tarquinia si estendeva dal fiume Fiora fino all'attuale territorio di Santa Marinella. Il Bastianelli (320), che grosso modo sì associa al Dasti, propone quale confine tra Cere e Tarquinia il fosso del Marangone, che segnava, così, il limite naturale tra i territori dei due importanti centri etruschi. Entrambi gli autori, quindi, concordano nell'assegnare a Tarquinia gran parte del bacino minerario comprendendo il "Campaccio", prossimo all'attuale Farnesiana, "Pian Ceraso" e soprattutto il bacino de la "Roccaccia" (Ferraria). Ancora più certa sembra la presenza politica e territoriale del comune di Corneto sul territorio in questione in epoca medioevale. E' sufficiente sfogliare le pagine dell'importante "Margarita Cornetana" per osservare come molti degli insediamenti situati nel territorio tolfetano fossero sottoposti alla giurisdizione di questo comune (321); in particolare Tolfa Vecchia, Monte Monastero, Sant'Arcangelo, Rota. Un'ulteriore riprova di questo stato di cose è il documento del 1461, di cui si è ampiamente parlato nella trattazione delle vicende dell'allume, nel quale il comune di Corneto partecipa alla divisione degli utili provenienti dall'estrazione dell'allume e "... aliis mineris et metallis diversis... ", insieme alla Camera Apostolica e a Giovanni da Castro. Come già abbiamo avuto modo di dimostrare precedentemente parlando dell'allume, la presenza di Corneto è spiegabile con il fatto che questa attività estrattiva si svolgeva in territorio sottoposto alla sua giurisdizione. E' interessante notare come il contratto del 1461 prevedeva non solo l'estrazione dell'allume ma anche di altri minerali e metalli. Si ricollega a questo discorso la testimonianza riportata dal Polidori in cui veniva concessa a Giovanni da Castro la possibilità " non solo di l'edifìttio per l'alume, ma anco di edificar forno di vena di ferro... "(322).
Sarà la stessa vena di ferro citata nel documento del 1173 ? Non siamo in grado di dare una risposta certa a questa domanda. E' interessante notare come l'attività fusoria sia archeologicamente documentata in questa zona; scorie di fusione sono tutt'ora recuperabili alla Farnesiana, a Cencelle, nella piana del Mignone e nei pressi del Casalaccio. Ma le prime testimonianze certe relative all'estrazione e la lavorazione del ferro sui monti della Tolfa si hanno con l'insediamento medioevale di Ferraria.
Della rocca di Ferraria, oggi quasi totalmente distrutta, restano le rovine di una torre, probabilmente a pianta quadrata, di cui è ancora visibile un lato largo circa 5 metri e alto circa 13 metri, costruito con pietra locale. E' interessante notare come dai calcinacci di un recente crollo di una parte della torre è stata recuperata una scoria di fusione. Altre strutture, probabilmente a destinazione abitativa, sono individuabili alle pendici del colle. Di recente è stato riportato alla luce il perimetro di una chiesa e i fregi del portale (323). Il "castrum" di Ferraria si trovava a sud-ovest rispetto agli attuali paesi di Tolfa e Allumiere, su un colle oggi denominato "Roccaccia". Con molta probabilità doveva il suo nome all'attività che qui si svolgeva e per la quale fu costruito: lo sfruttamento e la lavorazione del ferro. Dall'alto del suo colle (circa 385 m. s.l.m.) il "castrum" di Ferraria doveva controllare l'intera valle del Marangone dove si trovava, e si trova tuttora, uno dei distretti minerari più ricchi della zona, specialmente per ciò che riguarda il ferro. Riportiamo a conferma di ciò le parole del Lotti: "..l'affioramento principale della Roccaccia é costituito da una grossa amigdala di limonite ed ematite (324) presso il contatto fra grossi banchi di calcare al tetto e scisti alterati al letto. In alcuni punti è manifesta la sostituzione chimico-molecolare del minerale di ferro al calcare.
Nel fosso delle Carriole, sul lato opposto della stessa collina della Roccaccia, vedesi affiorare un 'altra massa ferrifera che per la sua posizione si direbbe in connessione con la precedente "(325).
La posizione strategica della "Roccaccia" dovette favorire verosimilmente la sua frequentazione sin dall'antichità. Sono stati infatti rinvenuti reperti archeologici che testimoniano una presenza continua dall'epoca antica fino a tutto il Medioevo (326). Il primo documento in cui è espressamente nominata la rocca di Ferraria è il testamento nuncupativo del cardinale diacono di S. Maria in Cosmedin Giacomo Savelli futuro papa Onorio IV (1285-1287) risalente al 24 febbraio 1279 (327). Nel testamento, che nomina come eredi il fratello Pandolfo Savelli ed il nipote Luca, è detto: "... item habemus in partibus Tuscie, Tuscanelle et Viterbiensis Diocesis, tres partes Castri Ferrariae... ". Qualche anno più tardi il 5 luglio 1285, pochi mesi dopo essere stato eletto papa, Giacomo Savelli confermò il testamento del 1279. Nel documento è scritto: "... duos partes Scrofano cum castro suo ferrarie... "(328), a dimostrazione che Giacomo fosse nel frattempo divenuto unico proprietario del castello. E' da rilevare che in quel periodo i Savelli erano presenti in questo comprensorio in posizione preminente. Ritroviamo, infatti, Pandulfo de Sabello nipote di Giacomo (Onorio IV), quale Rettore in Corneto (329).
Da queste prime notizie non si riesce ancora a localizzare precisamente la posizione di Ferraria, si capisce, però, che la rocca si trovava nelle parti della Tuscia, nella diocesi di Viterbo-Tuscania.
La conferma di tale ipotesi è rappresentata dal Rendiconto della Decima sessennale, 1274-1280, "pro Terre Sancte subsidio ", ossia la prima raccolta di denaro, regolarmente organizzata dallo Stato Pontificio, per finanziare la Crociata. In tale rendiconto viene appunto elencata anche la chiesa di Ferraria , tra quelle sottoposte alla diocesi di Viterbo: "... item in cippo ecclesie de ferrari nihil, quia fractum"(330). Il documento ci informa che in quel borgo minerario esisteva una chiesa, entro la quale era stato posto un cippo per la raccolta delle decime, ma che in occasione della venuta del sub-collettore, nel giugno 1279, non fu possibile riscuotere nulla in quanto fu trovato rotto e senza alcuna offerta. Probabilmente il fatto preludeva ad una lenta decadenza del centro e ad un suo momentaneo abbandono che dovette avere però breve durata, visto che i reperti ritrovati lungo le pendici del castro documentano una continuità di vita anche nei secoli successivi, il XIV ed il XV.
Il Signorelli (331) ci informa che nel 1287 il vescovo di Nepi, nativo di Corneto, nella sua qualità di vicario spirituale del Patrimonio, delegò il preposto di S. Biagio di Corneto quale commissario nei castelli di Corneto, Montalto, Centocelle, Civitavecchia, Tolfa Vecchia, Tolfa Nuova, Ferraria e Tarquinia per risolvere una lite riguardante il convento della trinità di Viterbo.
Il XIV sec. si apre con un'interessante notizia. Il 1 settembre 1308 il comune di Corneto riacquista da alcuni nobili veneziani i diritti sulle gabelle del sale e "della vena di ferro di Corneto "(332) che in precedenza erano stati acquistati dai seguenti veneziani: Ottolino Rosso, Pietro e Andrea Zeno, Filippo Cornaro, Francesco Della Scala e altri soci. Anche in questo documento non è precisato dove si trovasse la vena di ferro: potrebbe essere la stessa già citata nel 1173 e allora la ricerca andrebbe indirizzata nei dintorni della Farnesiana o di Corneto; come pure è probabile che sia una vena di ferro posta nella zona di Ferraria, centro sorto appunto per la lavorazione di questo minerale. E' certo comunque che il documento suggerisce una notevole commercializzazione del ferro tanto da interessare mercanti veneziani.
La certezza della posizione topografica di Ferraria è data dal contenuto di una sentenza emessa il 24 giugno 1319 dai senatori romani Pietro e Giacomo Savelli in riferimento ad una disputa nata tra la Camera Urbana e un nobile romano Francesco Gavellutis per dei fondi che quest'ultimo possedeva a sinistra del fiume Mignone comprendenti la Torre d'Orlando e la Torre di Bertaldo. Nel documento sono riportati i seguenti confini: "... ab uno latere tenimentum Civitate Vetula, ab alio tenimentum castri Ferrarie, ab alio tenimentum Centumcellarum, ab allo tenimentum Corneti, ab alio est mare”(333). Per tutto il XIV secolo non abbiamo altre notizie riguardo a Ferraria; si può, comunque, ipotizzare una continuità abitativa della rocca, che sarà legata alla famiglia dei Prefetti Di Vico così come è avvenuto per Civitavecchia e Tolfa Nuova. In tal caso si spiegherebbe la notizia del 1380 secondo la quale Francesco Di Vico inviò delle bombarde alla Repubblica di Venezia convalidando i sopra esposti rapporti commerciali. (334)
