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La <<rapazzola >> scomodo giaciglio

TOLFA — Pensare, sognare, riposare, volare con la fantasia, mentre si è distesi su morbido giaciglio, magari in una stanza calda, ascoltando una sinfonia di Bach o la pastorale di Beethoven. No, niente dituttoquesto,ma una ruvida rapazzola dopo una giornata piena di lavoro edi quello faticoso, come una giornata di semina sui terreni forti e sassosi della Tolfa.
La rapazzola era il letto (parola grossa), meglio giaciglio scomodo dove le ossa si raddrizzavano se erano storte si storcevano se erano di dritte. Veniva ricavata all’interno di una capanna a maniera di conoera il letto di chi doveva dormire in campagna, perché era impossibile tornare la sera a Casa.
Troppa era la distanza della campagna dal centro abitato. Né c’erano mezzi di comunicazione, né c'erano strade comode, ma solo tratturi e sentieri,  ricavati sul terreno accidentato e più adatto a percorrere con animali e carri. La semina comunque, qui a Tolfa, si faceva sempre lontano dal paese. Era perciò necessario dormire nella rapazzola con tutta la famiglia. Ci si arrangiava, come si dice in gergo.
Costruita la  capanna o magari trovatane  una libera lasciata dai pastori di pecore, si procedeva alla sistemazione ex novo del letto per dormire: la rapazzola. Erano tronchi di castagno che si tagliavano nei boschi vicini per ricavarne filagne paletti e piri (pioli) per approntare la branda o le brande.
Se c'era la famiglia da alloggiare se ne costruiva una grande che gira­va intorno alla capanna e poi la si divideva, assegnando ad ogni componente la sua parte di “amaca” Al centro della capanna, dopo la rapazzola, si ricavava il focolare dove accendere il fuoco e magari cucinare qualche cosa da mangiare, specialmente se il tempo era stato inclemente.
E poi la sera, dopo un giorno trascorso con la zappa o il picchio a rompere una terra dura e scogliosa, la sera, quando calava il sole, dopo aver mangiato un po’ di minestra calda, magari con un po’ di fuoco rimasto acceso, giù tutti a dormire sulla rapazzola. E li tutti a sognare, ma non con le musiche di Bach o Beethoven, ma con i debiti da paga re: la spesa del bottegante, lo stacco (il corredo) da regolare col negoziante, la sementa (il grano) da restituite, le scarpe soprattutto da saldare al calzolaio. E tutto sarebbe andato bene e sognato meglio se la semina fosse andata bene: almeno avesse dato un dieci.
E la rapazzola che era stata imbottita di scopone (ginestra del carbonaio) diventava sempre più morbida a seconda del sogno bello o brutto che si faceva. E il sogno più bello era sempre quello: pagare tutte le spese per fare l'anno prossimo una semina più grande, perché più le cose ti andavano bene in campagna e più credito ottenevi dal negoziante in genere e magari pure dallo strozzino» se ti serviva qualche soldo.
E la rapazzola “ascoltava” e scricchiolava la notte con questi pensieri che andavano e venivano come le nuvole nei giorni di pioggia. Oggi la rapazzola, è un ricordo, una reminiscenza di qualche tempo fa, di quaranta-cinquant'anni. Tempi eroici: non c'era la televisione e la radio eraquella del caffè. Non c'era la lavatrice ed il frigo. C'era la povertà, quella predicata da S. Francesco, ma il pane aveva un sapore diverso, come il vino, il galletto ruspante del giorno di festa. L'uomo era l'uomo della rapazzola e non della macchina che ti fa arrogante, prepotente: allora si sognava l'amore, oggi invece si sogna il denaro. E pensare che la gomma piuma non rompe le ossa come la rapazzola.