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La Tuscia Romana e la Tolfa Ponzi
 

Marangone, cristalli cubici di quel minerale sparsi in una calcare bianca e traslucida a frattura romboedra. Lo zinco solforato o la blenda si trova nella medesima giacitura degli altri solfuri; però è raro cristallizzata, trovandosi più ordinariamente sotto forma laminare, e del suo solito colore grigio giallastro che spesso risalta entro di una calcare candida, come si vede alle Pozzarelle, nelle escavazioni della galena. Il solfuro d'antimonio o stibina si presenta in prismi allungati, splendenti, argentini e non iridescenti; qualche volta raggianti, più spesso sciolti nella roccia calcare, tendenti a farsi paralleli; forse argentiferi. Sono compresi spesso in una sostanza biancastra amorfa, che sembra antimonio bianco antimonio bianco o ossido di antimonio. Il mercurio solforato o cinabro nativo, trovasi in compagnia dei sopraindicati. Fu da me rinvenuto per la prima volta in una frana invernale entro un fosso dello Scopeto, nelle cui macerie si presentò in minutissimi cristallini rossi di rubino, insieme ai prismi di stibina. Fattone esperimento furono presto verificati per mercurio solforato o cinabro. Erano riuniti in grappoli lungo le traccie delle antiche stratificazioni, ovvero sparsi insieme a piriti, che tingevano in bruno. L'acqua distacca quei cristallini, li trascina nel fondo del fosso, ove per la loro gravità specifica si raccolgono qua e là, dando indizio della presenza di quel minerale. L'argento solforato o argirosio, a rigore non potrebbe essere accusato che per semplici traccie, o macchie rosse proprie di tal minerale osservate nelle calcarie dei Poggi della Stella: indizi che danno la probabilità di rinvenirlo decisamente, considerando che l'argento è spesso unito agli altri solfuri. Dalle sostanze combinate allo zolfo non possiamo escludere la selenite o solfato di calce, siccome quella che fa la sua grande figura nel bacino tolfetano, e dove lo zolfo si dichiara principio metamorfosante. Le marne mioceniche che emersero nella seconda eruzione trachitica sono cangiate in gessi, dando origine a ingenti masse capaci di alimentare una industria. Però su diversi punti si notano degli spazi a cui non giunse la riduzione, e nei quali si vede la roccia coi suoi naturali caratteri. Il prisma obliquo romboidale è la forma che presenta nei cristalli, mai geminati, spesso mostruosi quando sono di maggior volume: sempre però facili a sfogliarsi in lamine a Specchio d' asino. L' Ara vecchia sotto la Tolfa, sulla via che conduce a Rota, è tutta seminata di quei cristalli, e di ogni grandezza. Alle Spinare, alla Cava dell'Oro, a Pian dei Santi si vedono grandi formazioni di gesso a tessitura saccaroide, come il marmo statuario, e a Pian Cisterno il suolo brilla di punti lucenti dovuti al riflesso delle fccie delle lamine di quel minerale. Fa d'uopo avvertire che vari dei sopraccennati solfuri si trovano associati, sebbene in più discreta quantità, a carbonati e a fosfati. E qui potrebbe richiedersi, se questi siano il prodotto di una formazione speciale, ovvero una riduzione di quegli stessi solfuri per ispeciali combinazioni. In verità io inclinerei per questa seconda opinione, poiché quelle due sostanze non si trovano mai scompagnate, ma di più in quantità ristrette. Il solo rame, come più facile a passare in carbonato, è più raro sotto la forma di pirite; ordinariamente si rinvieni ridotto. In vicinanza dell'edificio del piombo è facile imbattersi nella malachite o nell'azzurrite, e negli stessi depositi delle antiche lavorazioni di quello stabilimento, si vede molto rame carbonato che in origine dev'essere stato piritoso. La cerussa e la calamina sono meno frequenti del carbonato di rame. I fosfati sembrano essere nelle medesime condizioni, come sono quelli dì piombo e di zinco. Però abbiamo veduto che il ferro limonitico, il più copioso di tutti entro il bacino metallifero, quasi sempre contiene fosforo in dose diversa. In qualche luogo si è veduto che l'elemento fosforoso scomparisce colla profondità: fatto, che come abbiamo detto, sembra accennare il fosforo essere un elemento sopraggiunto. Vicino al forno fusorio sotto il convento di Cibona, nella escavazione dei pozzi aperti per l'estrazione del minerale ferreo, si vide venir fuori una quantità di roccia disfatta tinta in turchino dal bleu di Prussia naturale, e nel minerale di Pian Ceraso si rinvengono piccole cristallizzazioni verdastre di ferro fosfato.
