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La Tuscia Romana e la Tolfa Ponzi
 

durante il quale per ben quattro volte rianimata, si protrasse per secoli fino a raggiungere i tempi storici. Col ritorno del calorico incomincia la fusione dei ghiacci, che dal basso in alto si ritirano sulle chinate dei monti, cosicché si generano immense fiumane scorrenti sopra un suolo di recente emerso. Tale è il carattere che assume l'epoca alluvionale succeduta alla vulcanico-glaciale. Per tali immani correnti trascorse sulle pianure sono scavati quei grandi alvei proporzionati alla loro portata, nel fondo dei quali oggi serpeggiano i fiumi moderni, e dentro i quali vennero convogliati e rimaneggiati tutti i materiali mobili, trascinati giù dai monti, o incontrati per via, e distesi lungo quelle ampie fosse. I depositi di breccie alluvionali sono enormi, indicando così la lunghezza dei tempi trascorsi per la loro formazione. Però potrebbero in certo modo confondersi con quelli della preceduta epoca diluviale, a causa della identica origine. Ma se voglia farsene un confronto, presto se ne scorgerà la differenza. La limitazione entro l'alveo dei fiumi, la stratificazione propria delle correnti d'acqua dolce, il posto che occupano nella scala stratigrafica, e perfino gli stessi elementi di cui si compongono, somministrano il criterio per giudicarle. Le prime, più antiche, furono depositate dal mare avanti l'apparizione dei vulcani: le seconde fluviali, più recenti, depositate dopo che quelli si estinsero. Ma un altro carattere differenziale viene tratto dai fossili contenuti, giacché nelle breccie diluviali non si rinvennero che poche ossa elefantine, al contrario nelle alluvionali sono chiare e patenti due faune diverse. Una più vecchia scesa dagli Apennini per la fusione delle nevi; l'altra contemporanea e propria della pianura.
La più vecchia di queste faune viene costituita dai resti di quegli esseri che menarono i loro giorni sui monti, quando ancora le sottostanti pianure erano ricoperte dal mare, e restati lassù compresi nei ghiacci fino alla loro fusione. La fisionomia di questa fauna è pliocenica, (comprendendo i maggiori pachidermi, grandi carnivori, ruminanti, solipedi, uccelli ecc. molti dei quali perduti, e le cui ossa avendo subito un più lungo trasporto si trovano separate, sparse senz'ordine, e logorate dall'attrito. Quelli invece della fauna più giovane spettano quasi tutti ad animali viventi ancora nel paese, come il cane, il porco, il tasso ecc., riunite in scheletri intieri con le loro apofisi non logorate indicanti non avere subito il trasporto, o almeno a poca distanza. Queste osservazioni vennero fatte a preferenza nei depositi alluvionali del Tevere e dei suoi affluenti, lungo il corso che circoscrive la Tuscia romana, nei quali tanta è la copia delle ossa fossili da considerarli come tanti cimiteri. Le cave di breccie di ponte Molle, di Tor di Quinto presso Roma, aperte sulla costa etrusca della gran valle Tiberina, ne danno esempio luminoso. L'epoca alluvionale si distingue altresì per i suoi enormi banchi di travertino, compatto e litoide, depositati in grande quantità da acque calcarifere e di cui facciamo tanto uso come pietre da costruzione. Questa è una formazione che dura ancora, ma così indebolita, da non somministrare altro che tartari e stalattiti. Ordinariamente sono pieni di resti di animali e piante propri di quei tempi, tanto terrestri, quanto di acqua dolce, dandoci ampia dimostrazione della fauna alluvionale per la maggior parte risultante di specie che vivono tuttora presso di noi. Vi si comprendono conferve, alghe, ed altre piante lacustri e fluviali, miste a foglie e tronchi di alberi terrestri, gusci di molluschi di acqua dolce e terrestri. sovente in quantità mirabile, faune di un grande interesse scientifico perchè dimostrano la restaurazione della vita sulla terra, con assumere la fisionomia moderna. I travertini di Orte, Civitacastellana e di altre località della Tuscia romana possono essere studiati come dimostrazioni dell'operosità della natura nel riordinamento della vita nell'epoca alluvionale. Ma finalmente quell'epoca venne a compiersi coll'arresto del rialzamento di temperatura dove fu raggiunto il punto di equilibrio fra il pianeta e lo spazio. Allora cessò la fusione delle nevi e si fissò la loro linea di fusione sulle chinate dei monti al punto in cui oggi la vediamo. Ed ecco scomparse le grandi fiumane: ecco le acque ridotte ai corsi attuali: ecco la superficie terrestre allo stato moderno in cui si vedono stampate le vestigia delle passate vicende cosmiche. L'epoca moderna è raggiunta; epoca di serenità, e di libero esercizio della vita degli esseri che popolano la terra, e perciò sembrerebbe interamente passato il gran cataclisma vulcanico-glaciale, che ci ha preceduto. Eppure non è così; giacché non possiamo credere estinta o assopita quella operosità planetaria, sempre attiva per compiere le funzioni necessarie al mantenimento dell'equilibrio di natura. La vulcanicità non è spenta, e, se presso di noi scomparvero le esterne conflagrazioni, nella parte estrema dell'Italia sono sempre aperte le sue comunicazioni fra l'interno e la circostante atmosfera. I perenni trasudamenti del suolo, e le sue trepidazioni bastantemente accennano che il gran vulcanismo spiegato nella Tuscia romana durante l'epoca glaciale non è del tutto spento, ma conserva ancora sotto di noi un'attività che potrebbe rianimarsi.