Altre notizie di un certo interesse relative al castrum di Ferraria le troviamo nel Registro del sale e del focatico pubblicato dal Toinassetti (335). In tale registro, che secondo l'autore risale al XIV secolo, Ferraria è tassata per 5 rubbie semestrali (10 annuali), gli altri centri della zona sono tassati Tolfa Nuova per 30 rubbie semestrali, Tolfa Vecchia per 15. Nel registro del 1446-1447 (336) Ferraria risulta tassata per 10 rubbie semestrali mentre per le altre località le cose rimangono invariate. Indubbiamente questo aumento del consumo del sale e conseguentemente della popolazione che .gravitava attorno a Ferrarla, può essere giustificato soltanto con una ripresa o un aumento dell'attività mineraria.
Con l'inizio del XV secolo si ha, per la prima volta, la comparsa degli Orsini sui monti della Tolfa. Giovanni XXIII, infatti, in pieno scisma, infeudò Giovanni Orsini del Vicariato di Tolfa Nuova, Ferraria, Monte Castagno e Valle Marina (337). Da questo momento in poi le sorti di Ferraria saranno legate a quelle di Tolfa Nuova che diventerà il centro più importante del nuovo feudo.
Ci sembra giusto a questo punto fare una considerazione. Sebbene non possediamo documentazione scritta che lo confermi, si può, con una certa ragione, pensare che già prima dell'infeudazione del 1410 il castello di Ferraria gravitasse nell'orbita dell'altro centro, più importante, di Tolfa Nuova, che per densità demografica e per estensione del territorio che amministrava non poteva non avere determinato una giurisdizione e un controllo su Ferraria. Si spiegherebbe così il costante interesse dei signori del tempo, in particolare dei Di Vico, per il controllo di Tolfa Nuova che veniva ad avere una certa importanza economica, dovuta, principalmente, al controllo del bacino minerario e delle sue ricchezze che essa esercitava. Si spiegherebbe ancora perché fino al momento della sua distruzione Tolfa Nuova ebbe una preponderanza demografica e territoriale sul vicino centro di Tolfa Vecchia, il quale acquistò prestigio e importanza soltanto dopo l'avvio dell'impresa dell'allume e il conseguente spostamento a nord del baricentro dell'interesse economico.
L'analisi appena svolta, attenta alle prime notizie relative all'estrazione e alla lavorazione del ferro nel Medioevo e ai primi documenti sul "castrum" di Ferraria, è importante in quanto fornisce interessanti risposte al problema dello sfruttamento delle risorse metallifere prima dell'avvio dell'industria dell'allume. Dimostra, infatti, che ancor prima che la grande macchina dell'allume si mettesse in moto, era già in atto, sulle colline tolfetane, un processo di sfruttamento delle risorse minerarie che condizionò la vita di quei luoghi e favorì la nascita e l'affermazione di alcuni centri situati in posizione strategica rispetto al bacino minerario.2. FERRARIA: DA CENTRO MINERARIO A TENUTA SILVO-PASTORALE.Come si è brevemente accennato in precedenza, l'inizio del XV secolo segnò per la rocca di Ferraria una svolta storica importante. Il provvedimento adottato da Giovanni XXIII (1410-1415) portò alla creazione di un feudo unico che riuniva: Tolfa Nuova, Ferraria, Monte Castagno, Valle Marina. Tale feudo fu assegnato a Giovanni Orsini, figlio di Francesco, che aveva sposato una parente del papa e che sarà padre di quel Francesco Orsini creato prefetto nel 1435 e fondatore del ramo di Gravina (338). Da questo momento in poi Ferraria sarà direttamente assoggettata alla più importante rocca dì Tolfa Nuova, che diventerà il centro predominante all'interno del feudo.
Nonostante l'aumento del consumo del sale, che si ebbe nella prima metà del Quattrocento, causato forse dall'incremento demografico dovuto alla ripresa dell'attività estrattiva (339), il destino di Ferraria, così come quello di tutti i centri che avevano una qualche vocazione mineraria, sarà ben presto segnato dall'imponente ascesa dell'industria alluminifera. Quest'ultima, grazie ai grandi profitti che produrrà, attrarrà verso di sé ogni tipo di interesse, tanto che le altre attività minerarie passeranno praticamente inosservate.
Sicuramente la coltivazione del ferro e degli altri minerali proseguirono anche dopo l'apertura delle cave di allume. Si può però ipotizzare uno spostamento di tale attività verso zone più accessibili e più convenienti; magari più vicine alle cave di allume. Sembrerebbe questo il caso riportato dal Polidori (340) in cui Giovanni da Castro ottenne facoltà di costruire un forno per lo sfruttamento di una vena di ferro situata nei pressi delle cave d'allume, nella località ora chiamata "Campaccio", nelle vicinanze della Farnesiana.
Ritornando alle notizie riguardanti il "castrum" di Ferraria, la documentazione riprende sul finire del XV secolo. Le diverse testimonianze a noi pervenute, hanno in comune la caratteristica di essere tutte conferme del vicariato fatte dai vari pontefici ai rappresentanti della famiglia Orsini (341). Nel 1484 Innocenzo VIII (342) confermò il vicariato di Tolfa Nuova, Ferraria, Monte Castagno e Valle Marina per metà a Raimondo Orsini che aveva venduto l'altra metà all'ospedale S. Spirito in Sassia. Ritroviamo di nuovo Ferraria nel 1492, quando Alessandro VI confermò di nuovo iI feudo di Tolfa Nuova, Monte Castagno, Ferraria e Valle Marina a Francesco Orsini, duca di Gravina, "pro se et successoribus in perpetua sub annuo censo consueto "(343).
Altra conferma agli Orsini fu fatta da Giulio II nel 1504 (344). L'ultima notizia riguardante il castrum di Ferraria risale al 1513, anno in cui Leone X confermò la metà del vicariato di Tolfa Nuova, Monte Castagno. Valle Marina e Ferraria a Ferdinando Orsini e fratelli, alle stesse condizioni imposte da Alessandro VI (345). Bisogna aggiungere però, che ormai le rocche suddette non esistevano quasi più. Il castello di Tolfa Nuova era stato distrutto nel 1471 e gli altri avevano seguito la stessa sorte. Da questo momento in poi Ferraria perderà la sua vocazione mineraria trasformandosi in tenuta destinata principalmente all'allevamento.
Nel capitolo per l'appalto dell'allume del 1578, concesso dalle autorità camerali a Bernardo Olgiati e G. Francesco Ridolfi, tra l'altro è scritto: "Il Perché nel carreggiar li Allumi a Civita Vecchia ci é bisogno della tenuta di Ferrara a commodità della posta delli Bufali promette la detta Camera che il Dohaniero pro tempore delle pecore consegnerà ogni anno alli Appaltatori detta tenuta per il prezzo che li Grimaldi & moderni Appaltatori l'hanno continuamente havuta havendone però essi bisogno per tal uso"(346). Ferraria si era trasformata in tenuta agricolo-pastorale usata dagli appaltatori delle allumiere per far sostare gli animali utilizzati per il trasporto dell'allume a Civitavecchia. Un'ulteriore conferma della riduzione a tenuta agricolo-pastorale di Ferraria la troviamo nella Costituzione emanata nel 1580 da Gregorio XIII. Tra i luoghi che componevano la dogana delle vacche e delle pecore nella provincia del Patrimonio figurano: "Ferrara di vacche" e "Ferrara di pecore"(347). Altre testimonianze in questo senso le ritroviamo anche nei secoli successivi quando il territorio di Ferraria continuò ad essere sfruttato per fini pastorizi ed agricoli, perdendo così definitivamente quella vocazione mineraria che era stata, quasi certamente, la causa principale della costruzione del castrum (348).
A conclusione del discorso sul "castrum" di Ferraria vogliamo riportare alcune notizie relative agli altri centri che fecero parte del feudo di Tolfa Nuova e che ebbero, sicuramente, qualche legame con l'attività estrattiva: Monte Castagno e Valle Marina.
Il primo documento in cui è espressamente nominato Monte Castagno risale al 1334 ed è conservato nella Biblioteca Vaticana. Il documento ci informa che "Castri Montis Castanee" è uno dei confini del Castello del Sasso "... a quarto tenimentum Castri Montis Castanee..”.(349)
Nell'atto di vendita del "castrum Carcari" del 1348 è riportato di nuovo Monte Castagno che confinava a nord con i feudi di Tolfa Vecchia e Rota, a sud con quelli di Carcari e del Sasso, a ovest con quello dí Tolfa Nuova ed a est con la chiesa medievale del Ferrone (ignorata dai documenti). Monte Castagno è quindi identificabile topograficamente con l'omonimo colle, localmente denominato "il Castellaccio". La sua vicinanza al Castrum di Ferraria e Valle Marina, fa presumere che il centro fosse parte integrante del bacino minerario; forse anche questa fortezza, come quella di Ferraria, era nata con la funzione di controllo delle ricchezze minerarie. Dopo la costituzione del feudo di Tolfa Nuova, Monte Castagno seguì le stesse sorti degli altri centri. Così come Tolfa Nuova e Ferraria, con la nascita e lo sviluppo dell'industria alluminifera conobbero un repentino declino, anche Monte Castagno decadde riducendosi a tenuta agricola.
Valle Marina (350), nominata nell'infeudazione agli Orsini, doveva essere una considerevole tenuta appartenente a Tolfa Nuova, della quale seguì le sorti. Può essere identificata con l'attuale "Valle Cardosa" dove si trovano antiche strutture e i resti di una strada antica, probabilmente romana, che univa l'antica Pyrgi (S. Severa) con i monti della Tolfa.