Ma l'area metallifera entro la quale si contengono tante svariato sostanze, non è solo circoscritta dagli accennati confini; ma bensì prolungata sul cammino dei grandi dislocamenti, riferibili al sollevamento delle roccie nella prima eruzione trachitica. Laonde vediamo scorrere il metamorfismo fra la Tolfa e il Monte Virginio, lungo una linea tracciata dalle sorgenti solfuree in vicinanza di Rota, e dalle acque di Stigliano per terminare colle solfatare di Canale. Così si può seguire un altro prolungamento col corso del Marangone, ove le roccie metamorfiche per gradi si dileguano e scompariscono. Gli altri sbocchi ausiliari del sistema trachitico della Tuscia romana, sono egualmente accompagnati da formazioni solfuree, però in proporzioni convenienti alla loro entità. Al piccolo mammellone della Torre d'Orlando, sono contigue masse selenitose, che danno il nome alla salita del Gesso sulla via cornetana. Sotto le prominenze del Sasso, costituito da ingenti masse trachitiche, le marne subapennine convertite in gessi si distendono sulle radici delle roccie eruttive, come nel bacino della Tolfa. Né mancano i solfuri riferibili con ogni probabilità a quel centro di emanazione. La scoperta di questi minerali é recentissima. Imperocché il sig. Tommaso Tittoni, distinto giovine dilettante di studi geologici, perlustrando quella littorale contrada, rinvenne nel fosso detto della Legarella nel comune di Cerveteri un masso erratico di macigno eocenico, diroccato dalle sovrastanti altitudini, e attraversato da grosse venature di calcare spatico. In queste erano disseminate piccole masse cristalline del solfuro d' arsenico Realgar, insieme ad Orpimento, che col rosso ranciato del primo , e giallo cedrino dell'altro, facevano un risalto sul candore del calcare, e sul grigio del macigno. Tali minerali furono dottamente illustrati dal comm. Quintino Sella (2), e perciò conviene registrare il fatto come un acquisto della scienza. Dei solfuri d'arsenico io non avea mai avuto esempio nel bacino metallifero della Tolfa perciò la scoperta mi riuscì nuova, e così interessante da somministrare una prova ulteriore a ciò che io asseriva sulla diversità dei prodotti metamorfici del Sasso. Sono ben cognite le vaste solfatare e gessaje, che al piede del Monte Virginio si distendono fra Canale e il diruto paese di Monterano , come fra la Manziana e s. Vito. La giacitura di esse sembra dichiarare altamente la loro attinenza a quel cospicuo mammellone trachitico. Degli altri monti eruttivi, che spettano a questo sistema, poco o niente possiamo dire, trovandosi le loro basi ricoperte e nascoste da sedimenti posteriori. Nondimeno ci sembra logico ritenere, che anche in questi abbiansi a rinvenire gli stessi metamorfismi, che osserviamo negli altri. Al cospetto adunque di tanti prodotti solfurei associati alle trachiti della Tolfa, qual criterio dobbiamo farci della loro origine? Che il fatto accenni ad una emanazione solforosa della terra, mi sembra non possa mettersi in dubbio. Ma a quale epoca ascriverla? Se portiamo attenzione ai cristalli di ferro piritoso contenuti sulla pietra alluminosa, che probabilmente fu prima una trachite di seconda emissione, poi convertita in allumite, e se consideriamo le marne mioceniche da quella sollevate e cangiate in gesso, mi sembra giusta la conseguenza che alla seconda eruzione trachitica abbiasi a riferire il fenomeno. Laonde direi per tale ragione, che quella fosse accompagnata da una vasta emanazione solfurea, come alla prima tenne dietro l'eruzione ferrea. Tale per ora sarebbe il mio modo di vedere il fenomeno. Ma siccome per un giudizio definitivo di tal natura non sono mai troppe le osservazioni, così a raggiungere questo fine conviene sia rimesso ai miei successori.
Se il cataclisma prodotto dalla seconda eruzione delle trachiti tolfetane fu di minore intensità del primo, ragion vuole che anche fosse di più breve durata. Nondimeno fu tale che gli effetti non solo furono sperimentati nella Tuscia romana, ma anche nelle più distanti contrade. Le fenditure che presentano lo marne vaticane e del Monte Mario, dimostrate dai loro fossili come piano superiore del miocene, e perciò contemporanee con quelle gessose del bacino tolfetano, sono a mio parere prodotte dalle oscillazioni del suolo concomitanti il secondo parossismo trachitico. Cosicché possiamo dire, che tutto il suolo subapennino ancora sommerso, dovette andar soggetto a gravissimi perturbamenti, accompagnati da tremende burrasche atmosferiche. Laonde il mare fu quello che a preferenza dovette risentirne immensi danni. Disturbata la vita gli esseri suoi abitatori sbaragliati e dispersi vennero estinti; altri balzati in regioni diverse, mentre i terrestri sulle isole del piccolo arcipelago tolfetano, scomparivano per azione diretta delle forze telluriche. Ma questi effetti dovettero lentamente cessare col declinare delle cause produttrici, ossia col compimento del secondo periodo eruttivo. Dimodoché al principiare dell'epoca pliocenica la calma era già ristabilita nella natura. Le assise zancleane o le calcarie del Macco, che rappresentano quell'epoca, si mostrano regolarmente depositate, e il numero e sviluppo dei loro fossili, annunziano condizioni favorevoli alla vita dopo la seconda eruzione trachitica. Però conviene avvertire che quella calma servì di riposo alla natura per prepararsi a nuova impresa. Imperocchè la Tuscia romana dovette andar soggetta anche ad un terzo periodo di azioni cosmiche, capaci di alterare altresì la sua forma geografica. Tuttavia questa volta non si tratta più di trachite comparsa alla superficie del suolo, ma di azioni puramente dinamiche, o di un periodo di tremendi terremoti ritornati ad agitare quella contrada.
Dalla scala stratigrafica possiamo argomentare il tempo in cui l'Etruria andò soggetta a tanto parossismo. Fra le assise del pliocene inferiore e quelle del medio notasi una discordanza di giacitura che chiaramente accenna a nuove oscillazioni del suolo, o ad un terzo perturbamento nell'ordine di natura. Questa osservazione non è facile farsi sulle colline tolfetane, a causa del gran disordine prodotto nelle loro stratificazioni del secondo cataclisma: ma se ci portiamo a poca distanza, sulla collina di Corneto avremo una prova evidente di un fatto di tanta importanza geologica. Il fiume Marta, o l'emissario del lago Vulsinio, sotto quella città trascorre la linea fratturale di un salto, come il Tevere attraverso Roma. La differenza fra l’una e l'altra sponda è evidente; Imperocchè la destra risulta di un brano di calcarie alberesi eoceniche a letti inclinati all'esterno. e ricoperti di un sabbione pliocenico orizzontale. disteso a formare la rispettiva pianura: la sinistra, sulla quale è posta la città, al contrario si compone in basso di quelle medesime marne mioceniche cambiate in gesso per metamorfismo, alle quali succedono a giacitura concordante potenti banchi della calcaria del Macco, pieni di amfistegine o grossi fossili del pliocene inferiore, o del terreno Zancleano del Seguenza. Questi letti sono inclinati ad angolo anticlinale, o contrari a quelli della opposta sponda. Essi, componendo essenzialmente la massa della collina, si vedono emergere per il loro sollevamento, agli strati orizzontali che loro succedono, o alle marne che i loro numerosi fossili accusano come pliocene medio, e che costituiscono il suolo circostante. Nel fondo della valle e a più basso livello si trovano le assise di più recente data, depositate dopo l'innalzamento di quella collina. L'annessa sezione servirà a dimostrare tali giaciture.