Le moderne emanazioni sul suolo etrusco si manifestano sotto forma vaporosa, da cui si generano le acque minerali e termali. I vapori che esalano dalle interne materie incandescenti filtrano attraverso i meati della crosta terrestre per ispandersi e dissiparsi nell'aria ambiente. In un paese fatto preda del vulcanismo, allo spegnersi dei fuochi, resta un generale trasudamento di acido carbonico, che concentrato in certi punti costituisce le mofete, o sorgenti di quel gas più o meno copiose. A questo si aggiunge il vapore idro-solforoso, altro residuo di vulcanismo, che localizzato da origine alle solfatare e alle gessaje. Le acque esterne penetrate e circolanti nelle fenditure della crosta terrestre, incontrandosi con quei gas sotto l'influsso della pressione. si acidificano, e acquistate nuove facoltà solventi, danno motivo ad una lunga serie di chimiche combinazioni. Perciò nell'attraversare le roccie ne sciolgono i principi solubili per ricomparire all’esterno colla qualifica di sorgenti minerali o termali in ragione della profondità da cui derivano. Ed ecco perché le acque si trovano ricche di tante sostanze avventizie, sì che può dirsi ciascuna godere di una composizione propria e distinta. Fin qui non conosciamo mofete nella Tuscia romana; però è necessario avvertire che un generale trasudamento su tutta la superficie vulcanica si esercita lento e quasi insensibile, da farla considerare come una immensa mofeta alla quale in gran parte si deve attribuire la sua fertilità. Ma se mancano concentramenti di acido carbonico non difettano i solfurei. Questi vapori emanati dall'interno si trovano sublimati nelle assisedei tufi vulcanici, per cui risultano gravidi di quell'elemento per costituire le nostre solfatare: ovvero nelle marne subapennine combinati colla calce sotto forma di selenite o gesso idrato, di cui si hanno molti esempi nell'estensione del territorio etrusco. Altro residuo di vulcanicità terrestre sono i terremoti, a cui vanno soggetti i paesi abbandonati dal fuoco; sebbene ancor essi in via di lentissima estinzione. A questi fenomeni sismici crediamo eziandio riferire quelle lentissime oscillazioni del suolo che si rendono sensibili solo dopo il corso di anni. Conviene dire che la scorza solida della terra, considerata in una grande estensione, sia pieghevole come il cuoio di un animale, altrimenti non potrebbe compiere quelle larghe ondulazioni che contribuiscono a deformare l'aspetto dei continenti, e ad alterare le loro relazioni col mare. Tali fatti oramai ben constatati nella Svezia e nel Groenland, si osservano anche in Italia, per dare ragione di certi avanzamenti della costa, ovvero di scoprimento di fondo che non potrebbero spiegarsi col solo insabbiamento marino. Nella mia Memoria sul Tevere e il suo Delta (') procurai dimostrare l' avanzamento della foce di quel fiume così pronunciato, doversi in molta parte al lento innalzamento della costa tirrena, come nelle spiaggie venete si rimarca invece una depressione. Né mancano prove di questo fenomeno sul lido etrusco; imperocché sulle scogliere che corrono dal Capo Linaro a Civitavecchia s'incontra qualche zona di litodomi, o altri animali marini terebranti correre orizzontale ad un'altezza, a cui il moderno livello del mare non arriva neppure nelle più violenti tempeste. Però su questi fatti si desiderano ancora più minute indagini.
Quello che abbiamo detto fin qui, tanto della forma geografica, quanto della natura geologica della Tuscia romana, altro non è che il prospetto di un quadro, per averne un concetto preventivo, e per preparare il campo a ciò che vado a dire della Tolfa. E poiché meglio e con maggiore intelligenza questa semplice esposizione consegua il suo scopo, aggiungo il seguente spaccato geologico da N-E a S-0 per conoscere graficamente l'ordine o la distribuzione dei terreni.Torna su

IlI. TOLFA
Al miglior conseguimento del proposto fine, dopo aver sparsa qualche poco di luce, e condotto il lettore sul campo geografico e geologico della Tuscia romana, fa d'uopo risalire alla Tolfa per farvi ulteriori considerazioni scientifiche, e apprezzare nel miglior modo possibile le opere di natura dalle quali ebbero erigine quei monti. Abbiamo fatto conoscere che il gruppo delle prominenze tolfetane si compone di un gran nocciolo di trachite cinto dalle assise nettuniane dei tempi eocenici, raddrizzate e fatte prominenti dal sollevamento di quella stessa massa. Abbiamo altresì riferito, che quello non fu il solo sbocco delle materie emanate dalla terra, ma che altri di minor conto compariscono sotto forma di mammelloni isolati a distanze diverse, per indicare che la eruzione non si limitò al centro tolfetano, ma si diffuse ad occupare una gran parte della Tuscia romana. Questa distribuzione di parti, che a prima vista si direbbe casuale, trovasi invece ordinata dalla stessa legge di natura che presiede a tutte le sue grandi operazioni, solamente modificata per isvariate circostanze che su di essa influirono. Se ciò è vero, chi non vede nella distribuzione stessa delle parti, rappresentanti nella Tuscia romana il sistema trachitico, una certa analogia cogli apparecchi vulcanici? Tutti sanno che in questi un grande cratere posto nel centro è cinto da una ghirlanda di sbocchi minori che gli prestan l'ufficio di ausiliari, in numero e proporzioni determinate dall'afflusso lavico, e dalla quantità della forza eruttiva spiegata. Se questo costituisce un sistema vulcanico, io non saprei trovare una differenza essenziale nella forma che presentano quei due prodotti di cosmiche operazioni. Però non si può negare che una più minuta investigazione non mancherebbe di farvi conoscere delle discrepanze secondarie per le quali i due apparecchi pur si distinguono.