3. LA RICERCA DEI MINERALI METALLICI NEL XV SECOLO.

Abbiamo avuto modo di parlare ampiamente del contratto del 1461 in cui, oltre alla regolamentazione dell'estrazione dell'allume, si regolamentava l'estrazione di ogni altro minerale e metallo che si potesse rinvenire sia nel territorio di Corneto che in quello della Chiesa di Roma. Contemporaneamente a questo documento abbiamo un'altra testimonianza, molto interessante, lasciataci da un cronista dell'epoca: il grammatico Gaspare da Verona. Nell'opera "De gestis Pauli Secundi"(351) l'autore narra le vicende accadute durante il suo soggiorno sui monti della Tolfa nell'anno 1461, cioè contemporaneamente alla ratifica del primo contratto dell'allume.
"Pauloque post cum audisset Gaspar Veronensis a Ludovico domino Tulfae, illic est quaedam signa minerarum auri atque argenti, factus est Ludovicos Gasparis compater et ambo ex urbe abierunt Tulfam et coepit Gaspar effodere et apertissime invenit vestigia quaedam optimorum metallorum una cum Johanne Jurdi catalano, qui siculus dicitur, perspicacissimo in his rebus magistro et artifice et aurifabro incomparabili, qui hoc tempore una cum Paolo Romano affabre fabricatopera summi Pontificis, et vasa et mitras et tallla; cuius, de Johanne Loquor, integritas praeterit omnem cuiusque viri bonitatem, et in his rebus parem iudicio meo nusquam habet. Effecit autem grandem cavum in monte Gaspar Veronensis, ubi miras mineras (sic enim appellant) invenit. Inde prosequti sunt nomine pontificum, praesertim pontificis Pauli Secundi, effoderunt semperque melius et utilius inverunt inventumque iri creduntur atque sperantur "(352).
In sostanza mentre Giovanni da Castro e la Camera Apostolica regolamentavano l'attività estrattiva, il Veronese soggiornava a Tolfa Vecchia per eseguire esplorazioni e scavi sui monti alla ricerca di facili guadagni. Il Veronese riporta, tra l'altro, che all'epoca Tolfa Vecchia era posseduta da due fratelli Ludovico e Pietro "optimi viri" che avevano dotato il paese delle mura "qui prius, incultus, informis, rusticanus sine mure fuit"; che il merito della "scoperta" dell'allume andava anche all'astrologo Domenico Zaccaria che, non riconosciuto da Pio II, fu gratificato da Paolo II; che i proventi dell'industria ammontavano a 80.000 ducati all'anno.
Da questo momento in poi si susseguirono numerosi tentativi di ricerca di minerali, specialmente preziosi (oro, argento, piombo), autorizzati dalla Camera Apostolica che cercherà così di reperire materia prima indispensabile per la zecca di Roma. Ai fatti di cui si sta parlando, alludono, sicuramente, i versi del Campano riprodotti nei "Commentari" di Pio II che qui riportiamo:"Esse tuos coelos tantum qui dixerit errat Deque Pii longe fallitur imperio
Ipsa etiam tellus quod habet tibi contulit et se
Praebuit eruptis prodiga visceribus
Parte alia raucum aes aliaque excussit alumen
Datque alio argentum tertia vena loco Abdita telluris grembo haec latuere tot annos
Et soli domino nunc patuere suo
Tu quod nunc auri restat, ditissima tellus, Ne furti rea sis, hoc quoque redde Pio"(353) .Durante il pontificato del veneziano Paolo II proseguirono le ricerche dei minerali preziosi e degli altri metalli, specialmente da parte di personaggi provenienti dal Veneto.
Nel 1466 Paolo Hogueben, cittadino di Venezia, venne nominato "Primo Generale Maestro Governatore e Direttore delle miniere pontificie"(354). L'anno successivo, il 26 gennaio 1467, furono dettati i capitoli della convenzione per lo sfruttamento di tutte le miniere d'oro, argento e altri minerali presenti nelle terre soggette alla Chiesa. Dal contenuto di questi capitoli sembra che le autorità camerali dovessero contare molto sull'abilità tecnica e sulla fama di esperto, in materia estrattiva, dell'Hogueben. Gli attribuirono, infatti, il potere di designare il suo successore, di ingaggiare i maestri e gli operai necessari per le opere di estrazione e trattamento dei minerali, di costruire gli edifici atti ad ospitarli, di prendere in qualsiasi luogo, senza nessun pagamento di dazi o tributi, il grano necessario al loro sostentamento. Purtroppo non abbiamo notizie sui risultati ottenuti dall'operato dell'Hogueben.
Nello stesso anno in cui era avvenuta la nomina di Paolo Hogueben, il 17 maggio 1466, sappiamo che un certo "Iohanne de Bosnia, magister et inventor minerarum " riceveva dalla Camera Apostolica una sovvenzione di 4 ducati e che nel febbraio 1468 allo stesso Giovanni venivano saldati i conti "pro totali satisfactione et integro residuo et solutione omnium suarum operarum circa mineras seufodinas argenti' (355). Il 17 maggio 1467 la Camera Apostolica pagava 30 fiorini a Francesco di Venezia "... de mandato s. d. n. pape misso ad minerias novas argenti "(356). Come Giovanni di Bosnia, così Francesco di Venezia, (357) che nel frattempo era stato nominato commissario delle miniere di argento, terminava la sua opera nell'aprile del 1468, quando venne saldato il suo credito dalla Camera Apostolica.
Pare che nel 1468 fossero svanite, per il momento, le speranze di facili guadagni derivanti dallo sfruttamento dei minerali preziosi, specialmente l'argento. Ma i tentativi si rinnovarono pochi anni dopo quando Sisto IV, seguendo le orme del suo predecessore, intraprese ed intensificò le ricerche minerarie. Il 10 novembre 1471 il papa concedeva a Stefano di Antonio Alani, cittadino romano e suo familiare, piena facoltà "faciendi, laborandi, cavandi et edificia ibidem, quae ad tuum opus necessaria duxeris, costruendi"(358) in tutte le terre soggette alla Chiesa e lo nominava commissario delle miniere d'oro, d'argento e di altri minerali.
Un'ulteriore concessione fu rilasciata dalle autorità camerali il 6 settembre 1473. Questa volta non si trattava di un singolo cittadino ma di una società costituita da italiani e stranieri. Facevano parte di detta società Giacomo Taruga, nei documenti chiamato "purificator metallorum ", che doveva essere il tecnico minerario, Pietro di Cordova e Goffredo Marturel, che dovevano fornire i capitali necessari, e un certo Giovanni Sartori familiare del papa. (359) La concessione quarantennale conferiva alla società la facoltà di ricercare nel Patrimonio soggetto alla Chiesa oro, argento, rame, piombo, stagno ecc. Altri capitoli dovevano completare il testo dell'accordo che purtroppo è arrivato a noi incompleto. Per quanto riguarda i risultati ottenuti dalle ricerche anche in questo caso non abbiamo notizie. E' però certo che né i privati, né il governo si vollero arrendere alle difficili ricerche. Prova ne è che soltanto due anni dopo, il 13 gennaio 1475, la Camera Apostolica concedeva licenza a Giovanni Damiano di Messina e ad Antonio Colamaterloni di Terracina di ricercare in tutto il territorio sottoposto alla Chiesa oro, argento, piombo e ogni altro metallo. Questa volta, però, la durata della concessione fu ridotta a due anni, durante i quali i soci dovevano corrispondere alla Camera Apostolica metà del minerale scoperto. La breve durata della licenza, rispetto a quelle precedentemente ricordate, si spiega con il fatto che quest'ultima aveva come unico scopo quello della segnalazione delle vene rinvenute, senza prevedere alcuna opera di sfruttamento. Una licenza simile fu concessa, sempre nel 1475, a Giovanni Fernando Lopez per ricercare, per un semestre, ogni vena d'oro, d'argento o d'altro metallo, in tutto lo Stato Pontificio; senza nessun obbligo, salvo quello di presentare, allo scadere dei sei mesi, un resoconto alla Camera Apostolica circa i risultati ottenuti dalla sua ricerca (360).
Poco tempo dopo, il 18 marzo 1476, un abitante di Narnia (361), un certo Nuccio di Risis, otteneva licenza quarantennale per ricercare e sfruttare in tutto il territorio ecclesiastico miniere d'oro, d'argento, piombo, stagno, ferro, vetriolo e altri metalli "ut bona que sub terra sunt in lucem ad humanam comoditatem extrabantur"(362). Un'altra licenza venne rilasciata il 28 marzo 1477 ai genovesi Cristoforo di Rapallo, Domenico Alberto (commensale del papa Sisto IV) e a Mariano Evangelista da Terni. La licenza era valida per due anni e dovette dare qualche risultato se l'anno successivo, il 2 aprile 1478, fu rinnovata per un altro biennio.
Ci si chiede, a questo punto, quali fossero le motivazioni che spinsero la Camera Apostolica a concedere una così lunga serie di licenze in un arco di anni così breve. Le risposte possono essere diverse. In primo luogo va registrato il grande entusiasmo provocato dalla scoperta delle ricchezze minerarie dei monti della Tolfa; scoperta che spinse molti ricercatori, affascinati dalla possibilità di facili guadagni, a ricercare ogni tipo di minerale. Va poi considerato l'interesse statale verso la ricerca di. minerali, quali piombo e argento, dovuto alla necessità di reperire la materia prima indispensabile per la zecca di Roma. Per ultimo si può ipotizzare che il motivo per cui la Camera Apostolica rilasciasse tante concessioni, va ricercato nel fatto che, molto spesso, le ricerche non portavano ai risultati sperati a causa, forse, dell'incapacità tecnica o dell'inesperienza dei ricercatori. Dovette essere stata quest'ultima causa il motivo per cui il 10 marzo 1479 la Camera Apostolica si rivolgeva alla perizia tecnica di Giovanni Klug di Friburgo nominandolo “primus et generalis magister et ductor" di tutte le miniere dello Stato Pontificio e in particolare della miniera "argenti et plumbi" che si era cominciata a scavare da tempo "in locis proximis minere aluminis s. cruciate "(363).
Quest'ultima notizia è molto interessante in quanto mostra chiaramente che le miniere d'argento e piombo di cui si sta parlando si trovavano nelle vicinanze delle miniere di allume della Santa Crociata, quindi nei monti della Tolfa. E' questa un'ulteriore conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, del fatto che, parallelamente all'industria alluminifera, furono portate avanti, nella regione tolfetana, attività estrattive di altri minerali. Sarebbe molto interessante riuscire a localizzare le suddette miniere, ma per il momento non abbiamo nessuna testimonianza che permetta di farlo.
Il XV secolo si chiude con altri due documenti inerenti all'estrazione degli altri minerali e metalli; uno porta la data del 20 maggio 1482 e riguarda, la concessione perpetua rilasciata ad Alfonso di Carlo Gaetani per la ricerca di qualsiasi minerale in prossimità forse di Corneto, l'altro tratta della concessione rilasciata il 28 aprile 1484 a Giovanni Ruspe de Ferberch di Misna per ricercare in tutto il territorio della Chiesa oro, argento, piombo ed ogni altro metallo (364).