A. Alberese. Eocene
B. Gessi Miocene
C. Marne
D.Macco E.Marne. Pliocene medio

E.Marne. Pliocene medio
F.Sabbie gialle. Piocene superiore
G.tufi vulcanici. Glaciale
H.Breccie. Alluvionale


In questo taglio pertanto si legge, che dopo la deposizione del pliocene inferiore, le roccie subirono un innalzamento con emersione, da comparire sotto forma di una isola nuova sulle acque subapennine, e addizionale al piccolo arcipelago tolfetano: fenomeno che non potrebbe essere attribuito ad altro che a gravissimi terremoti per la mancanza assoluta di roccie d'injezione, e dei loro metamorfismi. Non avendo altro esempio in tutta la Tuscia romana del fatto avvenuto a Corneto, mi fa credere, che dopo la deposizione del pliocene inferiore ivi _si determinasse un centro sismico, da cui irraggiarono le ondulazioni fino a notevoli distanze. L' intensità poi degli effetti stampati sulle roccie investite, e il loro spostamento fino ad uscire sulle onde marine, mi portano a credere che quella operazione di natura non sia stata istantanea. ma ripetuta o intermittente, come ordinariamente si osserva nei periodi sismici. Che se poi taluno volesse portare indagini sulla causa prossima della oscillazione cornetana , io sarei d'avviso non allontanarmi da quella medesima da cui derivarono i precedenti parossismi. Giacchè la trachite stessa può essere stata spinta anche una terza volta contro la crosta terrestre con forze gradatamente minori delle prime. Se al terminare dell'epoca eocenica la trachite della prima eruzione fu tale e tanta da sollevare un gruppo di monti, e spingere le sue propagini a notevoli distanze; se al finire dell'epoca miocenica una seconda emissione di quella sostanza fu salo spinta a penetrare nelle fenditure della prima, e innalzare di un tratto i monti preesistenti; mi sembra logico che le oscillazioni del suolo avvenute dopo la deposizione del pliocene inferiore possano ripetersi dagli urti esercitati da una terza spinta trachitica più debole delle precedenti. In questo caso la minor quantità di sostanza eruttiva, nel disperdersi attraverso i dislocamenti della crosta terrestre, non ebbe altro potere che di produrre all'esterno gravissimi terremoti, e spostamenti dei brani rocciosi. Così mi sembra spiegato tutto lo svolgimento di un periodo eruttivo compito nella Tuscia romana, e distinto in tre tempi, impiegando forze successivamente minori fino alla estinzione. Questa operazione cosmica è precisamente analoga a quelle che si osservano nei processi vulcanici, di cui abbiamo un chiaro esempio nella storia dei vulcani del Lazio, da me dimostrata, e distinta in quattro periodi eruttivi successivamente minori (3). Quanto poi al trasferimento del punto d'irraggiamento sismico sete la collina di Corneto, io direi, che avendo trovati chiusi ed ostrutti i passaggi nel centro tolfetano, la materia eruttiva fu costretta a deviare, e, trovata minor resistenza nella fenditura martana, ivi concentrò le suo spinte e fece emergere un brano spostato. Dato così tutto lo sfogo necessario al terzo periodo d'azione cosmica, mi sembra naturale che i terremoti cessassero, e i tempi ritornassero allo stato normale. Difatti i letti marnosi e sabbiosi riferibili al resto dell'epoca pliocenica, oltreché mantengono intatta la loro originaria giacitura, sono così pieni di reliquie organiche, da indicare che in tutto quel tempo l'Italia centrale restò tranquilla da qualunque perturbazione cosmica. Così ebbe intero sviluppo il periodo trachitico che fece emergere i monti della Tolfa, e così mi sembra avere anche io soddisfatto al tema che mi era proposto. Se non che la narrazione e l'esame fatto di quei tanti meravigliosi fenomeni non mi sembrano completi senza aggiungere qualche parola sulle imprese industriali tentate in quella contrada a fino di mettere a profitto le loro minerarie ricchezze.
IV. INDUSTRIE MINERARIE
Ci mancano i mezzi a conoscere l'epoca in cui l'uomo per la prima volta comparve sui monti della Tolfa; ma se facciamo attenzione alla storia geologica della Tuscia romana, mi sembra che quelli ccmparsa non possa essere avvenuta se non dopo che il suolo etrusco fu messo in secco per lento sollevamento vulcanico; vale a dire quando, scomparso il piccolo arcipelago per ritiro delle acque, le comunicazioni vennero aperte ad una libera circolazione. Ma pur ci conviene scendere a tempi anche più recenti, e forse ai primitivi etruschi,, per argomentare che l'uomo per la prima volta rivolse la sua attenzione ai prodotti minerali della Tolfa. Sembra che le più antiche escavazioni di cui abbiamo notata le vestigia siano state dirette alla ricerca dei metalli piombo e ferro, però convien avvertire che nessuno degli antichi scrittori fa menzione di ciò, e tutto si riduca a congetture alimentate da poche osservazioni. In tale stato d' incertezza volli intraprendere delle ricerche per sapere almeno in qual tempo incomincino le più positive notizie sopra un tale argomento. A questo fino ho frugato negli archivi pubblici e privati, nelle biblioteche, e perfino ho inter-rogato persone competenti per avere notizie di tal genere. Ma anche da queste poco e niente ho potuto ricavare di ciò che v lane operato nelle epoche più antiche. Con-viene scendere al medio evo, per incominciare ad avere cognizioni meno vaghe ed incerte, sulla escavazione dei minerali tolfetani. Peraltro devo far conoscere che praticando tali indagini mi fu dato a leggere un libro conservato dalla distinta famiglia Buttaoni di Tolfa, manoscritto a uno dei suoi antenati, dal quale appresi molte notizie di cose tolfetane, e fra le altre quello che si riferiscono ad imprese minerarie fatte in quel territorio. Vi si rinvengono memorie diverse, una delle quali scritta in latino De inventione allumini L. le altre in italiano sul ferro, piombo, quarzo ecc. Le notizie sono circostanziata , e di esatta apparenza, perciò dànno ai racconti il credito storico conveniente. ].laonde, sia per le notizie ricavate da quel manoscritto, sia per quelle raccolte altra-ve, sia per i fatti in cui ho avuto parte, credo poter in qualche modo azzardare la narrativa delle cose avvenuto, perché non cadano nell'oblio. Le sostanze minerarie pertanto di cui I' umana industria ha tentato profittare sono: l'allume, il ferro, il piombo, il mercurio, le ocre, il quarzo, le argille, le ligniti, la pietra litografica, delle quali imprendo a parlare. Allume. — La più vasta impresa che siasi fatta sui monti della Tolfa è quella dell'allume, a causa degl' immensi guadagni recati al governo pontificio in altri tempi; prova ne sia l'istesso paese delle Allumiere, e lo stabilimento erettovi, surti da quelle lavorazioni. Si crede da quei errazzani che gli Etruschi o i Romani conoscessero il loro allume, in seguito dimenticato, e lo argomentano da un vasto cavo aperto sotto il Monte delle Grazie, ora r. coperto di densa foresta, e da un'altra cava di allumite che porta il nome dei Romani. Ma questa credenza, come non é centra-detta da alcuna ragione, così non ne ammette alcuna, perciò resta senza valore. Altri narrano che l'agrifoglio desse a Giovanni di Castro il primo indizio del sasso alluminoso; ma quest'assertiva neppure è vera, perché quell'arboscello si rinviene altresì sui monti calcari , che non contengono affatto annuite. Della scoperta dell'allume parlano i commentari di Gobellino, ossia Pio II, sotto il cui pontificato nell'anno 1462 fu fatta la scoperta. Il manoscritto tolfetano parla dei luoghi e delle persone che ebbero parte in quell'avventura, non che di altri fatti relativi alla storia della Tolfa dei quali non conviene ora tener conto. Giovanni di Castro, figlio del celebre giureconsulto Paolo dì Castro, fu tintore e negoziante di panni a Costantinopoli ore perdette tutti i suoi averi allorchè quella città venne presa dai Turchi. Abbandonata Costantinopoli tornò in Italia, quindi andò al concilio di Costanza in qualità di depositario del papa Eugenio IV, ove contrasse amicizia col cardinale Enea Silvio Piccolomini. Succeduto questi al pontificato col nome di Pio II, ritenne il detto Giovanni di Castro come commissario generale delle rendite dello stato ecclesiastico.