E primieramente farò rilevare le dimensioni, che nel sistema trachitico sono così vaste da occupare un' area estesissima, che non si osserva mai nei vulcanici, per quanto si vogliano sviluppati nella più grande scala. In secondo luogo dirò che io nato e vissuto sempre in mezzo ai vecchi vulcani d'Italia, non seppi mai scorgere in essi quel cratere di sollevamento proclamato dalla teorica del celebre De Buch, tanto contrastata nella scienza, poi definitivamente abbandonata. Eppure per la verità devo confessare che nel gruppo dei monti di Tolfa se ne ha un esempio chiaro e lampante. Nei veri vulcani il principale sbocco o il cratere centrale trovasi sulla sommità di un cono di dejezione rilevato per sovrapposizione di materie scaraventate dall'impeto eruttivo. Nel sistema tolfetano al contrario, viene circondato dalle più vecchie roccie nettuniane spostate e sollevate dall'innalzamento della stessa massa che racchiudono. Né vi mancano i barancos o le fenditure raggianti delle roccie spostate per effetto dall’innalzamento, come vennero dimostrate dall'illustre autore nei crateri di sollevamento, e come meglio vedremo in seguito. La terza differenza consiste nelle materie eruttate: avvegnaché le trachiti dense, vischiose e meno scorrevoli delle lave non si vedono mai distese in lunghe correnti come queste, ma rilevate e solidificate in cupole o in isolati mammelloni. Una quarta distinzione si ha nel vedere le eruzioni trachitiche mai accompagnate da quella enorme quantità di gas, che emettono i veri vulcani, per i quali si vedono le lave ribollite e scoriacee, e si producono i lapilli e le scorie dei coni di dejezione mancanti assolutamente nel sistema tolfetano. Se fossi chiamato a dar giudizio su queste esposte differenze, per quanto permettono le mie facoltà, io direi che l'apparecchio trachitico etrusco rappresenta un passaggio della forma plutonica alla vulcanica propriamente detta. Imperocché, se consideriamo l'epoca a cui convien riferirla, abbiamo tutto il motivo a sospettare che i pregressi plutonismi, dopo aver sollevate tante catene di montagne, scemate le forze planetarie o resa più difficile a spezzarsi la crosta terrestre, dovettero restringersi e localizzarsi, dove questa opponeva loro minor resistenza. Cosicché, profittando delle vecchie fratture, l'emanazione poté comparire all'esterno sotto una forma ridotta, che per gradi assumeva il carattere vulcanico. Io non saprei dar migliore spiegazione al fatto; però non intendo stabilire un canone di scienza. È questa un' opinione suggerita dal mio modo di vedere. L'accetti chi vuole.
Abbiamo notata l'epoca eocenica corsa tranquilla avanti la catastrofe tolfetana. Ma Dio sa da quanto tempo si preparava in segreto nelle viscere terrestri una operazione di tanto momento. Una immensa quantità di materia trachitica raccolta e addensata sotto l'oppressione della crosta terrestre gravitante su di essa, e portata alla massima tensione, attendeva il momento di esplodere per ispandersi e guadagnare spazio, non altrimenti che nelle caldaje, allorché si determina l'apertura delle valvole di sicurezza, rappresentate nel caso nostro dalle stesse soluzioni di continuità delle roccie sovraincombenti. Così in certo modo ci facciamo ragione, come un cataclisma di tanta entità sia derivato da una interna reazione della materia fusa, suscitata contro la crosta solida della terra gravitante su dì essa, fino a superarne l'opposizione. Data come probabile questa ipotesi, ben si comprende che, giunto l'istante opportuno, fosse spinta la materia eruttiva a penetrare nelle numerose fenditure della crosta terrestre, con tale violenza non solo da farla ascendere contro la legge di gravitazione, ma altresì da superare tutti gli ostacoli incontrati fino a comparire su diversi punti dell'esterna superficie. Così ne dovette risultare una rete complicatissima di filoni trachitici diffusa entro uno spazio proporzionato alla quantità della materia, e della forza eruttiva impiegata. Nè è a dire che in una operazione di quella fatta, non ne risentisse tutto intero il paese investito. Imperocché terremoti tremendi e sempre crescenti, dovettero accompagnare l'ascendente e stentato cammino della materia eruttiva attraverso le scabrosità fratturali. Né il mare sotto cui si esercitavano tali violenze potea restare esente dal risentirne gli effetti. Esso parimenti dovea essere in preda a continui maremoti, e a perenni tempeste, alle quali la sovrastante atmosfera dovea rispondere con tremenda bufera. Ma l'eruzione incominciata non potea arrestarsi, dovea correre al suo completo svolgimento. La materia trachitica, superati i sedimenti cretacei, sembra si arrestasse per mancanza di continuità di fratture, e perciò costretta a spandersi fra quelle roccie, vi si raccolse in tanta quantità da raddoppiare lo sforzo eruttino per vincere l'ostacolo che le opponevano le sovrastanti assise eoceniche. Ed ecco sorgere una intumescenza ove oggi sono i monti di Tolfa fino ad emergere dalle acque marine, e comparire. siccome un' isola nel seno di un vasto mare. E qui non è difficile immaginare quali devono essere stati gli effetti di questo sollevamento sulle assise stratificate. Una lastra di vetro colpita da una palla, si frattura a modo di una stella o di un irraggiamento attorno il colpo ricevuto. Similmente dovette avvenire sulla intumescenza tolfetana; imperocché concentrata la spinta sollevatrice alla sommità della intumescenza, questa si dovette rompere irraggiando all'intorno, e le soluzioni di continuità divaricarsi nell'ascensione. Così ebbero origine i barancos notati dal De Buch nei crateri di sollevamento, che nel caso nostro vediamo rappresentati dal corso del Marangone, dal Rio-fiume, dal canale di Rota ecc. Peraltro alla sommità di quella prominenza la fratturazione dovea essere maggiore, atteso che la forza ascensiva era in essa concentrata. Cosicché di mano in mano che le soluzioni di continuità si propagavano, la materia fusa vi s'introduceva producendo una rete complicatissima di filoncelli, e recando nella roccia penetrata notevoli alterazioni metamorfiche. Né si deve credere che questo racconto sia il risultato di una fervida immaginazione. Esso invece è suggerito da osservazioni che ognuno può ripetere sui monti della Tolfa. Le roccie che fiancheggiano la salita della Madonna della Sughera ne sono una prova.Torna su