4. ATTIVITA' MINERARIA NEL XVI SECOLO.

Il XVI secolo si aprì con una licenza, datata 15 aprile 1510, rilasciata dalla Reverenda Camera Apostolica a Ottaviano da Castro, nipote del più noto Giovanni, "scopritore" dell'allume, e ai suoi eredi (365). La concessione era perpetua e prevedeva la ricerca di ogni tipo di metallo e minerale nel territorio appartenente alla Chiesa. Le autorità camerali, precisa il documento, "... concesserunt ex consulta deliberatione in Camera Apostolica (acta predicto licentiam et liberam facultatem auctoritatem perquirendi et inveniendi et inventar fodiendi sive effodi omnes et singulas speties minerarum et metallorum videlicet auri, argenti, aeris, stagni, plumbi, ferri, antimonii, elettri, argenti vivi, sulphuri et colorum cuiuscumque qualitatis, necnon lapidum videlicet marmoris, alabastri, haspidis et ceterorum omnium et singulorum lapidum mineralium... "(366). Ad Ottaviano e ai suoi successori venne concesso anche il diritto di segnare tutti i prodotti con il loro stemma e con il marchio della Chiesa: le chiavi decussate.
Il punto più importante del documento in questione è, probabilmente, quello in cui è detto che il concessionario doveva denunciare e descrivere le miniere scoperte qualora avesse pensato di metterle in efficienza. Adempiuto all'obbligo della notifica egli poteva dare inizio, senza bisogno di ulteriori licenze, alle attività minerarie. Nei primi due anni di attività il concessionario doveva versare alla Camera la ventesima parte, ossia il 5%, del prodotto lordo. Passato il biennio la parte spettante alle autorità camerali aumentava al 10% e tale doveva restare in perpetuo.
Due mesi dopo il rilascio della concessione, il 28 giugno 1510, Ottaviano denunciò ben quattro miniere di una certa consistenza (367). La prima era costituita da un giacimento di rame di ottima qualità, misto ad oro e argento; si trovava nel territorio del Patrimonio era ignorata, almeno come cava di rame, e ormai abbandonata. La presenza dell'argento fa pensare che la cava si trovasse nel bacino minerario della Tolfa, dove, come ha messo in evidenza lo Zippel (368), venivano svolte attività minerarie atte allo sfruttamento di vene argentifere. La seconda, anch'essa di rame, si trovava nei monti vicini alle "Lumiere", quindi sui monti della Tolfa e più precisamente nel luogo
. denominato "El pozo de la Stella"(369). Nella terza miniera descritta nella relazione, situata anch'essa sui monti della Tolfa, furono rinvenute pietre colorate volgarmente dette "azurro ". L'ultimo giacimento denunciato dal da Castro si trovava nel territorio di Tolfa Vecchia, andando dal paese al mulino antico. Era costituito da gessi lucidi e gessi normali (selenite). Oltre a notificare il ritrovamento delle cave, Ottaviano presentò alle autorità camerati alcuni campioni dei singoli minerali rinvenuti per provare la loro qualità e rendimento.
Questa volta il da Castro poté dimostrare che le sue speranze erano veramente fondate. Anzi si può ipotizzare che alla data dell'accordo egli conoscesse già i giacimenti che appena due mesi dopo notificò alla Camera Apostolica.
Dopo aver parlato del contenuto della concessione e delle notifiche dei giacimenti fatte da Ottaviano, è bene precisare che mancano notizie certe e dettagliate sui lavori estrattivi compiuti. Di certo possiamo dedurre che l'attività portata avanti dal da Castro non fu infruttuosa e infeconda se nel 1552, dopo più di un quarantennio, la Camera Apostolica, nel concedere a Balduino de Monte fratello di Giulio III la licenza per ricercare ogni specie di minerale nel territorio della Chiesa, si preoccupava di tutelare i diritti acquisiti precedentemente da Ottaviano e dai suoi eredi. Nel documento di concessione rilasciato a Balduino de Monte è detto anche che Paolo da Castro, nipote di Ottaviano e suo erede, aveva chiamato a collaborare nelle sue miniere il fiorentino Bindo Altoviti (370).
E' interessante notare come, sfruttando la facoltà prevista dalla concessione di Ottaviano di cedere ad altri la propria quota parte, Paolo da Castro riuscì, con grande abilità, a trarre gran profitto dalla concessione mineraria ereditata dalla zio Ottaviano. "Possit idem D. Octavianus suique haeredes, et successores quandocumque vellent, et ducerent opportunum assumere et nominare quotcumque et quoscumque socios, et participes capitulorum facere quo ad utilitatem percipiendo, prout in dictis capitulis"(371), diceva il testo della concessione rilasciata ad Ottaviano e riconfermata da Leone X. Sulla base di tale diritto Paolo cedette una quota a Ferrante, Galeazzo, Fabio e Marco della famiglia Farnese, formando con loro una compagnia che doveva sfruttare le risorse minerarie, soprattutto ferro e vetriolo, nei territori di Giove, Farnese e Latera. La partecipazione dei Farnese ai diritti di Paolo da Castro fu un vero affare per quest'ultimo. Basti pensare che il prezzo della partecipazione pagato dai nuovi soci fu nientemeno che il palazzo di Agostino Chigi, acquistato poco prima dai Farnese e noto, ancora oggi, con il nome di Farnesina (372). Un simile accordo sta a dimostrare che le possibilità minerarie dello Stato Pontificio dovevano essere notevoli e anche gli utili derivanti dalle attività estrattive non dovevano essere esigui, se i Farnese furono disposti a pagare un prezzo così alto per un parziale diritto di concessione mineraria relativa ad un territorio abbastanza limitato.
Ritornando alla concessione rilasciata il 5 dicembre 1552 a Baldovino de Monte, sappiamo che qualche anno dopo, tra il 1552 e 1559, questo costituì una società con Paolo da Castro. Dopo il tracollo finanziario di Baldovino, il figlio Fabiano, nel tentativo di ricostruire il patrimonio familiare, volle entrare nella società costituita da Paolo da Castro, alla quale si aggiunsero, qualche tempo dopo, i fratelli Francesco, Fortunato e Clemente Buccelleni di Brescia. Il 26 maggio 1565 Clemente Buccelleni aprì una ferriera utilizzando il ferro dei monti della Tolfa. Così riporta il Ponzi: "Un tal Clemente Buccileni, bresciano, abitante nel castello di Monterano ora diruto, padrone del forno posto in quel territorio, nella contrada Le Perazzete, ove si cola la vena del ferro della Tolfa, inaugurò la lavorazione alla presenza di un gran concorso di gente, con una messa solenne e un gran pranzo, di cui tutti gl'invitati restarono soddisfatti"(373).
Questa notizia è particolarmente importante in quanto permette di arrivare ad alcune interessanti conclusioni. In primo luogo conferma che alla metà del XVI secolo veniva praticata sui monti della Tolfa l'estrazione del minerale ferroso. Attività che, come abbiamo già avuto modo di affermare, si era spostata, dopo l'avvio dell'industria dell'allume e la conseguente decadenza del vicariato di Tolfa Nuova, Ferraria, Monte Castagno e Valle Marina, dal tradizionale bacino minerario verso nuove direzioni. Si ha poi l'ulteriore conferma del fatto che i monti della Tolfa furono teatro, durante i secoli XV e XVI, di continue ricerche minerarie che si affiancarono alla più nota impresa dell'allume. In linea di massima si può notare come nel corso del XV secolo le ricerche si indirizzarono in particolar modo verso quei minerali che potremmo definire preziosi (oro, argento, ecc..) e che diedero vita a quella che potremmo definire una vera e propria corsa all'oro. Nel secolo successivo, invece, a causa del massiccio afflusso di metalli nobili provenienti dal "nuovo mondo" e della conseguente discesa dei prezzi di tali minerali, si avverte, su scala locale, una sostanziale diminuzione delle ricerche. L'attenzione si diresse allora verso il ferro. Prova ne è la notizia dell'apertura di una ferriera da parte di Clemente Buccelleni che sfrutterà la vena di ferro della Tolfa.
Prima di proseguire nell'analisi dello sfruttamento delle risorse minerarie in età moderna, ci sembra utile riportare un'ulteriore notizia, risalente sempre al XVI secolo, degna di particolare attenzione. Come era avvenuto nel secolo precedente, quando le supposte ricchezze del sottosuolo avevano indotto esploratori e ricercatori a soggiornare nella regione tolfetana con la speranza di facili guadagni, così anche durante il XVI secolo furono molti i curiosi che vennero sui monti della Tolfa alla ricerca di minerali, specialmente, preziosi. Tra questi troviamo un ospite d'eccezione: Annibal Caro.
Un chierico della Camera Apostolica, monsignor Giovanni de' Gaddi (374) uomo colto e protettore di letterati, del quale Annibal Caro era segretario, aveva deciso di unirsi ad un tale che, in possesso di licenza per scavare presso Tolfa, prometteva grandi quantità d'argento e d'ogni tipo di metallo. E' così che nell'ottobre 1532 troviamo Annibal Caro, allora venticinquenne, al seguito del suo signore, in un viaggio esplorativo durato a lungo e del quale dà notizia in una colorita lettera ai familiari di lui: "Vassi ogni dì castrando montagne, ora quelle di Castro, or questa de la Tolfa. Si fanno saggi sopra saggi. Non si parla d'altro che di cave, di vene, di filoni, si disegnano spianate, tagliate, magazzini; gran cose s'imprendono, grandi speranze ci si danno "(375). Il tema della frenetica ricerca di materiali metallici ritorna anche nei versi che il giovane poeta inserisce a chiusura della lettera, destinati a Giovan Boni, un amico fiorentino che voleva notizie su Tolfa:La Tolfa è, Giovan Boni, una bicocca
Tra schegge e balze d'un petron ferrigno,
Ed ha `n cima al cucuzzol d'un macigno
Un pezzo di sfasciume d'una rocca.
Ora il piede or la mano mi si dinocca,
Mentre che nel cader mi raggavigno (376);
Che punto ch 'un traballi o vada arcigno
Si trova manco qualche dente in bocca.
In somma altro non c'è che grotte e spini,
E cave, e catapecchie, e rompicolli:
Domandatene pur Cecco Lupini.
Noi ci stiam per aver di quei catolli (377),
Da far de le patacche (378) e de ' fiorini,
Poiché tu con gli tuoi non ci satolli.
Capre, pecore e polli
Ci cacan per le vie fagiuoli e ceci,
E noi co' piè ne, facciam soldi e beci (379).(Tabella 2)