Trovandosi in Corneto e inclinato alla ricerca delle curiosità naturali, gli venne riferito che sui monti della Tolfa ne avrebbe rinvenute. Interrogato un tal Domenico da Padova astronomo che avea seco, questi, consultata la scienza, rispose che su quei monti avrebbe avuta fortuna. Pensò tosto a spedire sui luoghi il suo maestro di casa per nome Teodoro, alias Federico di Westfalia, per raccogliere pietre ed altri minerali. Difatti questi vi andò e vicino al fontanile superiore raccolse una pietra che portò a Civitavetula (Civitavecchia) in casa di un tal Bonifacio, vicino la porta che guarda mezzogiorno. Quivi venne per la prima volta fabbricato l'allume estraendolo dalle pietre raccolte. Allora il Di Castro, credendo che la. Tolfa fosse della comunità di Corneto e dei Vitelleschi, capitolò con quel comune ma poi avvedutosi dell'errore, capitolò di nuovo coi signori della Tolfa, Ludovico e Pietro. Recatosi quindi in Roma ne fece relazione al Papa, riportata dal Gobellino, il quale insieme ai cardinali riputò la scoperta un sogno, nè credette al relatore. Però questi insistendo e dichiarando vero il fatto, per l'amicizia che avea col Pontefice ottenne che, usate le debite diligenze ed esperimenti, si verificasse il fatto. Il Papa, conosciuta l'utilità della scoperta, potendo recare alla Camera più di 3000 ducati all'anno, ne diede la concessione al detto Giovanni di Castro per 25 anni, col terzo degli utili e colla condizione di poter la Camera istessa affittare la detta miniera col compenso al detto Giovanni delle decime. Nel primo anno la Camera toccò di pretto guadagno 95,000 fiorini d'oro, quasi 2,000,000 di lire moderne, e questo nuovo reddito fu destinato dai cardinali con giuramento in conclave a continuare la guerra contro i Turchi. Nei 25 anni della concessione data a Giovanni di Castro, fabbricarono l'allume, prima lo stesso concessionario con Bartolomeo Fransusa Sannensis, quindi vi si associarono Carlo Gaetani, poi Pietro di Cosmo dei Medici fiorentino, legato in società con Giovanni di Tornabuoni, e successivamente fu anche socio Pietro Rucellai, rappresentato da Nicola di Castiglione. L'allumiera inferiore (forse la contrada oggi detta la Concia), si chiamava quella ove abitarono Carlo ed Alfonso fratelli Gaetani, ai quali succedettero Giulio degli Albertoni o Ludovico Morgani. Si riportano nel manoscritto tolfetano altre notizie che tralascio essendo estranee al nostro assunto.
Nel 1835 il cardinal Mertel di Allumiere pubblicò un opuscolo col titolo: Cenni storici delle miniere delle Allumiere in cui si scorge che il pontefice Paolo Il acquistò dai baroni della Tolfa il loro fondo e le loro ragioni, pagando 1700 scudi d'oro, e da quel momento la lucrosissima. impresa dell'allume fu del governo il quale seguitò a farne appalti, ma poi stimò meglio condurre quello stabilimento per proprio conto. II metodo che si teneva allora per la estrazione dell'allume era quello medesimo che si é mantenuto fino a' giorni nostri. Il trattamento del minerale si faceva per operazioni successive, cioè: l'escavazione a cielo aperto entro immensi squarci per seguire l'andamento dei filoni di un qualche metro di potenza: la torrefazione in apposite fornaci con consumo esuberante di combustibile vegetale: la macerazione sulle piazze per mezzo di quotidiana inaffiatura: la lesciviazione in caldaje, e la cristallizzazione per raffreddamento in vaste tine, dalle quali le acque madri si riportavano nelle caldaje per essere di nuovo riscaldate. Basta visitare le vecchie cave, o le piazze di scarico per giudicare quanto dev'essere costata quella immensa quantità di rifiuti. Nondimeno l'allume della Tolfa correva in commercio, e lo smercio manteneva attiva l'impresa. Però coll'andare dei tempi la cosa non potea durare così, giacché la poca intelligenza nella direzione dei lavori, la scoperta all'estero di altre allumiti, il progresso nell'arte delle miniere, e i più facili trasporti fecero declinare quella industria rendendola sempre meno lucrosa. Abbandonata la direzione delle cave ai lavoranti, questi, cercando sempre i propri vantaggi introdussero abusi e quindi la demoralizzazione. Si sfruttarono le cave rendendole impraticabili per ingombro di macerie, vennero aperte cave nuove, di poca durata, si tornò alle cave vecchie per ruspare allumite, si fecero ingenti spese inutili, per modo che quella impresa, per gradi divenne remissiva. Allora i Camerali, credendo di supplire alle grandi perdite, mantenendo l'uso delle miniere, convertirono le allumiere ad una impresa di campagna. Ma anche questa divenne un interesse degli allumieraschi i quali lusingavano il governo con nuovi progetti speculativi, fino ad introdurre la raccolta della manna che presto si dovette abbandonare. A tale pessimo stato era ridotto lo stabilimento quando il cardinal Tosti tesoriere generale vendette al Monte di Pietà i possedimenti di Allumiere, lasciando quella quantità di selve, occorrenti alle lavorazioni minerarie. Frattanto incominciava a correre in commercio 1'allume artificiale a prezzi così tenui da far fronte al nostro naturale. Questa fu l'ultima rovina dello stabilimento della Tolfa, giacchè, mantenendosi sempre i soprusi, la remissione del governo crebbe fino agli 8 o 10 mila scudi all'anno. Così erano le cose quando nel 1854 insorse questione fra l'amministratore e i lavoranti per aver bruciata e perduta una quantità di minerale. A rimuovere tali inconvenienti insieme all'architetto del Luogo Filippo Navone e Paolino Masi, già possessore di una cava di zolfo in Romagna, fui spedito in commissione alle Allumiere per prendere la direzione dei lavori, e portarvi le riforme che credevamo convenienti. Si cercò di allettare i lavoranti colla promessa di un avvenire migliore, onde si prestassero alle nuove