La collina è un addossamento delle roccie sedimentarie alla trachite del Monte della Rocca, e perciò si vede tutta attraversata da filoni di quella sostanza, che si incrociano a modo di una grossa rete entro una roccia alterata, che indica ancora le sue primitive stratificazioni. Ma più chiara dimostrazione si ha alla cava Gangalandi aperta fra Tolfa e Allumiere. È questo un lunghissimo taglio fatto per l'estrazione del sasso alluminoso, e così approfondato nelle viscere del monte da raggiungere la gran massa eruttiva che si vede sfiorare nel fondo del gran cavo. Laonde le sue pareti tagliate a picco mostrano evidentemente il lavoro compito dalla natura in quella grande impresa. Dalla sommità della gran massa eruttiva si vede spiccare un numero prodigioso di filoncelli, che diramandosi in tutti i sensi vi formano un intralcio complicatissimo, o piuttosto un infiltramento diffuso in tutta la roccia, ridotto in bianco caolino, e perciò apparentissimo sopra il fondo scuro e terroso delle assise sollevate, e cotte. Dalla quale disposizione si può facilmente argomentare qual forza immane spiegasse la densa materia a penetrare le più minute fenditure e assottigliarvisi a quel modo. Peraltro questo infiltramento non è eguale su tutta la superficie di quell'area eruttiva; giacche ove la sottoposta trachite potè aprirsi più ampia via, e sbucar fuori dall'indumento per più vasti meati, vi si sollevò sotto forma di cupole o mammelloni in grazia della sua densità vischiosa, e del rapido raffreddamento in contatto della fredda atmosfera. Moltissimi sono tali rilievi, di varia grandezza ed elevazione; però non tutti compariscono, perché i più bassi furono in seguito ricoperti e nascosti dalle deposizioni subapennine di più recente data. Quelli che ci sono dati a citare nell'area eruttiva centrale, sono i seguenti : Il Monte dell'Elceto; del Fageto; di Cibona. — La rocca della Tolfa. — La Tolficciola. — Il Poggio della Capanna. — Il Monte del Ragano. — Il Monte Casalavio. — La Parentina. — Il Monte delle Grazie; Monte Rovello: Poggio delle Buffale; Monte del Castelletto; Monte Cozzone; Monte di s. Angelo, e forse altri sfuggii alle osservazioni.
Nel citare questi picchi eruttivi, devo qui richiamare l'attenzione a quell'altipiano trachitico che abbiamo detto scendere fra tramontana e ponente dalla cresta del Monte delle Grazie, del Monte Fischio e della Chiesaccia. Non senza qualche dubbio o incertezza mi è sembrato quella chinata prodotta da una quantità enorme di materia traboccata da un grande squarcio che, cedendo al proprio peso ad onta della sua densità, trascorresse sul suolo fino a raggiungere le sottostanti pianure subapennine, quivi giunta si distese in larghi festoni, coma fanno le lave, sopra piani orizzontali o poco inclinati. Le allungate prominenze di Cencelli e di Palano non rappresenterebbero che la culatta di una di quelle nappe. A questo giudizio fui condotto da dalle osservazioni: una è l'aspetto che presenta il profilo di quel declivio veduto dal Paggio Ombricolo, l'altra è la sovrapposizione della trachite trascorsa, alle roccia nettuniane visibile, sulla via che dalle Allumiere conduce alla Mola farnesiana nei fondo della valle del Campaccio. Del resto la superficie di quella colata, è in genere alquanto ondeggiante, ma interrotta da certe prominenze che potrebbero essere considera e come sommità di altri mammelloni compresi nella corrente medesima, ed emergenti sulla sua superficie. Tale è la spiegazione che credo per ora dare a quel fatto, però confesso che alla completa soluzione del problema occorrono ancora ulteriori osservazioni. L'ingente quantità di ferro che si rinviene sui monti della Tolta, sarei di opinione, abbiasi a riferire siccome attinente alla grande eruzione trachitica che sollevò quel gruppo di preminenza. Esso si presenta sotto forma eruttiva associata e compresa nel seno di calcarie cristalline, che circondano la gran massa eruttiva centrale, e dove si dirama in grossi filoni di contatto. Non avendo mai osservato tali dicchi penetrati nelle masse trachitiche, mi sembra logico che l’emanazione ferrea fa posteriore a quella, o immediatamente susseguente, come non trovando mai le masse ferree penetrate dalla sostanza delle roccie incassanti, fa credere che il metamorfismo fu posteriore alla eruzione medesima. Abbiamo già detto che il minerale di tali filoni è la limonite, che in certi punti assume il carattere di magnetite. È compatto, amorfo, e varia nei colori fra il rosso, il giallo, il bruno. Però questo minerale contiene eziandio il fosforo in proporzioni diverse, come anche lo zolfo sotto la forma di piriti. Ma, siccome le osservazioni portano a credere, che tali elementi nemici dell'industria metallurgica non siano di origine, ma sopraggiunti alla loro formazione, così di questo fenomeno terremo meglio parola allorché dovremo parlare di una seconda eruzione trachitica avvenuta tra quei monti. Una vasta area circoscritta da Fontana Inversa, la Tolfaccia, la Tolficciola, dalle prominenze che corrono fra la Tolfa e le Allumiere, comprendente i Poggi della Stella, richiama a preferenza