5. L'UTILIZZO DELLE RISORSE MINERARIE IN EPOCA MODERNA: IL "DEFIZIO DEL PIOMBO" E IL "DEFIZIO DEL FERRO".

Dopo aver dimostrato, con buona attendibilità, che le risorse minerarie dei monti della Tolfa furono oggetto di sfruttamento in epoca precedente alla nascita dell'industria dell'allume e che la ricerca e l'estrazione di tali risorse proseguì anche durante il periodo di maggior splendore dell'impresa alluminifera, cercheremo ora di completare il quadro relativo allo sfruttamento dei minerali metallici, specialmente ferro e piombo, con una breve analisi delle vicende che si svolsero in questa regione tra il XVII e il XIX secolo.
L'estrazione ferrifera del XVII secolo è attestata con due notizie. La prima proviene da una lapide commemorativa rinvenuta in una vigna di Monterano. Il testo, datato 1612, ci infornra che un tal Pietro Camporio, Commendatore del S. Spirito, costruì un'officina ferraria nella contrada di Monteranno (380). La seconda è ripresa dal settecentesco manoscritto Buttaoni dove è scritto: "Fin dal/'anno 1650 Fran.co Boschi della Tolfa (...) trovò la miniera del ferro et avendo fatto una ferriera alla caduta del Callano (381), fosso ove si macerano li lini, e le canape cominciò à lavorare e far uso della vena trovata; et in oggi (il Buttaoni scriveva nel 1741) si vede in d.ta caduta del Callano la fabbrica dirupata della d.ta ferriera, con un gran piano di ferro, che serviva per incudine di d.ta ferriera, dalla quale anni sono fu distaccata la piccola incudine superficiale di acciaro. Era in quel tempo Governatore delle Lumiere un tal Grifoni, il quale udendo ben incaminate le cose del ferro volle essere à parte in d.to negotio con d.to Fran.co Boschi, dal quale essendo stato ricusato per compagno, questo accusò in Camera d.to Fran.co Boschi come usurpatore delle miniere, che spettano al Principe, essendo stata fatta tal cosa senza licenza del principe, per il che fu carcerato d.to Fran.co Boschi, e condotto à Roma, dove ebbe la città per carcere, et ivi morì nell'anno 1659, e fu sepolto in S. Agostino, e la Feriera andò in perditione, e non si pensò più alla vena di ferro”(382). Questa notizia, ripresa anche dal Breislak (383), ci fornisce varie informazioni, alcune delle quali sembrano degne di particolare attenzione.
Innanzi tutto si può osservare come il forte interesse dimostrato per questa impresa da parte del governatore delle lumiere, tal Grifoni, dimostra che le cose non andavano poi così male per il Boschi; anzi usando l'espressione contenuta nel manoscritto Buttaoni si può asserire che erano "... ben incaminate le cose del ferro... ".
Lo stesso governatore tentò allora in tutti i modi di entrare a far parte dell'impresa, ma non riuscendo nell'intento, denunciò Francesco Boschi davanti alla Camera di essere un usurpatore delle miniere, visto che aveva portato avanti i lavori senza la dovuta licenza. Per tale accusa il Boschi fu condotto a Roma e carcerato, lì morì nel 1659. Va aggiunto anche che l'impresa del Boschi è l'unica portata avanti direttamente da un tolfetano.
Con la notizia del Boschi si esauriscono le testimonianze relative ai tentativi di avviare delle ferriere nel territorio tolfetano nel XVII secolo.5.1. Il "Delizio del Piombo".Il rilascio di concessione per la ricerca dei minerali proseguì anche nel XVIII secolo. Nel 1732 fu autorizzato Stefano Sauli della terra di Monadi e Faenza a scavare nelle montagne della Tolfa "miniere d'oro, di argento, rame, piombo, ferro,(..) ed altri minerali'' (384). Come si può facilmente notare era questa una concessione molto ampia di cui però non si conoscono i risultati. Più tardi, sotto il pontificato di Clemente XII, con atto stipulato in data 3 Ottobre 1739 (385), fu rilasciata ad Alessio Mattioli da Camerino licenza per ricercare e sfruttare tutti i minerali e metalli, allume e zolfo esclusi, nei monti di Narni, della Tolfa e Guarcino. I nuovi tentativi di ricerca e sfruttamento dei vari minerali, in particolare ferro e piombo, facevano parte di una più ampia visione della ripresa estrattiva voluta da Clemente XII. Il papa tentava così di sopperire alla mancanza di introiti derivanti dall'industria alluminifera, in quel momento in piena crisi, con entrate alternative e al tempo stesso sperava di tenere occupata tutta la forza lavoro disponibile.
Il Mattioli, per garantirsi le necessarie disponibilità economiche, costituì una società in cui entrarono a far parte i signori Sacripanti, Ricci e Nicola Pierantoni. Ognuno dei soci doveva partecipare alle spese in ragione di 25 scudi mensili. L'accordo stipulato tra il Mattioli e le autorità pontificie prevedeva una serie di vincoli per le due parti. Il governo si obbligava a far costruire gli edifici necessari alle lavorazioni e trasformazioni del minerale, mentre il concessionario si impegnava a versare nelle casse dello Stato il 5% degli utili. Le ricerche eseguite dal Mattioli portarono al ritrovamento dell'antica miniera di ferro di Pian Ceraso e, ancora più importante, alla riscoperta di alcuni filoni di galena, minerale da cui si estrae il piombo, in località "Pozzarelle". Nella primavera del 1743 il papa Benedetto XIV fece venire a Tolfa Amedeo Bauer e Girgio Cristiano Ritter, minatori e metallurgisti sassoni (386). Il motivo per cui i due esperti furono chiamati era, almeno in principio, quello di verificare la bontà delle scoperte fatte dal Mattioli. Nel giro di poco tempo il Bauer e il Ritter si inserirono nella direzione delle miniere venendo così a sostituire il Mattioli, che, privo della fiducia del governo e delle disponibilità economiche garantite in precedenza dai soci, decise di ritirarsi dall'impresa.
Da buoni maestri dell'arte mineraria, i sassoni eseguirono una serie di ricerche in tutto il bacino minerario, con particolare attenzione alla località "Poggio della Stella" praticando alcuni scavi disegnati e descritti dall'architetto Francesco Navone nel 1774 (387). Tra le iniziative intraprese dai due metallurgisti tedeschi, quella degna di maggiore attenzione fu sicuramente la costruzione dell'edificio per la lavorazione del piombo. Il "Defizio del Piombo", costruito grazie all'intervento della Reverenda Camera Apostolica che sostenne le spese occorrenti, è ancora oggi visibile, anche se tutto l'insieme giace oramai in completo stato di abbandono, tanto che l'abbondante vegetazione non permette l'accesso e la totale visione delle strutture.
Dopo l'abbandono del Mattioli i sassoni lavorarono presso le miniere di "Pian Ceraso" poste di fronte alla chiesa di Cibona. Qui trovarono della galena che rendeva il 50% di piombo. Fu allora che il governo chiamò altri due sassoni destinandoli alla direzione della fonderia del "Defizio del Piombo" con lo stipendio mensile di 25 scudi ciascuno. I risultati ottenuti non furono, però, quelli sperati, tanto che si decise di sospendere i lavori e di mettere le miniere all'incanto con la condizione che l'acquirente avrebbe mantenuto i quattro sassoni al suo servizio. All'asta non si presentò nessun acquirente. Il governo decise allora di fare altri tentativi affidando la direzione delle lavorazioni di scavo prima ad un certo Amadei, poi, nel 1751, al capitano Giulio Contini. Nello stesso tempo vennero congedati i quattro sassoni che ormai non facevano altro che litigare tra loro, mostrando una forte gelosia verso i nuovi direttori (388). Anche questi tentativi, come quelli precedenti, non portarono buoni risultati, tanto che tra il 1752 e il 1773 i lavori furono sospesi.
Nel 1773 ripresero i lavori ad opera dei fratelli Girodetti, d'origine piemontese, ma anche in questo caso i risultati furono deludenti. Si decise allora di mantenere in attività soltanto la "Cava Grande". Nel gennaio 1779 fu concessa in appalto, per nove anni, la "Cava Grande" a Filippo Stampa; per agevolarlo gli fu concesso dal Governo un acconto di 3.000 scudi. Nonostante l'acconto lo Stampa, dopo 7 anni di ricerche mineralogiche, rescisse il contratto, convinto di non trovare la quantità di minerale necessario. Il Governo, dopo qualche altro tentativo andato male, decise allora di chiudere definitivamente le miniere di galena.
Le vicende appena esposte riguardano le cave di galena posizionate nel bacino minerario tradizionale. A tutt'altra zona si riferisce la notizia del 1757-1758 secondo cui i milanesi Carlo Ambrogio e Giuseppe Lepri, già appaltatori delle miniere dall'allume, pagarono a Girolamo Poezy 72 scudi per l'opera prestata in qualità di custode delle cave di piombo (389). La notizia è confermato dal conto dell'appalto Lepri del 1778, dove si dice che i Lepri spesero 2.500 scudi per la lavorazione del piombo (390). Appare quindi evidente come la famiglia Lepri, oltre ad occuparsi dell'estrazione dell'allume, si occupò anche dell'estrazione della galena per la produzione del piombo. E' probabile che i Lepri coltivassero la vena di piombo che si trovava in località "Casalavio" di cui ci lasciò testimonianza anche il Breislak: "... evvi in questo luogo la caduta di un fosso copioso di acque, vi si sono fatti tre piccoli edifizi per fondere la miniera del piombo, allorché si credé di aver trovato un filone talmente ricco, che non bastasse al di lui lavorio l'antica Fonderia "(391).
Concludiamo così il breve discorso relativo allo sfruttamento del piombo nel XVIII secolo. Prima di passare alle vicende del secolo successivo facciamo un piccolo passo indietro. Va ricordato che nella concessione rilasciata al Mattioli nel 1739 era prevista anche l'estrazione del ferro. Inizialmente il Mattioli se ne occupò, costatando una certa abbondanza di ferro in diversi luoghi; successivamente decise di abbandonare tale coltivazione ritenendo quella della galena più conveniente, Fu allora la Camera Apostolica a condurre in proprio le .ricerche del ferro. Furono eseguiti dei saggi su campioni ferriferi raccolti nei pressi della miniera di Pian Ceraso (in località Pozzarelle), che però non diedero risultati incoraggianti. Si pensò che la cattiva riuscita delle prove fosse dovuta all'inesperienza degli addetti alla fonderia. Si fecero venire dalla Sassonia due operai specializzati nelle lavorazioni del minerale ferroso; questi arrivarono a Tolfa nel febbraio 1748, ma già nel 1750 furono congedati e le miniere di ferro momentaneamente abbandonate.