disposizioni. Si prese la direzione della parte tecnica. Si cercò correggere molti abusi, e in 8 mesi di quello stesso anno, anche senza cangiar metodo di lavorazione, si venne a pareggiare il disavanzo. S'istituì l'escavazione per gallerie, ma gli allumieraschi vedendo una diminuzione di lavoranti, si misero in allarme, e incominciarono a osteggiare il nuovo esercizio, e insieme qualunque riforma veniva progettata, per via d'intrighi burocratici; in guisa che al terminare di quello stesso anno la commissione fu costretta a dimettersi, restando il Masi come direttore tecnico, il quale, dopo aver tentato altre modificazioni inutilmente , anch’esso fu costretto a ritirarsi. Così ritornarono i vecchi abusi e il nuovo metodo d'escavazione fu abbandonato. In seguito si propose la vendita dello stabilimento, e sebbene pur si trovassero offerte vantaggiose, tuttavia anche questo progetto non poté sortire buon fine, perché svanito dalle mene burocratiche. Dopo ciò quelle allumiere, che un dì furono tanto lucrose pel governo pontificio, ripresero il loro stato di sempre crescente passività. Finalmente nel 1870 cangiò governo, e con esso mutarono le sorti di quella intrapresa. Giacchè il Demanio per effetto di aggiudicazione avvenuta il 22 settembre 1873 cedette alla Società finanziaria di Parigi lo stabilimento dell'allume e tutti gli annessi situati nei comuni di Tolfa e Allumiere, per la somma di L 360,647. 41, Questa società, riformati i metodi di trattamento, e ridotte le cose in buon ordine, coltiva tuttora quella miniera traendone più convenienti profitti. Ferro. — Relativamente al ferro abbiamo rinvenuto che nell'anno 1497, allo stesso Giovanni di Castro inventore dell'allume fu concesso di edificare un molino, e un forno fusorio per la estrazione del ferro nelle ruine di s. Severella presso Cencelle, oggi Mola farnesiana , tuttora in esercizio e dove si scorgono altresì gli avanzi del forno. Dopo quel tempo non abbiamo altre notizie fino al pontificato di Pio V, conservandosi negli archivi di Bracciano un rogito notarile in data 26 maggio 1565, in cui si legge, che un tal Clemente Buccileni bresciano, abitante nel castello di Monterano, ora diruto, padrone del forno posto in quel territorio, nella contrada le Perazzete, ove si cola la vena del ferro della Tolfa, inaugurò la lavorazione alla presenza di un gran concorso di gente, con una messa solenne e un gran pranzo, di cui tutti l'invitati restarono soddisfatti. Una lapide commemorativa rinvenuta in una vigna sotto quello stesso paese ci fa. inoltre conoscere che nel 1612, sotto il pontificato di Paolo V, un tal Pietro Camporio commendatore di s. Spirito costruì una officina ferraria , e un edificio a distendino, nella medesima contrada di Monterano. Nel 1650, un tal Francesco Boschi della Tolfa, trovata la miniera del ferro, eresse una ferriera alla caduta del Callano sotto lo stesso paese, traendo probabilmente il minerale dal Poggio della Capanna, ove si vedono ancora traccie di una escavazione. Era in quel tempo un tal Grifone governatore delle allumiere, il quale vedendo la prosperità della impresa, richiese al Boschi di far parte in tale industria, ma essendo stato ricusato, accusò il Boschi alla Camera come usurpatore dei diritti del governo, per cui il detto Boschi fu carcerato e condotto in Roma, ove ebbe la città per carcere, e dove morì nel 1654. Così non si parlò più della cava del ferro. Nel 1739 ad Alessio Mattioli di Camerino fu concessa la privativa di fabbricare ogni sorta di acciai, e di cavare metalli nei monti di Narni, della Tolfa e Guarcino, sotto certe condizioni, in virtù di un chirografo emanato dal papa Clemente XII li 3 ottobre 1739, e con istromento stipulato dal card. Bolognetti già Tesoriere li 4 decembre del detto anno. La concessione fu per anni 60, dando alla Camera il 5 per cento di lucro. Il detto Mattioli, fatta società con altri intraprendenti, si assicurò prima del ferro, poi del piombo della Tolfa; ma avendo atteso più a questo che a' quello, niente fece del ferro. La Camera allora venuta in cognizione che prossimi alle cave del piombo delle Pozzarelle si trovavano grosse vene di ferro, che sono quelle del Pian Ceraso, ne ordinò una piccola prova nel forno di Conca, la quale essendo riuscita bene, la volle ripetere in grande in quello di Bracciano. Ma il ferro estratto non avendo resistito al maglio, fece venire dalla Sassonia 4 minatori, che giunsero alla Tolfa nel 1748, perché due di essi attendessero alla miniera del ferro, gli altri a quella del piombo. Ma dopo 2 anni, i primi non avendo dato alcun buon risultato, furono rimandati, n'e più si parlò del ferro. Peraltro convien dire che ad onta di tali avvenimenti la quantità del ferro, che si presenta sui monti tolfetani, abbia sempre lusingato gli speculatori a tentarne l'impresa. Imperocché lungo il corso della Lenta si trova una serie di piccoli forni, dei quali non ho trovata notizia, ma che sembrano avere avuto vita nel passato secolo. Sembra che quelle industrie dovettero cessare, non potendo reggere alla concorrenza delle grandi imprese straniere. Altro non possiamo dire delle miniere del ferro della Tolfa fino al 1841 in cui ai 26 marzo fu data la concessione a Clemente Lovatti di usare, delle dette miniere, che poi cedette alla Società romana delle miniere del ferro , quando questa ottenne sotto il pontificate di Gregorio XVI la facoltà di scavare il ferro a Monte Cucco (Gubbio), a Stifone (Narni), e Pupagi (Sellano), dietro un canone di scudi 20 all'anno pari a L. 107,50 e parte degli utili. La suddetta. Società romana fabbricò alla Tolfa un alto forno sotto il convento di Cibona con uno stabilimento di fusione e una fornace per mattoni refrattari per uso proprio, servendosi del caolino del paese. La detta Società condusse la