l'attenzione del geologo non meno che del mineralogo siccome un centro di vasto metamorfismo o di un immenso laboratorio chimico della natura da cui uscirono maravigliosi prodotti. Quivi le roccie eoceniche furono rese cristalline e saccaroidi, lasciando qua e là le traccie dei loro originari caratteri, per cui si riconoscono per calcarie alberesi e macigni. Da quest'area si diparte una gran rete di venature spatiche che si diffonde, diramandosi e assottigliandosi fino a notevoli distanze, a modo di un vasto irraggiamento. In quell'area trovansi comprese le più grandi masse di ferro limonitico, e fra esse si trovano sparsi e sublimati in gruppi cristallini tanti altri metalli in forma di solfuri, associati a diverse sostanze non metalliche, delle quali daremo conto in seguito, e perciò venne distinta col nome di bacino metallifero: un vero gabinetto mineralogico. Peraltro i filoni di ferro non sono esclusivamente compresi in quell'area; imperocché si trovano anche fuori di essa, sempre in vicinanza delle trachiti, e in certe località prendono proporzioni gigantesche da costituire dei distretti ferriferi o addensamenti, da indicare centri di emanazione. Quivi intralci complicatissimi danno origine a diramazioni secondarie successivamente minori, che col propagarsi si riducono in filetti capillari, o in delicatissime reti, scorrenti colle vene spatiche fino a notevoli distanze. Al Pian Ceraso, in fondo alla valle che separa i Poggi della Stella dalle prominenze della Tolfaccia, due enormi dicchi di ferro limonitico messi allo scoperte dai minatori si vedono attraversare, dai quali si propagano tutti quei grossi filoni che trascorrono lo Scopeto, e le Sbroccate sotto Cibona, in mezzo ai quali fu collocato il forno fusorio. Al Poggio della Capanna sotto la Tolfa si osservano addossate alla roccia trachitica le assise sedimentarie, con filoni di ferro sui quali si riconoscono ancora le passate lavorazioni. Al Monto Castagno , le roccie imbevute di carbonio sono penetrate da una sottile rete di ferro convertita in grafite o piombaggine. Alla Boccaccia, entro il baranco del Marangone, potenti filoni di ferro limonitico furono fatti soggetto di escavazione, e perciò la contrada fu detta la cava del ferro. Al Campaccio sotto le Allumiere, vecchie escavazioni fecero manifesti altri grossi filoni di ferro, come in molti altri luoghi estese roccie ferruginose accennano a giacimenti di quel metallo sotto di loro.
Né manca sui monti della Tolfa il ferro oligisto. Allorché con il sig. Angelo Bonizi, distinto proprietario della Tolfa, il quale oltreché mi prestava alloggio, mi accompagnava somministrando tutti i mezzi alle mie peregrinazioni, ci furono presentati da contadini pezzi di ferro oligisto, che dissero raccolti alla Vallascetta sul confine del territorio tolfetano con quello del Sasso, essi mi sembrarono così simili a quelli dell'isola d'Elba, che non credetti, anzi li giudicai derivati dal disperdimento di un qualche deposito di minerale elbano, abbandonato sulla via, allorché veniva trasportato ad alcuno di quei piccoli forni di cui si vedono le vestigia lungo il corso della Lenta. Però ad accertarmi del fatto, mi recai sulla faccia del luogo, ove dovetti convincermi che quella quantità erratica di ferro oligisto era propria del luogo e derivata forse dallo sfioramento di scarsi filoni nascosti fra le macerie. Osservazione di non minore interesse, perché fa sospettare una analogia fra le eruzioni dell'Elba e le tolfetane. Ma perché quella differenza di minerale in luoghi così prossimi fra loro? A questo problema sarà più facile dare una qualche risposta dopo aver tenuta parola degli sbocchi secondari o ausiliari. Mentre sui monti della Tolfa si compiva il gran fenomeno del sollevamento di una gran massa di trachite fusa, un' altra parte di questa sostanza correva per la continuità delle fratture della crosta terrestre ad occupare spazio fino all’esaurimento delle forze impellenti.Torna su Ma questo irraggiamento sotterraneo non potea farsi liberamente, attesa la scabrosità delle pareti fratturali, e soprattutto la loro irregolare tortuosità dovea rendere iI cammino molte stentato. Ed ecco ripetuti urti sismici: ecco tutto il paese messo a soqquadro da gagliardi terremoti. In questo trascorrimento, dove per complicazione di fratture la vischiosità della materia si trovò compresa in cavità di difficile uscita, vi si arrestò e vi si raccolse stipata. Così si formarono delle specie di gangli, o nodi vitali, che come centri secondari di azione eruttiva furono capaci di ripetere in una scala minore gli stessi fenomeni spiegati nel centro tolfetano. Laonde su vari punti della Tuscia romana si sollevarono le roccie stratificate loro sopraincombenti, fino a comparire colla loro intumescenza sul livello del mare subapennino. Ben si comprende come queste violenze secondarie dovettero aprire nuove fratture nelle roccie investite, e dilatare le vecchie per le quali la materia scorrente potè deviare e spandersi senza sbucare all'esterno. In questo caso sembrano trovarsi i colli tarquiniensi, rappresentanti una protuberanza, nel ventre della quale si dovrebbe celare una massa trachitica; similmente dovrebbero essere le prominenze di Monte Romano, e quegli altri isolotti calcarei sparsi sulle pianure etrusche.Che se poi la materia trachitica scorrente sotterra riuscì a sbucar fuori dalla sommità della intumescenza, in ragione della quantità di forze impiegate, o si aprì un'ampia via per traboccare in gran copia, ovvero vi si sollevò per la sua vischiosa densità e sollecito raffreddamento, in un rilievo o mammellone isolato. Il primo caso si verifica sui monti del Sasso prossimi al centro tolfetano, gli altri a distanze più o meno grandi da