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Quell'Osteria di Burracciò amarcord di anni genuini

TOLFA — Cantammo insieme i canti della montagna: i cori alpini. Bevemmo l'acqua aspra e ferrigna di Rota. Gustammo il piatto antico della cucina dei poveri: la trista. Lo stufato della carne di volpe, dopo che il selvatico odore era stato assorbito dall'aceto e dalla cipolla, veniva mangiato in allegria, perché il vino non costava nulla, le pelli delle volpi avevano fruttato il prezzo della cena.
Lì, sui quei banchi di castagno stagionato, ammirando la fiamma del cerro che ardeva nel grosso camino, davanti al bicchiere di vino biondo di collina, giuocammo le partite di briscola e tressette: animate, furibonde partite per mezzo litro di «posta». Lì, in quella stanza, dominio assoluto di Primetto di Burracciò e della Checca, fedele compagna, nel lavoro dei campi e della cucina rustica che sapeva di pasta e patate, pasta e fagioli, di fagioli con le cotiche; dove la cotica diventava motivo di «litigio» tra Primetto padre e Santino figlio, perché l'acqua cotta era il piatto quasi quotidiano. Li in quel locale, in quelle stanze, tra quelle mura antiche, dove l'odore del fieno e della «rapazzola» non mancava mai, perché era il profumo del lavoro dei campi e delle botteghe artigiane: fabbri e falegnami; lì, nell'Osteria di Burracciò, trascorsi, trascorremmo sereni e tranquilli, forse gli anni più belli della nostra giovinezza.
«Questa sera all'osteria di Burracciò», era la voce, a mangiare il capretto di Ardalio, l'abbacchio di Giovanni, oppure la volpe di Tittarella, oppure la trista, preparata con pane raffermo abbrustolito, acqua bollita con tanto peperoncino, aglio, mentuccia, per bagnare il pane e poi sopra olio d'oliva e formaggio pecorino grattuggiato. Allora litri e litri di vino bianco «purificavano» insieme a la trista avvelenata di peperone, l'anima ed il corpo, meglio l'intestino e vie biliari.
E gli amici erano Carlo, Mario, Antonio, Faustino,Otello, Angelo: quelli per i quali la gioventù, la giovinezza sembrava essere eterna e bella; infatti fu bella ma non eterna. Perché queste righe me la fanno ricordare, rimpiangere. Me la fanno ricordare per il sapore di quell'umanità che non c'è quasi più, nella mia Tolfa, nel mio paese fatto di osterie, di caffè popolari, dove l'uomo era il protagonista con le sue virtù e i suoi vizi, ma sicuramente senza trucchi. Uomini chiari e puliti come l'acqua del Mignone, dove Girelletto pescava il pesce per friggerlo o marinarlo all'osteria di Burracciò.
Dove oggi c'è Santino e la moglie Simona. Dove ancora nella stanza interna, al caffè-osteria, anzi «Snack Bar di Santino», si gioca a carte, alle carte napoletane, a briscola e tressette, a scopa e scopone.
Dove si beve il bianco di Tolfa o di Vignanello. Dove i tavoli e le panche fanno ancora osteria di ieri, perché le persone sono ancora quelle della nostra giovinezza: facce e volti di gente che ha lavorato. Quell'umanità stanca e sofferente, che ama e sa amare la vita, dove la stretta di mano vale ancora. Dove il sabato e la domenica a sera, tra i rumori dei video giochi assediati dai ragazzi, il bar aggredito dai giovani e l'osteria zeppa dei giovani di ieri, avverti la sensazione vera, di una umanità che sprigiona sentimenti di comprensione, benevolenza e moderazione. Dove Giulio, Lucio, Bruno, Antonio, Giuseppe e tanti altri vivono la loro avventura terrena, felici, senza complessi. Dove la presenza anche di. Medoro, reale od irreale che sia, ti ricordano di amare l'uomo e i suoi sentimenti, che non sono certamente quelli della società dei consumi che ogni giorno di più, con le sue incongruenze, nell'arte, nella cultura, nell'economia, nell'ecologia, ti fanno quasi quasi rimpiangere la vita ricevuta in dono per una sola realtà: essere per amare soltanto. Questo è l'Osteria di Burracciò.