sua impresa con poco buona fortuna, però si mantenne fino al 15 decembre 1875 in cui cedette per contratto alla ditta Trentin e compagni in Roma per anni 30 i suoi diritti sui possedimenti di Tolfa e Allumiere, collo scavo del minerale, l'uso del forno fusorio e fonderia, insieme a tutti i locali annessi per la fabbricazione dei mattoni refrattari, e tutto questo per un canone di L. 0,60 per tonnellata di minerale, e L. 9000 a titolo di fitto per il forno fusorio, fonderia e fabbrica dei mattoni, ecc. Questa società si propone di far commercio del minerale in natura, erigere altri tre forni di fusione, ampliare l'opificio di fonderia, e costruire una strada ferrata a vapore per essere in comunicazione col porto di Civitavecchia. Piombo. — Quantunque siamo avvertiti dalle osservazioni che il piombo della Tolfa sia stato conosciuto da tempi remotissimi, pure non abbiamo positive notizie del suo trattamento che nei tempi moderni. Il citato manoscritto tolfetano, e la relazione di un Padre Audifredi dei Predicatori incaricato a dar giudizio sulla miniera del piombo di Tolfa, c'informano che nel secolo passato furono intrapresi quei lavori di miniera, e che in tale impresa nella contrada detta le Pozzarelle prossima al Pian Ceraso furono scoperti dei pozzi, dai quali prese il nome la contrada stessa, i quali danno accesso a vaste gallerie sotterranee aperte per la estrazione di quel minerale. Certi avanzi di lavorazione da me adocchiati alla mola del Monte Casalavio, mi hanno fatto credere che il minerale fosse colà condotto per la estrazione del metallo. Sembra che la miniera sia stata da quei tempi dimenticata fino alla sopracitata concessione data al Mattioli nel 1739, per la quale venne fatta la scoperta dei pozzi. Ottenuta, come si disse, in quell'anno la concessione, Alessio Mattioli associò all'impresa il commend. Ricci, il cav. Sagripanti, e Nicola Pierantoni, i quali tutti insieme si portarono alla Tolfa, e assicurata la vena del ferro si rivolsero a quella del piombo sopra Fontana-Inversa presso la Tolfa, di faccia a Cibona, nel monte detto le Pozzarelle; quivi estratta l'acqua dalle antiche gallerie, fu portata fuori una quantità di galena. Ma trattata dallo stesso Mattioli non riuscì ad ottenere il metallo. Laonde venne dissenzione fra i soci, e fu deciso di fare altri tasti, e tentare una sorte migliore. Questo avvenimento di non avere avuto alcun risultato, fu causa che, ad istanza del cardinale Annibale Albani Camerlengo di s. Chiesa, fossero chiamati dal papa Benedetto XIV dalla Sassonia i 4 minatori, perché due di essi attendessero alla cava del piombo, gli altri del ferro. I due primi subito misero mano all'opera, e in breve si fecero padroni della lavorazione escludendo il Mattioli con gravissimo suo danno, e conducendo l'impresa a conto di Camera. Allora si fabbricò l'edificio del piombo con tutti gli annessi necessari per una vasta e stabile lavorazione. Dopo 2 anni i sassoni si fecero cattolici , e furono messi a salario fisso. Ma questi dopo aver manomesse le cave per ridurle all'usanza loro, non ebbero copia maggiore di minerale, né migliorarono la lavorazione. In due anni non estrassero che 30 pani di piombo sciupando una quantità di minerale. Allora furono ordinate visite di periti del paese per giudicare della impresa. Accedettero alla Tolfa prima un tale Giardoni, poi un altro di cui non si conosce il nome. Dietro i rapporti di costoro nel maggio 1750 fu sospesa la lavorazione, e la miniera fu messa all'incanto, coll'obligo di ritenere i lavoranti stranieri. Ma la condizione essendo riuscita troppo gravosa, non si trovò alcun offerente, laonde per non pagare nell'ozio i lavoranti si dovette riaprire l'esercizio. In questa seconda fase, i sassoni non si portarono meglio di prima, perché avendo bruciato più di 50,000 libbre di minerale non ottennero che 25 o 30 pani di piombo con una spesa di 60,000 scudi romani. Allora nel mese di settembre 1751, fu mandato il cav. Giulio Contini, che si trattenne quattro mesi alla direzione dell'impresa. Ma i quattro sassoni essendo venuti in rissa fra loro la Camera ordinò che si cessasse e licenziò tutti i lavoranti. Nel 1773 monsignor Braschi Tesoriere, che fu poi papa Pio VI, dietro gli sperimenti fatti alla zecca dal direttore Giacomo Mazio, ottenne da Clemente XIV la riapertura della miniera, affidando l'impresa ai fratelli Girodetti fonditori piemontesi; i quali alla fusione del minerale facevano precedere la torrefazione, e per mezzo del ferro liberavano il metallo dallo zolfo. Con questo processo non solo ebbero il piombo, ma anche rame e vetriolo verde. E siccome quei piemontesi non erano capaci di condurre le cave, dal Tesoriere Pallotta, successore del Braschi, ne fu data la direzione ad un tal Carlo Battista Presbitero, che fu meno fortunato degli altri. Ad onta di tuttociò l'impresa del piombo della Tolfa non diede mai 1'utile che compensasse le spese. Laonde nel 1778 fu mandato più volte sul luogo un certo Padre Audifredi dell'ordine dei Predicatori perché esaminasse se la miniera era in istato da continuare. Ma questi dopo tante ispezioni praticate sui luoghi, fece una estesa relazione nella quale venne dimostrata la povertà della miniera, cosicché fu decisa la chiusura immediata dello stabilimento, né più si parlò del piombo della Tolfa. Sotto il pontificato di Leone XII si risuscitarono nuove indagini, ma queste non sortirono alcun effetto per una speculazione mineraria. Dalle esposte notizie si ricava che le escavazioni delle miniere del piombo fatte sui monti della Tolfa non furono mai condotte da uomini intelligenti e pratici del luogo, né le operazioni metallurgiche ebbero una direzione veramente scientifica. Prova ne siano le ispezioni fatte sui residui delle vecchie lavorazioni abbandonati, e