5.2. Il "Defizio del Ferro".

Con il XIX secolo si ritorna a parlare dello sfruttamento del ferro. Fu infatti negli anni trenta di questo secolo che il marchese Vincenzo Calabrini, a cui il papa Leone XII aveva affidato l'amministrazione delle miniere dall'allume (392), riprese ad occuparsi delle miniere metallifere, apportando alcuni miglioramenti a quelle di ferro (foto) di "Pian Ceraso" che sembravano presentare stupefacenti risultati. Evidentemente dallo sfruttamento del ferro ci si aspettava molto. In effetti dall'inchiesta condotta dall'amministrazione napoleonica nel 1809-1810, nel territorio laziale, risultò che i più importanti giacimenti di ferro in attività si trovavano a Tolfa e nella zona di Monteleone (393).
Un avvenimento degno di nota riguardante l'estrazione del ferro si ebbe nel marzo 1841, quando fu rilasciata a Clemente Lovatti una concessione per lo sfruttamento del ferro (394). Cinque anni più tardi, il 16 gennaio 1846, la concessione fu ceduta ai signori Benucci e Graziosi, che costituirono la Società Romana delle Miniere di Ferro (395). La nuova società costruì una serie di edifici che dovevano servire per la lavorazione del minerale estratto e per l'espletamento della gestione amministrativa dell'impresa. Tali strutture, che ancora oggi resistono all'incuria delle genti e al trascorrere del tempo, pur essendo ormai ridotti a reperti archeologici, furono edificate nei pressi del fosso di "S. Lucia", nella valle sottostante la chiesa di Cibona. Oltre ad un altoforno con stabilimento di fusione e agli edifici destinati all'amministrazione dell'impresa, fu costruita una fornace per mattoni refrattari ad uso proprio (396).
Nel 1847 la Società Romana delle Miniere di Ferro emanò gli "statuti". Questi regolamentavano la gestione societaria sia dal punto di vista economico, prevedendo un capitale sociale di 600.000 scudi diviso in 6.000 azioni al portatore, sia dal_punto di vista dell'attività estrattiva che la società stessa doveva svolgere. Siamo di fronte ad un esempio di organizzazione societaria che disciplinava l'attività estrattiva a livello industriale con supporti ed investimenti privati. L'altoforno che funzionò abbastanza regolarmente per 29 anni produsse da 300 a 1300 tonnellate di ghisa annue. Lo sfruttamento delle risorse minerarie continuerà ancora nei secoli XIX e XX (397) producendo risultati alternanti.
Prima di concludere ci sembra giusto spiegare il motivo per cui la nostra analisi, iniziata dall'antichità, si sia prolungata fino al XX secolo, uscendo ampiamente fuori dai limiti cronologici del nostro studio.
Si è voluto dimostrare come l'attività mineraria abbia caratterizzato e influenzato la storia di questi luoghi per un arco di tempo molto vasto. Troppo spesso, infatti, si è parlato delle vicende storiche di questa regione senza dare il giusto risalto all'importanza mineraria dei monti della Tolfa. Importanza che, come abbiamo sufficientemente dimostrato, non dipese soltanto dall'industria alluminifera, ma anche dalla coltivazione di un cospicuo numero di "altri minerali".CONCLUSIONEA conclusione del nostro studio vorremmo riportare alcune considerazioni degne di particolare interesse.
Innanzi tutto bisogna notare come parallelamente alla grande impresa alluminifera, che darà gloria e prestigio a livello europeo alla regione tolfetana, si svilupparono su questi colli una serie di attività estrattive volte allo sfruttamento di tutte quelle ricchezze minerarie presenti nel sottosuolo tolfetano, in particolare ferro, piombo, rame ecc..., che consentirono lo sviluppo di un'economia alternativa fino ad oggi poco studiata e valorizzata. Ancora più interessante è notare come in molti casi tali attività si siano sviluppate precedentemente all'impresa dell'allume a dimostrazione del fatto che lo sfruttamento delle ricchezze minerarie sui monti della Tolfa era già in atto da tempo. Detto questo è facile ipotizzare che diversi insediamenti, in particolare Tolfa Nuova e Ferraria, furono costruiti proprio in funzione dello sfruttamento delle risorse minerarie. Non a caso sia Tolfa Nuova che Ferraria sorsero in posizione strategica rispetto al bacino minerario; non a caso nelle vicinanze dei ruderi dei due centri sono ancora oggi visibili scavi e gallerie e sono reperibili parecchie scorie di fusione che testimoniano la presenza di attività di trasformazione e lavorazione del minerale estratto. Di sicuro il tutto si svolgeva a livello artigianale senza mai raggiungere quell'organizzazione industriale che, successivamente, fu propria dell'impresa dell'allume.
Certo è che come l'industria dell'allume diede origine agli insediamenti di Allumiere, La Bianca, la Farnesiana (qui si lavorava anche il ferro) , così le attività estrattive degli "altri minerali" condizionarono l'esistenza di diversi centri e favorirono la costruzione di alcuni stabilimenti per la lavorazione dei minerali. Ricordiamo le "ferriere" di fosso Caldano e Monterano, ma soprattutto ricordiamo il "Defizio del ferro" e il "Defizio del Piombo" i cui resti sono ancora oggi visibili. Da queste sommarie osservazioni è possibile dedurre l'importanza storica delle risorse minerarie così topograficamente estese sul territorio dei monti della Tolfa.
E' stato sufficientemente dimostrato che lo sfruttamento delle risorse minerarie dei monti della Tolfa ha da sempre seguito l'uomo nelle sue evoluzioni iniziando dalla Protostoria, proseguendo per tutto il corso del Medioevo fino a raggiungere i primi decenni del nostro secolo. Tentare di riconoscere le tracce di un'attività mineraria così antica è pura utopia specialmente se si considera il fatto che ai giorni nostri non siamo neppure in grado di riconoscere.i luoghi degli opifici di quella che è stata la più grande industria europea del Rinascimento, della quale sono visibili soltanto le cave a cielo aperto ed alcune gallerie.
Prima di concludere vogliamo spendere qualche altra parola sull'importanza dell'impresa alluminifera. Come è stato già ampiamente dimostrato tale industria provocò nella regione tolfetana una serie di trasformazioni che modificarono radicalmente il volto di queste zone. Tali cambiamenti non riguardarono soltanto la morfologia del territorio, ma interessarono anche l'economia, la vita sociale, l'organizzazione politica e molti altri settori. In pochi decenni si ebbero mutazioni che nemmeno secoli e secoli di storia avevano prodotto. Negli anni precedenti alla scoperta dell'allume Tolfa era ancora completamente feudale, í pochi abitanti riuniti intorno alla rocca vivevano chiusi nella loro realtà senza nessun tipo di relazione con l'esterno. Il livello culturale era per la maggior parte estremamente basso. Ognuno si accontentava di coltivare quel poco che era necessario alla famiglia e allo scambio delle merci di prima necessità. La scoperta del minerale alluminoso e il successivo sviluppo dell'industria dell'allume spinsero i papi a sostituirsi ai feudatari e a concedere privilegi a questa regione improvvisamente divenuta fonte di ricchezze mai sospettate. L'impresa dell'allume portò un notevole benessere alla popolazione tolfetana a cui fu richiesto di aumentare la produzione di cereali, verdura, carne e vino per soddisfare le necessità dei numerosi operai addetti alla lavorazione dell'allume. Gli stessi toifetani poterono trovare nell'industria una buona opportunità di impiego. In particolare le loro bestie da soma furono utilizzate per il trasporto del legname necessario al fuoco delle fornaci e per il trasporto del materiale alluminoso. La venuta dei numerosi operai spinse i pontefici a provvedere all'assistenza spirituale di questi. La costruzione della chiesa della Sughera ad opera del Chigi fece affluire una comunità di dotti religiosi agostiniani che, predicando e insegnando, contribuirono non poco ad elevare il livello culturale, morale e sociale del paese. Nella produzione si abbandonò il sistema feudale per avviarsi verso un sistema più moderno. Produrre non più solo per se stesso e per la cerchia di persone con le quali si viveva, ma anche in vista di un guadagno, per realizzare una fortuna. Tutto ciò favorì un considerevole miglioramento nel livello di vita. I popolani cominciarono ad uscire dalla cerchia delle mura e a costruirsi abitazioni più comode fuori di essa. Fu così che il centro del paese venne a spostarsi nella zona tra la chiesa della Sughera e la rocca. Bastano questi brevi cenni a mostrare l'impatto che l'impresa dell'allume ebbe sull'intera regione tolfetana.
Scopo principale del nostro studio è stato quello di affermare, ancora una volta, l'importanza storica delle attività minerarie svoltesi nel comprensorio tolfetano; di dimostrare come lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo non si limitò al solo allume ma coinvolse molti altri minerali che per la loro copiosità spinsero il Ponzi a definire l'area in questione un vero e proprio "gabinetto mineralogico".APPENDICE n. 1Atto di sottomissione del conte Ugolino a Corneto.

1201 marzo 13 ind. IV, Tolfa Vecchia.
Il conte Ugolino, con il consenso della moglie Sofia e dei figli Rainone e Rainuccio, sottomette ai consoli e al popolo di Corneto, Tolfa Vecchia e Monte Monastero, ut a presenti die in antea hbeatis potestatem faciendi guerram et pacem contra omnes huiusmodi homines, eccetto il papa, l'imperatore e il comune di Roma. Si obbliga a dare annualmente, nella ricorrenza di S. Secondiano, un cero di dieci libbre e a pagare 1000 lire di denari pisani ai figli del conte Guido in rate annuali 100 lire, da corrispondere ogni festa della Madonna d'agosto, dando fideiussori sino alla concorrenza di 300 lire e obbligando in garanzia per il resto Monte Monastero, il cui castello consegnerà, in caso di inadempienza, a Pietro Malascorte per il comune di Corneto, con facoltà al Comune medesimo di goderne le rendite e di concederlo per detta somma a un cittadino cornetano. Cede al Comune i suoi possedimenti di Centocelle, s'impegna a dare, a richiesta, 60 lire di pisani ai consoli di Cornetonella ricorrenza di S. Fortunato e ad esentare i cornetani dal pagamento di qualsiasi diritto nelle sue terre, restituendo quanto egli o i suoi hanno percepito dopo la morte del conte Guido. Insieme con i figli Rainone e Rainuccio giura il sequitamento nelle mani di Tommaso Ferr(ari), Tagliacozzo e Rogerio consoli cornetani e si obbligava a farlo giurare ai propri figli e successori al compimento del quattordicesimo anno di età, nonche a tutti i suoi uomini e a coloro che verranno in futuro ad abitare nelle sue terre.
In Tolfa Vecchia, alla presenza di Simeone di Gerardo, Gezio di Giovanni Villani, Bernardo di Ranuccio de Truncula, Crescenzio di Pietro Malascorte,, Gerardo di Crescenzio, Gerardo di Giovanni di Vaccaro, Pietro Seioris, Ventrone di Simeone, Rodolfo di Quintavalle, Bartolomeo di Pietro Tenti, testi.
Rogito di Pietro, aule imperialis not., dai protocolli di Rollando giudice. Copia autentica di Ildebrandino da Corneto, auct. alme Urb. pref not.
Il documento è contenuto nella "Margarita Cornetana" Regesto dei Documenti, a cura di P. Supino, miscellanea della S.RS.P., Roma 1969, p. 52, doc. 2. Di questo documento esistono due copie in: Cod Vat. 7144, ff. 1-2; Cod. Vat. 7931, ff. 108-109.
Il rogito è datato con lo stile dell'Incarnazione, secondo il calcolo pisano: ".MCCII. inditione quarta, temporibus domini Innocentii pape tertii, Romanoque imperio imperatore vacante, anno quarto".