esso. Lo sbocco eruttivo del Sasso o il maggiore di tutti gli altri ausiliari, sia per la vastità dei meati aperti, sia per la copia della materia che vi fu spinta, occupa un'area notevole, e perciò non deve far meraviglia se in essa si ripeterono gli stessi fenomeni della eruzione centrale, sempre però in una scala proporzionale. Quivi si vede la massa trachitica rilevata in vari punti sotto forma di mammelloni, sopra uno dei quali venne eretto il castello del Sasso che dà nome alla contrada. Le roccie metamorfiche egualmente la circondano, e le masse ferree vi si addensano come sui monti della Tolfa. Se non che si deve avvertire che le formazioni del Sasso, mostrano una differenza nella loro natura mineralogica per cui si distinguono dalle tolfetane. Quivi sembra che una causa modificatrice presiedette a quelle operazioni cosmiche da cui derivarono prodotti differenti. Sovente le trachiti si trovano disseminate di piccoli prismetti neri, forse di amfibolo, ovvero si mostrano omogenee di vario colore e come rifuse. Le calcarie cristalline contengono altri minerali, e il ferro oligisto della prossima Vallascetta e dei fossi Ferrone e del Ficaro, sostituisce il limonitico del centro tolfetano. Ad eccezione del Sasso tutti gli altri trabocchi trachitici si presentano rilevati in cupole su vaste gibbosità, o emergenti da sedimenti posteriori che ne ammantarono le basi. La Tolfaccia viene costituita da un picco eruttivo conico, fiancheggiato dal Monte delle Spiaggie, ossia da un brano di roccie eoceniche da quello innalzate. Alle Rocchette un altro di tali sbocchi si trova fra roccie sedimentarie alterate e tormentate dal movimento sofferto. Sotto i monti di s. Severa spuntano dalla pianura le sommità di due cupolette eruttive: alla Torre d'Orlando ne scorge un'altra parimenti accompagnata da brani di roccie metamorfosate, e il Monte Sassetto non è che la sommità emergente di un piccolo mammellone sui sedimenti subapennini, per segnare un confine alle trachiti della Tolfa. Abbiamo fatto notare che tutte queste propagini sono distribuite attorno la massa centrale, come i crateri ausiliari in un vero apparecchio vulcanico. Però esistono certi sbocchi che per la loro grande distanza, grandezza ed elevazione fanno dubitare se veramente spettino al sistema trachitico tolfetano o piuttosto ne siano indipendenti. Tali sono i Monti di Soriano o Cimino e il Virginio, che abbiamo veduto sorti in prossimità dei laghi Cimino e Sabatino. Problema in vero difficile a sciogliersi, non conoscendo altro che le loro sommità emergenti dalle dejezioni vulcaniche, che ricuoprendoli ne celarono le basi. Essi realmente furono spinti in alto da forze prodigiose, per le quali la trachite traboccò in gran copia, a notevole distanza dal centro tolfetane. Però considerando i numerosi sfioramenti di trachite fra le roccie eoceniche che si diffondono su di una grande estensione della Tuscia romana, che accennano ad un legame sotterraneo fra gli sbocchi secondari, io sarei inclinato a ritenere quei maggiori mammelloni, ancor essi come propagini del centro tolfetano, e come indicatori della sua grande diffusione entro un'area vastissima. Per questa ragione potrebbe scendere in campo un altro quesito di non minore interesse per la geologia italiana, vale a dire: se lo spazio occupato dal sistema trachitico della Tolfa si estenda fino a comprendervi il Monte Amiata, parimenti costituito di trachite e posto sul confine della prossima Toscana. Il distinto geologo Lorenzo Pareto ve lo annoverò, e gl'illustri professori Savi e Meneghini osservarono che per le riacoliti dell'Amiata furono sollevate le assise eoceniche. Osservazione certamente di gran valore, giacché porta a credere che quel mammellone, insieme alle altre trachiti del Volterrano e di s. Fiora eruttassero simultaneamente a quelle che fecero sorgere i monti della Tolta. Io però confesso che non mi sentirei inclinato ad annoverare quegli sbocchi trachitici nel sistema tolfetano; imperocché mi sembra opporvisi l'eccessiva distanza, e la mancanza totale degl'indizi'suggeriti dagli sfioramenti trachitici, da Ferento a quel monte, che pure avrebbero dovuto essere come altrove, per accennare la via percorsa. Laonde direi che gli sbocchi toscani sono stati contemporanei; ma riferibili ad un centro diverso e distante dal nostro. Differenza altresì manifestata dalla natura stessa delle roccie eruttive costituenti quegli sbocchi, cioè dalla presenza della mica nelle toscane e dalla mancanza di questo minerale nelle tolfetane. Ma comunque si voglia anche escluso l'Amiata, la vastità dell'area occupata dalle trachiti nella Tuscia romana è ben notevole, e fors'anche molto maggiore di quello che comparisce all'esterno. Se tale estensione venisse messa in rapporto collo spessore della crosta terrestre tutta penetrata da filoni, ne verrebbe la conseguenza, che la quantità della materia emanata dall'interno del pianeta in quel cataclisma fu enorme e sorprendente. Se poi volgiamo il pensiero alla forza richiesta per ispingerla contro la legge di gravitazione, e a superare tutte le resistenze incontrate fino a farsi giorno, ed innalzarsi sulla superficie del suolo , non resteremo meno maravigliati della potenza spiegata dal nostro pianeta in quella occasione. Chi non è educato dalla geologia nell'apprezzare tali mezzi, facilmente si smarrisce e si perde. Eppure se si rifletta quali forze vennero impiegate nel sollevamento delle catene apennine, ovvero delle Alpi e delle Cordigliere, portate a migliaia di metri sopra il livello del mare, il fenomeno della emissione delle nostre trachiti si ridurrà ad una operazione di così poco momento, che appena fu capace di sollevare un piccolo gruppo di leggiere prominenze. Nondimeno è