che tuttora giacciono prossimi all'edificio del piombo, in cui rinvenni molti prodotti che si sarebbero potuti utilizzare, specialmente il rame. Il giorno 11 settembre 1860, Giuseppe Bonizi della Tolfa ottenne la concessione dei solfuri di mercurio, antimonio, zinco e rame, valevole per anni 50, con un canone di scudi 10 romani all'anno, pari a lire 53,75, con partecipazione del Governo agli utili, limitata entro un circolo di due chilometri di raggio. Appresso di questa il giorno 6 aprile 1861, lo stesso Bonizi aggiunse a quella concessione anche il solfuro di piombo, alle medesime condizioni, o col solo aumento del canone di scudi romani 5, pari a lire 26,87. Fatta una società, si fecero di questo esperimenti, e si ricavò piombo argentifero in proporzioni convenienti; ma poi la medesima società non avendo forza ad accingersi ad una più vasta impresa, si arrestò nella inerzia nella quale si trova tuttora. Mercurio. — Correva l’inverno del 1860 allorché una frana, entro un fosso dello Scopeto, fece scendere molto materiale, nel quale si raccolsero vari minerali, che mi vennero portati ad esaminare. Vi trovai ciottoli di calcare cristallino misti a blenda, galena, e specialmente a piriti di ferro in decomposizione, e tinti di un bruno ocraceo. A prima vista non mi parvero contenere altro: ma poi un esame più scrupoloso mi fece scorgere un gruppetto di cristallini rossi di rubino, che giudicai per cinabro nativo. Essendo la prima volta che mi si offriva tal minerale, volli farne esperimento, e raccoltane poca, ma sufficiente quantità, la posi in una piccola storta con calce viva. Il mercurio sublimato, nel di lei collo fu raccolto, e dimostrato all' evidenza. Dietro questo risultato si praticarono scavi sulla frana e scopertane la parete si videro due venuzze di cinabro nativo serpeggiare nella roccia, costituite da quei medesimi cristallini, che cadendo al più leggiero tocco si perdevano nella terra. Si trovarono poi lungo il fosso quei medesimi cristallini, raccolti nelle piccole pozze trascinativi dalle acque correnti. Tale fu la scoperta del cinabro nativo fra i solfuri metallici della Tolfa. Nella citata concessione dei solfuri metallici della Tolfa vi si comprese anche il mercurio: ma tutti subirono la stessa sorte, vale a dire ne furono estratti campioni, senza alcun profitto. Ocre. — Nelle mie escursioni scientifiche sui monti della Tolfa avendo adocchiata la quantità delle ocre che si formano per la decomposizione spontanea del ferro limonitico, e le loro svariate e brillanti tinte, volli farle sperimentare, come terre a colori. Adoperate da vari amici pittori, riuscirono eccellenti e molto fruttifere. Però la società romana, avendo il diritto su tutti i minerali di ferro, tentò farne speculazione per metterle in commercio. Ma non essendo questo lo scopo della sua istituzione desistette, e le ocre tolfetane non furono più curate. Quarzo. — Nel 1724 un uomo che si diceva intendente di mineralogia, andò alla Tolfa, e fatta una perquisizione sii quei monti, disse che vi erano molti minerali, e fra questi, quello che serve alla fabbricazione del cristallo poteva costituire una miniera più facile e di poca spesa. Predicato in Roma 1'utile che avrebbe dato, a fine di trovare soci, un tale abate Fabroni fiorentino, nel 1731, ottenne dal Papa la privativa di quel minerale e dalla Camera la prestazione di scudi romani 2000, per intraprenderne i lavori, colla sicurtà del cavalier Franceschi parimente fiorentino. Ma essendo mal riuscito alle prove, perché il vetro ottenuto risultò alquanto oscuro, l'impresa fallì e la sicurtà fu pagata. Peraltro l'abate Fabroni non desistette, e ravvicinato quello stesso Alessio Mattioli, di cui abbiamo di sopra parlato, questi intraprese nuove e più diligenti indagini. Mentre si facevano queste pratiche morì l'abate Fabroni e la privativa decadde, tornando la Camera in possesso delle miniere. Così nessuno parlò più del quarzo della Tolfa. Ancor io volli a questo fine sperimentare il quarzo della Tolfa, raccolto nella cava del sasso alluminoso detta la Ballotta, e alle Trincere presso le Allumiere. Fu lavorato in Roma in una fornace del Trastevere, che allora esisteva in via del Mattonato, e nella fusione si ebbe molto sviluppo di gas, il quale cessato, il vetro risultante riuscì di buona qualità, e perciò ne furono fatte bottiglie, bicchieri ed altri lavori ordinari. Caolino. —Due fratelli israeliti per nome Bondi, avendo inteso da una vecchia tradizione che alla Tolfa si trova l'oro, si mossero a farne ricerca, e rinvenuta una certa argilla contenente piriti credettero aver fatto il loro affare. Segretamente le fecero sperimentare; ma non vi trovarono che poca quantità di argento. Ciò bastò loro per domandare subito la concessione dell'argilla plastica, senza parlare delle piriti o dello scopo a cui miravano. Di fatti l'ottennero a nome di Crescenzo Bondi per anni 50, in data 16 febbraio 1857, coll'annuo canone di oncie 10 d'argento pari a lire 53,75, circoscritta in un' area di 16 miglia quadrate. Formata una società d' Israeliti, costrussero nel villaggio della Bianca delle vasche per separare il metallo dall'argilla, che misero in commercio per uso figulinario, e che venne dai lavoranti rifiutata come pessima e vetriolica. Nondimeno seguitarono a separare le piriti che spedivano fuori di Roma, per ricavarvi il metallo prezioso. In questo tempo, dietro la richiesta fatta loro di una partita di caolino, vennero a sapere che questo minerale poteva essere impiegato come argilla refrattaria, e a fabricar porcellane. Vedendo in seguito la società di non poter ricavare grandi profitti dalle piriti, come avea creduto, risolvette di abbandonare il loro trattamento, e rivolgersi a negoziare del caolino. A tale scopo ne fu aperta una cava sopra il villaggio