APPENDICE n. 2Lettera scritta da Innocenzo IV a Pietro di Vico il 3 maggio 1247.
INNOCENTIUS EPISCOPUS etc. Dilectio filio...
Prefetto Urbis, salutem etc. Quia cuique pro meritis retribuzione convenit congrua responderi, fideles et devotos ecclesie, maxime quos presentis temporis examinavit necessitar, dignis decet remunerari premiis, et infidelium ac indevotorum inconstantiam pena debita castigari, ut et illorum remuneratio inducat alios ad ipsius ecclesie famulatum, et istorum indicta ceretis ausum cohibeat delinquendi. Hinc est, quod cum Tuscanenses, Vetrallenses, domini Tulfe veteris et eorum homines ecclesie Romane fidelitate relicta tamquam filii degeneres, tibi, quem ab ipsius devotione prava sugestio vel adversitas aliqua non subtraxit, dampna in Castris, vassallis et aliis bonis tuis gravia irrogarint, nos, ne de illatis tibi offensis reliquantur impunes, presentium auctoritate precepimus, ut omnia huiusmodi dampna tibi ab eisdem Tuscanensibus, Vetrallensibus et dominis Tulfe veteris vel occasione illorum illata, et que deinceps quandiu in infidelitate perstiterunt, inferii contigerit, necnon et ablata omnia tibi satisfecerint de premissis, ad gratiam ecclesie nulla tenus admittendis. Et qui iidem Tuscanenses, Vetrallenses et domini Tulfe veteris te et alios ecclesie prefate fideles impugnare ac offendere non desistunt, eadem tibi auctoritate concedimus, ut de offensis illatis rebellibus ipsis, et etiam decetero a te inferendis occasione huiusmodi non possis ab aliquo convenivi, de quibus te duximus absolvendum. Ut autem fidei tue puritas semper clarius elucescat, Nobilitatem tuam monemus, rogamus et hortamur astante mandantes, quatenus eisdem haliis ecclesie rebellibus promptitudine ac fortitudine spiritus premonitus resistes viriliter, in ipsius ecclesie devozione, que te inter ceteros eius falios favore ac gratia proponit attollere speciali, stabilis more solito permanendo. Datum Lugduni v. Nonas Maii, Pontificatus nostri anno quarto.
In e. rn. Nobilibus viris Tulfe nove.
Il documento è contenuto in: A. THEINER, Codex..., op. cit., p. 123, doc. CCXXI.
Traduzione:
"...perciò siccome i Toscanesi, i Vetrallesi, i signori di Tolfa Vecchia e i loro uomini, ribellatisi come figli degeneri, alla Romana Chiesa, hanno recato offesa a te (Pietro di Vico) che ci sei rimasto fedele anche in mezzo a prave suggestioni ed avversità, danneggiandoti nei tuoi castelli, nei tuoi vassalli ed in altri tuoi beni. Noi, perché tali offese non rimangano impunite, con l'autorità delle presenti lettere, ordiniamo, che i detti Toscanesi, Vetrallesi e signori di Tolfa Vecchia non siano in nessun modo riammessi in grazia della Chiesa fino a che di tutti questi danni che essi o chi per essi ti possono aver arrecato durante il tempo delle loro infedeltà non ti abbiano data pienissima soddisfazione di tutto ciò che possono averti tolto non ti abbiano restituito integralmente.
E siccome i predetti Toscanesi, Vetrallesi e signori di Tolfa Vecchia non cessano ancora di offendere e di combattere i fedeli della Chiesa diamo a te la medesima autorità di combattere e di offendere i detti ribelli, condonandoti fin da ora i danni che hai ad essi arrecati e quelli che occasionalmente potrai loro infliggere ancora, senza che nessuno possa chiedertene conto".

APPENDICE n. 3
Avignone, 11 settembre 1328.
Giovanni XXII si congratula con Manfredi Di Vico per l'aiuto dato alla Chiesa contro i ribelli viterbesi.Nos. viro Manfredo prefecto Urbis. Ltanter audivimus fili quod viterbiensium et aliorum rebellium Patrimonii b. Petri in Tuscia presurnptuosam superbiam tamquam filius benedictionis abhorrens, ad eandem humiliandam superbiam et rebellium ipsorum priterviam conterendam, diletto filio Roberto de Albarupe archidiacono de Ceya in ecclesia Legionensi cappellano nostro dicti Patrimonii rettori, constanter et viriliter astitisti et assistere continue non desistis. Super quibus devotionem et.fidelitatem tuam cum gratiarum actionibus plurimum in Domino commendantes, nobilitatem tuam attencius exhortamur, quatenus premissa, que te Deo et ipsi Ecclesie acceptiorem efficiunt merito, sic continuare de bono semper in melius non postponas, quod ex hoc nostram et apostolice sedis benedictionem et gratiam uberius valeas promereri. Dat. Avinion. II id. sept. anno H.
(Arch. Vatic., Reg. n. 114, f 116, doc. 1291).
Il documento è contenuto in: C. CALISSE, I Prefetti..., op. cit., p. 470. app. LXXXI.

APPENDICE n. 4Breve del 1 maggio 1330 dato da Avignone da papa Giovanni XXII.IOHANNES EPISCOPUS ETC. Dilectis filiis... Rectori seu... Vicerectori Patrimonii beati Petri in Tuscia, salutatem etc. Dilecti filii Commune et homines castri Montisflasconis, nostri et Romane ecclesia fideles ac peculiares, nobis humiliter supplicarunt, ut cum eis dilecti filii Civitatis Viterbiensis, ac Cornetane et Tulfenove Communia, necnon communes domini eiusdem Tulfenove, castrorum Tuscanem. et Viterbien. diocesum, multa dampna et iniurias temeritate propria irrogarint, eadem Viterbiense ac Cornetanum et Tulfenove Communia, et dominos predictos ad condignam emendationem eisdem Communi et hominibus dícti Castri Montisflasconis de dampnis, et iniuriis huiusmodi faciendam cogere, seu cogi facere auctoritate apostolica dignaremur. Nos igitur petitionem eorum iuri consonam reputantes, ipsorumque in hac parte supplicationibus inclinati, discretioni vestre per apostolica scripta mandamus, quatenus vocatis, qui fuerint evocandi, faciatis predictis, cum oportunum fuerit, simpliciter et de plano ac sine strepitu et figura iudicii iusticie complementum, Contradictores auctoritate nostra, appllatione remota, compescendo. Non obstante, si Viterbiensi, Cornetano et Tulfanove Communibus, ac dominis predictis vel quibusvis aliis communiter vel divisim a sede apostolica sit indultum, quod interdici, suspendi vel excommunicari non possit per litteras apostolicas non facienti plenam et expressam, ac de verbo ad verbum de indulto huiusmodi mentionem. Datum Avinione Kalendis Maii, Pontificatus nostri anno quartodecimo.
Il documento è contenuto in: A. THEINER, Codex..., op. cit., p. 575, doc. DCCLI

APPENDICE n. 5Riportiamo qui di seguito una serie di documenti (ripresi da BERARDOZZI, COLA, GALIMBERTI, "Lo sfruttamento... ", o. c.) che testimoniano le riconferme del Vicariato di Tolfa Nuova, Ferraria, Monte Castagno e Valle Marina, fatte dai vari pontefici ai rappresentanti della famiglia Orsini.
.Gli Orsini fecero la loro comparsa sui Monti della Tolfa agli inizi del XV, quando Giovanni XXIII (1410-1415) infeudò Giovanni Orsini (fondatore del ramo di Gravina) del Vicariato di Tolfa Nuova, Ferraria, Monte Castagno e Valle Marina.Appendice n. 5A
Il documento in questione (del 14 ottobre 1435) mostra l'investitura, fatta da Eugenio IV (1431-1447), del Vicariato di Tolfa Nuova, Ferraria, Monte Castagno e Valle Marina al prefetto Francesco Orsini figlio di Giovanni. L'investitura era condizionata dal pagamento di un censo annuo di 100 libbre di cera per il giorno dei SS. Apostoli.Appendice n. 5B
Conferma dell'investitura a Francesco Orsini `pro se heredibus et successoribus in perpetuum", fatta il 12 aprile 1451 da Niccolò V (1447-1455).Appendice n. 5C
Conferma del Vicariato di Tolfa Nuova... agli Orsini da parte di Callisto III (1455-1458) nell'anno della sua elezione al soglio pontificio.Appendice n. 5D
Il documento ci dà l'elenco delle rocche appartenenti alla prefettura. Tra queste è presente anche Tolfa Nuova.Appendice n. 5E
Sisto IV (1471-1484) ordina di restituire (22 agosto 1471) Tolfa Nuova agli Orsini.Appendice n. 5F
Nel 1484 Innocenzo VIII (1484-1492), conferma il Vicariato di Tolfa Nuova... per metà a Raimondo Orsini che aveva venduto, in precedenza, l'altra metà all'ospedale di S. Spirito in Sassia.Appendice n. 5G
Conferma del Vicariato di Tolfa Nuova... a Francesco Orsini, duca di Gravina, fatta da Alessandro VI nel 1492.Appendice n. 5LI
Leone X (1513-1521) conferma, nel 1513, la metà del Vicariato di Tolfa Nuova, Ferraria, Monte Castagno e Valle Marina a Ferdinando Orsini e fratelli, alle stesse condizioni imposte da Alessandro VI. E' questa l'ultima menzione del "castrum" di Ferraria.