da riflettere che sebbene questa eruzione agli occhi del geologo non sia stato un fenomeno della maggiore entità, fu pure il più grande avvenimento nella Tuscia romana, o la più grande operazione cosmica, al compimento della quale dovette passare una lunga serie di secoli. durante i quali tutta l'Italia centrale venne gravemente agitata. Ma questi finalmente passarono, e tutto intero il paese dovette per gradi ricuperare la sua naturale tranquillità. Se si ha adunque per dimostrato che l'eruzione trachitica della Tolfa sollevò le sedimentazioni eoceniche, ragion vuole che passato il cataclisma, e ritornati i tempi normali, le deposizioni mioceniche, che succedettero, si dovettero depositare regolari e tranquille sulle radici dei monti emersi Ma non per questa diminuzione di lavoro, l'operosità della natura era caduta nella inerzia: imperocché fin dal momento in cui la emersione mise i monti in contatto coll'atmosfera, si diede principio a quell'incessante lavoro, che anche in tempo di pace si compie, e che dura tuttora. Io voglio alludere a quella perenne demolizione che si fa sulle altitudini dei monti, per la quale questi sono sfigurati e depressi. In questo modo l’azione decomponente degli agenti atmosferici preparava il terreno alla vita, la quale non tardò a prendere possesso delle terre emerse, perché rivestite di giovani foreste, dessero asilo o stanza a numerosi stuoli di animali caratteristici di quell'epoca. Di modo che possiamo ritenere che, dopo il primo cataclisma tolfetano, il suolo lentamente cangiava di forma, mentre che interpolatamente veniva scosso da urti sismici derivati dagli assestamenti interni delle materie eruttive, o dalle stesse forze cosmiche, sempre pronte a risuscitarsi per qualunque minima causa. Allorché nel mio tirocinio ogni osservazione che faceva sui monti di Allumiere e di Tolfa mi chiamava alla meditazioni, arrestato sui filoni di allumite scavati per la estrazione dell'allume di commercio, ne esaminava i caratteri e la giacitura; in quel minerale pietroso rimarcava tutti i segni di una sostanza eruttiva, che sotto forma liquida o pastosa era stata spinta a penetrare nelle fessure della precedente trachite. Né potea persuadermi che una sostanza di tal natura, decomponibile ad un discreto grado di calore, avesse potuto essere fusa, e spinta, nei meati di un' altra roccia. Il problema invero mi parve di difficile soluzione: ma dopo molto tempo passato in ricerche ed osservazioni, cangiò d'aspetto, e le gravi difficoltà scomparvero.Torna su Conciossiaché entro la stessa allumite rinveniva masse più o meno grandi di una trachite semi-decomposta, che vennero considerate come erratiche, cioè come frammenti della roccia continente distaccati e portati via dalla corrente injettiva, e perciò non no tenni conto. Ma in seguito avendo osservato che nella medesima allumite trovansi altresì disseminati piccoli gruppi di cristalli di pirite di ferro, che non si rinvengono mai nella trachite matrice, mi venne i] sospetto che quel solfuro potesse avere avuta un'azione sulla sostanza che li contiene. Difatti, dopo aver meditato su tale azione, e sugli elementi in concorso, mi si affacciò l'idea che l'allumite fosse il risultato di una reazione chimica spiegata por via umida, ovvero una sostanza metamorfica. La quale può essere stata in origine questa roccia pietrosa? Considerando gli elementi componenti, identici presso a poco a quelli delle stesse trachiti, la conseguenza fu, che l'allumite può essere stata una trachite di seconda eruzione penetrata nelle fenditure della prima, poi cangiata in grazia del solfuro di ferro contenuto, o sopraggiunto; laonde le masse trachitiche, che avea giudicate erratiche, altro non essere che le parti a cui non giunse la trasformazione, e perciò restate quali testimoni della primitiva origine. La teoria adunque di questo fenomeno mi sembra potersi enunciare: che il solfuro di ferro cangiato in solfato, cedette l'acido solforico alla potassa e all'allumina, da cui risultò un solfato doppio di quelle due sostanze, restando fuori di combinazione il quarzo e il ferro che vi si trova in piccole masse, e che serve a colorarla. A provare questo processo naturale, farei osservare che questo risultato non si ha nella decomposizione naturale della prima trachite perché mancando il solfuro di ferro, da per risultato il caolino e non l'allumite. Al cospetto della grande diffusione dei filoni alluminosi nel seno della trachite primitiva, sorge un altro problema: come la seconda eruzione potè penetrare in quel modo nella massa della prima? Anche questo fu argomento di ricerche e investigazioni. I filoni di allumite non si osservano mai penetrati nelle roccie sedimentarie laterali, ma solo in quelle che ricuoprono la massa primitiva, perchè in direzione continuata del cammino ascensivo della materia scorrente. Una massa di vetro fuso estratta dalla fornace ed esposta in un ambiente freddo, perde rapidamente il suo calorico, e solidificandosi, per contrazione si disgrega e si screpola in superficie, producendo una rete di fenditure, che si prolungano di mano in mano che la solidificazione avanza nell'interno. Giunta ad un certo punto, ben si comprende che, mentre la faccia esterna è rivestita di una crosta solida così screpolata, l'interno è ancora fluido e mobile. Ora se s'immagini una forza che faccia impeto su questa, è chiaro che la materia sarà spinta a penetrare nelle fenditure della parte solidificata, e forse anche uscire dalla massa se l'impeto fu bastantemente gagliardo. Non altrimenti crediamo essere avvenuto in grande scala nella massa della trachite tolfetana, allorché al finire della tranquilla epoca miocenica sopraggiunse una seconda emissione della stessa trachite. Però si