della Bianca, e se ne fece deposito per essere messo in commercio come veniva cavato. La società romana delle miniere del ferro avendo eretta una fabbricazione di mattoni refrattari per uso dei suoi stabilimenti, conoscendo le buone qualità di tale sostanza, fece un contratto cogli Ebrei per la quantità occorrente, e questo fu il solo impiego che di quel caolino fu fatto sui monti della Tolfa. Finalmente la società israelitica cedette i suoi diritti per contratto in data 18 aprile 1876 ad un'altra società Marchand e compagni, che tuttora ne ritengono l'impresa. Derivato questo materiale dalla decomposizione delle trachiti, numerose varietà di esso si trovano associate a quelle roccie, e sperimentato in Francia e in Italia ha dato sempre per risultato eccellenti porcellane. Oltre il caolino, sui monti della Tolfa si trovano anche le marne subapennine per usi figulinari, come sono quelle della Concia sotto il paese di Tolfa, adoperate per la fabbricazione di mattoni e tegole, onde sopperire ai bisogni del paese. Lignite.— Al principiare di questo secolo un proprietario della Tolfa, avendo fatta attenzione che le roccie del Monte Castagno e del sottostante fosso Cupo ardevano, disse che fra gli altri prodotti di quei monti v’era anche il carbon fossile che si sarebbe potuto mettere a profitto. Ma il paese essendo provvisto ad esuberanza di carbone vegetale, nessuno vi prese interesse, e le osservazioni di colui restarono lettera morta. Nondimeno fin d'allora si diceva che alla Tolfa v'era anche il combustibile minerale. Così restarono le cose quando, sia perché la distruzione delle selve sempre più avanzava, sia per spirito d'intrapresa, sia anche per ambedue quelle cause, i fratelli Angelo e Giuseppe Bonizi della Tolfa tornarono a far esame di quelle roccie, e fattone esperimento le credettero indizio sicuro di un deposito di carbone, ovvero anche di una lignite, capace di essere messa a profitto, specialmente in una contrada che richiama ad imprese minerarie. Domandata pertanto la concessione al governo pontificio, giorno 18 dicembre 1857 la ottennero a nome di Giuseppe Bonizi per anni 59, e al canone annuo di scudi romani 15, pari a lire 80,62, circoscritta entro un' area circolare di 2 chilometri di raggio. Ottenuta la concessione fecero appello ad una società in partecipazione che presto si compose. Furono rinnovati esperimenti su quelle roccie contenenti carbonio, applicandole in un forno a riverbero alla cottura dell'allunite e della calce, ed essendo bene riuscite, se ne intraprese l'escavazione coll'apertura di pozzi tanto a mezza costa del Monte Castagno, quanto sulla sponda del fosso Cupo. Fu scoperta una lunga serie di stratificazioni della formazione Alberese, costituita da un'alternanza di calcarie argillose, e di schisti più o meno carichi di carbonio, d'impressioni di piante specialmente focoidi, e di più al fosso Cupo un banco contenente grossi pesci disfatti. I lavori si protrassero per alcun tempo, ma non avendo mai raggiunti i desiderati depositi di combustibile, i fondi immessi terminarono, e la società scoraggiata sospese le escavazioni di ricerca, né altro fu fatto in seguito per il fine che si era proposto. Pietra litografica. — Le roccie dell'Alberese costituite da calcarie argillose a fina tessitura, e di un bigio turchiniccio, possono essere adoperate come pietre litografiche. La Società romana delle miniere del ferro, volle far prova di quelle della Tolfa e riuscita nell'esperimento, fece ricerca delle migliori e ne estrasse una certa quantità per essere messe in commercio. La speculazione forse avrebbe potuto dare un buon risultato ma siccome anche questa era fuori dello scopo Sociale, dovette desistere, lasciando memoria di questo prodotto tolfetano. Dopo queste notizie lo scopo della mia narrazione interamente soddisfatto; ma non per questo è completa l'esposizione geologica della Tuscia romana; conciossiaché io non ho parlato che della Tolfa o di una parte di essa. Per dare intera ragione di tale interessante contrada mancano ancora gli studi necessari, e che si richiedono a conoscere meglio che si può il periodo vulcanico che succedette al trachitico durante lo svolgimento del gran cataclisma vulcanico-glaciale a cui fu sottoposta 1' Italia centrale nei tempi quaternari. Abbiamo veduto nella seconda parte di questa Memoria che allora la Tuscia romana fu fatta teatro di quelle scene sovversive, per le quali non solo sorsero i grandi apparecchi vulcanici che ne occupano la più grande parte; ma altresì furono la causa della grande emersione subapennina, o della riduzione dell' Italia allo stato attuale. Nella mia carriera scientifica solo e senza soccorsi mi sono gettato in un pelago immenso e sconosciuto, vi ho navigato fin dove le mie forze mi spinsero: però non ho potuto raggiungere tutto ciò che avrei voluto. Il tempo è mancato, né mi ha permesso intraprendere lo studio speciale dei vulcani etruschi, come ho potuto fare della Tolfa e del Lazio. Laonde resta un vuoto che attende un generoso naturalista che voglia impegnarsi a completare lo studio di quella interessante contrada. Lo stesso mio amor proprio mi spinge a far voti perché ciò avvenga, nella lusinga che i miei tralasciati lavori siano portati a compimento, e la geologia italiana arricchita di ulteriori e stupende cognizioni.
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(1) Ponzi, Cronaca subapennina. Atti dell'XI Congresso degli scenziati italiani. Roma, 1873.
(2) Sulla esistenza del Realgar e dell'orpimento nei monti di Santa Severa. provincia di Roma. Atti della R. Accad. dei Lincei vol. I° serie 3.° Transunti febbraio 1877
(3) Ponzi. Storia dei vulcani laziali. Atti della R. Accad. dei Linci. Tomo II.' serie 2.° 1375.

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