APPENDICE n. 7Sui rinvenimento dell'allume e successive vicende di Tolfa.De Inventione Alumeriarum et quomodo
Tulpha ad Cameram pervenit.In quodam libro manuscripto latine apud Ad.m. Ill.em D. Carolum de Castro filium Ioannis Fran.ci filij Ioannis de Castro Alumeriarum Inventoris, filij celeberrimi Iuris Consulti Pauli de Castro, et Petrae de Cerrinis de Corneto, neptis Petri de Ancarano, et Fratis Angeli de pannorum Costantinopoli, qua Civitate capta a Turcis depredata fuerunt omnia eius bona, unde Italiam reversus ivit Basileam ad Concilium, et tenuit locum Depositarij pro Papa Eugenio; et contraxit amicitiam ibi cum Enea de Piccolominis, qui fuit postea factum Pontifex et dictus Pius 2. dus. In suo Pontificatu fecit ipsum Ioannem Comisarium generalem super proventibus Status Ecclesiastici.
Et cum Corneti esset, quoniam non desistebat lapides colligere, quos mineras saperent, fuit sibi relatum, quod in montibus Tulphae erat quantitas minerarum, et relatum id fuit a quodam Hebreo, et facta interrogatione Astronomica per quendam Dominicum de Padua Astronomum, quem secum ducebat ut famulum, et habito responso, quod in montibus illis proficeret, cogitationes suas acceleravit ad Tulpham, et cum inter alios lapides colligere fecisset per quemdam Teodorum alias Federicum de Hispalia eius stabularium de lapidibus illius scopuli unde oritur fons qui hadie videtur in Alumeria Superiori, de illis in Civitate vetula, prope portam quae respicit meriem in domo Bonifatij alumen confecit; et putans quod Tulpha esset de pertinentijs Corneti, quod alias creditum est ad Vitellescos, capitulavit cum Communitate Corneti, et postea cum Dominis Tulphae, idest cum Ludovico, et Petro.
Quibus peractis ivit Romam, res Pontifici narravit, qui simul cum Cardinalibus insomnia putabant, et ideo parum credebant ipsi loanni atque iterum ad illum quaerens, ut loqueretur Pontifici, et iterum, atque iterum ipsi rem declararet; tandem Pontifex multis in hac adhibitis diligentijs, et experientijs, et utilitate rei maxime perspecta, christianis enim plus 300 M ducatos Camerae Iuris dabant quotannis lucrico tales merces, ipsi Ioanni magisterium pro vigenti quinque annis libere concessit recognita Camera per duos tertios, quo finito posset Camera Ap.lica locare ipsum solvendo tamen decimas, et alia ipsi Ioanni prout ecc.
Fabricarunt eo tempore vigenti quinque annorum concessorum in principio Alumen ipse Ioannes, Bartolomeus Framura Ianuensis, et in Socium receperunt Carolum Caietanum, et postea in Socium etiam receperunt Petrum Cosimi de Medicis Florentinum; Bartolomeum superadictum Petrum Cosimi de Medicis Florentinum; Bartolomeum superadictum defunctum, et Ioannes de Tornabono erat socius d.ti Petri; et successive fuit etiam appaltus Socius Paulus Rucellaius, cuius negotia agebat Nicolaus de Castiglioneo, ex quo credo remansisse Castiglionorum familia Tulphae, et obijt ipse ex esca carnis Apri medicamentosi.
Alumina inferior vacabatur ille, in qua erant domus Caroli Caietani et Alphonsi eius fratris, quibus successerunt lulius de Albertonibus, et Ludovicum Marganus.
1483 Ludovicus de Angelis Cammerae Ap.licae Clericus, et Alumeriarum Gubernator mandante Xisto quarto contulit se ad Alumerias, quo tempore segregata sunt omnia loca, et silvae Alumeriarum ut puta le Sbroccate et fuit decretum ne ibi, et alijs segregatis locis quis incideret, incenderetque.
Et anno 1496 factum est primus Custos Silvarum Petrus Palmaticus cum provisione 20 carlenorum pro quolibet mense, fuit ín compensatione segregati Territorij data pars quaedam Communitati, et haminibus Tulphae, quae dicitur le Buccinate, et annotata fuit ista compensatio per D. Fran.cum Cellium eo tempore Cancellarium eiusdem communitatis; et eodem tempore fuit factum decretum, ut Clerici Gubernatores Tulpharum saltem semel in Anno visitarent eorum Gubernium.
1497 Fuit concessa licentia familiae de Castro edificandi furnum venae ferri in ruinis Sanctae Severellae et etiam edificandi molendinum; et est locus propre Centum Cellas. Ubi nota Civitatem Ventulam non esse Centum Cellas a qua familia de Castro fuit cooperta. Tecta prius et fabricata domus, in qua detinebant Sacerdoter Presbiterum.
On.ma Alba de Capitibus Listae Patavina uxor D. Ioannis de Castro inventoris Alumeriarum venit ad Balnea Tulphae cum suo marito per iter Cerveteris, saxi, Tulpham novam, et inde ad Balnea, ad quae erat ibi expectans cum tentorijs uxor Ursi de Ursinis comitis Nolae, et ducis Ascolae, quae erat soror D. d. Ludovici, et Petri Dominorum Tulphae, et quia Ludovicus habebat tres filias, curaverunt diete mulieres ut nuberent omnes simul tribus filijs Ioannis de Castro, et sic facta est Affinitas, ex qua affinitate confractus est animus Caroli Caietani dictarum Alumeriarum inferiorum olim participis in fabrica, sed semper infensus familiae de Castro.
Paulus 2.dus Pontifex tentaverat emere oppidum Tulphae ab ipsis dominis, et cuidam Roccho, qui erat illis dominis carus obtulit beneficia, et dignitates pro Dominico eius filio si negotium conficiebat; sed interim oppidani sumpta occasione recusarunt solvere ipsis Dominis quamdam pensionem, et quidam Terrayolus Trenta Soldi, qui originem traxerat a Corsis, et in oppido habebat familiam potentem, adijt ipsum Carolum Caietanum asserens ab oppidanis se missum, qui cupiebant defectionem. Carolus libenter haec audivit et ad Pontíficem scripsit, et ipsi Terrayuolo, et aliis de sua factione favorem praestitit. Papa non expectato certim nuncia misit D.num de Albergatis Urbis Gubernatorem cum aliquibus equitibus, et peditibus de sua propria custodia, putans se de facili oppidum recepturum.
Oppidani aliquot maxime familia illorum de Mozzellis, et de Cellis permanserunt in fide accusantes praedictum Terrayuolum, et Carolum de levitate, et perfidia collaudantes lese de Dominis Tulphae. Protonotarius Gubernator Urbis hospitabatur a Carolo; et per suas litteras significavit veritatem Pontifi praedictos equaliter accusando; unde credebatur Pontificem nil aliud esse innovaturum. sed Gubernatorem ad villani revocatum.
At Pontifex qui paulo ante privaverat domus Anguillariae, et Savellorum de Rignatio (?) cupiditate ductus misit exercitum peditum, et equitum cum bombarda una, cuius diameter erat pedum duorum. Oppidani obsessi, et multa mala passi praesertim incendium domorum, quae prius scandala erant seditionem fecerunt et Arx tantum oppugnanda versabat; sed Domini Arcis centiorem fecerunt cognatum eorum Ursum Ursinuin, significantes ei omnia, et eo tempore bellum gerebat in Flaminia pro Florentinis contra Malatestam, et erat Dux totius exercitus Ferdinandi regis Neapolis, et ipse bello confecto se contulit ad Tulpham, et liberavit ipsam ab obsidione cum aufugisset exercitus Pontificis non expectato exercitu Ursi Ursini, et duravit bellum ad Tulpham a die 8.a mensis Augusti usque ad medium mensis 8.bris eiusdem anni; quo tempore cum conduxisset Papa pro suo Duce Neapulionem Ursinum, ipse Dux composuit pacem hoc pacto, quod Pontifex solveret 18.000 ducatos Camerae Regyi Ferdinando, qui pro dictis pecunijs dedit Dominis Tulphae unum Comitatum prope Dominium Ursi eorum cognati, et reddebat ille Comitatus Proventum duorum millium ducatorum, et promunitionibus arcis solvit Pontifex ducatos 400, quos solvit societas Petri de medicis, et Petrus unus ex D.nis Tulphae Arcem consignavit D.no Lucae de Rubeis nobili Romano, misso ad hoc a Summo Pontifice.
1494 Fuerunt latrocinia Corsorum per totem Patrimonium, et praesertim in civitate Castri, qui multa horrenda mala perpetrabant.
1495 Dux Candiae invasit Bracchianum, et obsedit Triviniaum, et Bestiae omnes,
1496 et animalia de Bracchiano fuerunt recepta, et conservata ab oppidanis Tulphae ipsa custodiendo, et postea finito bello illa reddiderunt.
Pontifex tenebat in arte Tulphae castellanum cum provisione viginti ducatorum camerae quolibet mense, quam Arcem concesserunt postea Pontifices Appaltatoribus Alumeriarum, quorum primus fuit Augustinus Ghisius nobilis Senensis, qui habuit arcem Anno 1502 et in ea tenebat quemdam N. de Sergandis pro Castellano Civem Senensem, qui Ghisius postea dictam Arcem spoliavit et Armis, et Bombardis, mittens ea ad portum Herculis, et Talomonem oppida sub suae Patriae dominio posita; et in p.nti die extant Bombardae cum insignis Dominorum Tulphae in d.tis oppidis, et hodie visuntur.
1499 Pestis horribilis invasit Tulpham.DIVERSACivitas Vetula non est Centum Cellas, ut Sistus V scribi iussit in fonte ibi ducto; sed Centum Cellas proprie est ubi nunc sunt reliquiae infia Sanctam Severellam, et Cornetum; et hoc non solum fama publica testatur; sed sic dicunt Pius Papa 2.dus in suis Cronicis, Ioannes Fran.cus de Castro in suis diurnalibus manu scriptis, colligitur ex itineribus Antonij Pij, et aperte dicit Annius quidam historicus viterbiensis, et alii quam multi, et praesertim in quibusdam monumentis repertis in quibusdam monumentis repertis in tecto d.tae civitatis Centum Cellarum dirutae etc. ubi fuit quodam tempore S. Cornelius Papa, et martin relegatus.
Tolfa nova credo quod fuerit prope forum Clodij, et quia circa ipsum erant novem pagi, et Praefecturae, et antiquitas viarlun latarum selicibus pulcherrimis constitutarum demonstrat nec non Tolomei Tabulae et aliorum. Ibi Sanctus Protegenes martir fuit quodam tempore relegatus.Testo ripreso da: O. MORRA, Tolfa, profilo..., pp. 59-62.

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