argomenta eziandio che le forze spiegate in questo secondo cataclisma, per quanto si vogliano minori della prima, nondimeno furono tali che concentrate sotto la massa primitiva, ebbero la potenza d'innalzare tutto il gruppo dei monti, e così mettere allo scoperto sul livello del mare le ultime assise depositate, e rappresentanti il miocene superiore. Io non so se queste mie dottrine saranno accettate dai geologi; tuttavia le ho volute metter fuori, quali mi furono suggerite dalle osservazioni, se non altro per richiamare l'attenzione a quella interessante contrada. Ma in qualunque modo si voglia egli è certo che lo scuoprimento degli strati miocenici accenna ad un secondo sollevamento avvenuto al terminare di quella epoca, ferace ancor esso di gravissime agitazioni sismiche, che misero a soqquadro tutta l'Etruria sino ad un nuovo ristabilimento dell'equilibrio cosmico. Quanta sia stata la materia emanata dalla terra in quel secondo parossismo, può essere argomentata dalle numerose escavazioni dirette allo scoprimento del sasso alluminoso. Mirabili sono i lavori praticati a tal fine: opere immense che oggi l'arte mineraria riputerebbe inutili e ruinose in una impresa industriale. D'altronde quei grandi squarci aperti nelle roccie trachitiche pur riescono utili alla scienza, facendo conoscere il portamento dei filoni alluminosi, le loro ramificazioni, e i rapporti colla massa matrice. Se dal villaggio di Allumiere si prenda la via delle vecchie cave, una serie di gigantesche aperture e pareti verticali si vedranno succedere, sulle quali si notano molti e grossi filoni di pietra alluminosa. Tali sono la cava delle Grazie, quella della Paura, la Cavetta, la Cavagrande, la Gregoriana ecc. Dall'altra parte, ossia sulle prominenze che sovrastano la strada che conduce alla Tolfa, tante altre cave si rinvengono dirette al medesimo scopo. Fra queste è la Gangalandi o Cavaccia, famosa per la sua ampiezza, lungo la quale quattro grossi filoni per molti anni alimentarono la lavorazione, dai quali si diramano bracci minori, che si sieguono oltre la trachite attraverso le roccie metanorfiche sopraincombenti. Se si pensi che queste cave alimentarono per secoli l'estrazione dell'allume di Tolfa, e quanta allumite vi sarebbe ancora a cavare, ben si comprenderà che quella sostanza sollevata nella seconda eruzione fu immensa, sebbene non comparisca all'esterno.
Abbiamo già parlato del bacino metallifero disteso fra le prominenze della Tolfa e quelle della Tolfa vecchia o Tolfaccia, comprendente i Poggi della Stella. Ora fa d'uopo ritornare a quella contrada per conoscere meglio gli accennati solfuri metallici che vi si contengono oltre i filoni di ferro limonitico che 1'attraversano. Abbiamo detto altresì che quella vasta area risulta costituita dalle assise eoceniche più o meno metamorfosate in calcarie saccaroidi, ordinariamente a grana grossa, bianche candide, alle quali si associa altresì il quarzo, ora in cristalli limpidi e jalini detti diamanti della Tolfa, ora di un bianco ametistino ovvero in masse colorate dal ferro. E' appunto in queste roccie che si trovano disseminati i suddetti solfuri, sovente raccolti in gruppi di cristalli mescolati fra loro, in guisa che non è raro vederne tre o quattro in un medesimo saggio. Tali combinazioni di tante diverse sostanze danno un carattere speciale a quella contrada, da farla considerare come una grande raccolta mineralogica. I metalli che vi fanno comparsa sono il ferro, il piombo, lo zinco, l'antimonio, il mercurio, il rame, l'argento, e forse altri fin qui incogniti. Il solfuro di ferro o la pirite marziale è il più abbondante di tutti. Offre al solito il suo colore giallo d'ottone, e la sua cristallizzazione in piccoli cubetti o in dodecaedri pentagonali, riuniti o sparsi nelle roccie. Qualche volta stretti fra loro in masse tenaci, tal altra così disgregabili che cadono al più leggiero tocco. Vi si vedono anche piriti bianche per indicare che contengono argento, o arsenico, delle quali l'analisi chimica può meglio dare contezza. Né manca la calcopirite colle sue cristallizzazioni iridate. Però in molti luoghi le piriti si decompongono per azione dell'aria e dell'acqua, e convertite in solfati cadono in polvere grigia spargendo ingrato odore. Non è raro trovare tale decomposizione associata a cristalli di selenite, per modo da far credere ad una reazione chimica fra quella sostanza e le calcari. Alcune osservazioni mi hanno condotto a credere, che il solfuro di ferro possa essere una riduzione del ferro limonitico, prodotta da vapori sopraggiunti; imperocché nelle roccie del Monte Castagno attraversate da una sottilissima rete di ferro idrato, ho trovato questo in parte cangiato in solfuro in parte no, come se il vapore solfureo gli fosse camminato dietro per convertirlo in pirite. Osservazione che farebbe credere posteriore l'emanazione solfurea.
Il solfuro di piombo o galena è molto frequente nelle roccie metamorfiche della Tolfa in masse spesso avviluppate da sostanza argillosa e ferruginosa. La struttura è laminare e lucente; ma si rinviene altresì in minuti cristalli argentiferi. Qualche volta vi è unita la fluorina ottaedra verde, bianca o violetta, in cristalli aggruppati o sparsi. Sulla volta di una vecchia galleria in vicinanza dell’edificio del piombo, entro la calcaria saccaroide rinvenni grossi cristalli di riacolite in decomposizione, selenite, galena, parte della quale passata in fosfato, e blenda tutti frammisti da grossa fluorina verde e conditi da cristallini di solfuro di ferro o pirite. Al Poggio Ombricolo, come al Zanfone osservai cristalli di galena annidati in un quarzo cellulare, e ai Grottini lungo il corso del

 

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